La Cassazione torna sui confini tra i reati di estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni

La Cassazione torna sui confini tra i reati di estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni

La Cassazione è di recente tornata ad occuparsi del discrimen tra i reati di estorsione e di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, pronunciandosi in merito alla vicenda di un soggetto condannato per i reati di tentata estorsione e lesioni per aver incaricato terzi della riscossione di un credito vantato nei confronti della parte offesa, nonché di eseguire pestaggi ai danni della stessa. Il ricorrente, segnatamente, lamentava  l’errata qualificazione giuridica del reato di tentata estorsione che avrebbe dovuto essere ricondotto all’ipotesi di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, posto che la distinzione le due fattispecie si fonderebbe sulla giustizia o meno del profitto perseguito.

In effetti, la Cassazione ha osservato a più riprese come il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni possa avere in comune la materialità del fatto con diversi altri reati, tra i quali l’estorsione. Ciò che differenzia il reato in discorso rispetto agli altri, tuttavia, è l’elemento psicologico, che consiste nella ragionevole opinione di realizzare una pretesa legittima, in casi nei quali la pretesa è munita di azione, pur se in concreto risulti infondata. Ricorre, invece, il reato di estorsione allorché l’agente non sia titolare di alcuna situazione giuridica azionabile, ma intenda soltanto conseguire un indebito vantaggio, mediante la minaccia di un ingiusto danno (si pensi all’ipotesi di pretesa derivante da contratto con causa illecita o da obbligazione naturale). [1]

In ordine alla rilevanza della entità della violenza o minaccia, al fine della distinzione tra i due reati, si rinvengono due orientamenti: secondo un primo orientamento i due reati si distinguono non per la materialità del fatto, che può essere identica, ma per l’elemento intenzionale che, qualunque sia stata l’intensità e la gravità della violenza o della minaccia, integra la fattispecie estorsiva soltanto quando abbia di mira l’attuazione di una pretesa non tutelabile davanti all’autorità giudiziaria[2]; per un secondo orientamento, per contro, ai fini della distinzione tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione, occorre avere riguardo al grado di gravità della condotta violenta o minacciosa che, se manifestata in modo gratuito o sproporzionato rispetto al fine, ovvero tale da non lasciare possibilità di scelta alla vittima, integra gli estremi del più grave delitto di estorsione.[3]

Le pronunce ora esaminate, tuttavia, fanno riferimento ai casi in cui la condotta tipica è posta in essere da colui che ha la titolarità del preteso diritto, diversamente da quanto accaduto nella vicenda in esame, ove tale soggetto assumeva la posizione di mandante. Occorre ricordare, infatti, che diversamente da quello di estorsione il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni rientra tra i cosiddetti reati cosiddetti “di mano propria”.

A tal proposito, la giurisprudenza si è orientata nel senso di ritenere che ricorre il reato di estorsione, e non già quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, allorché il titolare del credito – la cui natura lecita o illecita è irrilevante – incarichi un terzo della esazione, laddove quest’ultimo agisca con violenza o minaccia nei confronti del debitore. Il mandante di tale operazione risponde a titolo di concorso[4].

Di recente, la Cassazione, chiamata a pronunciarsi sullo stesso tema, ribadisce che “in caso di concorso di persone nel reato, solo ove la condotta tipica di violenza o minaccia sia posta in essere dal titolare del preteso diritto è configurabile il concorso di un terzo estraneo nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni (per agevolazione, o anche morale), mentre, qualora la condotta sia realizzata da un soggetto diverso dal creditore, essa può assumere rilievo soltanto ai sensi dell’ art. 629 c. p.” (Cass. pen., sentenza n. 44234, 13 – 26 settembre 2017).

Nel caso di specie, peraltro le modalità esecutive dell’agguato andavano ben oltre “i limiti della ragion fattasi” e assumevano “i contorni di una spedizione finalizzata a punire – la vittima – anche per il sospetto di una possibile collaborazione con le forze dell’ordine”, laddove nella fattispecie di esercizio  arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, “la modalità strumentale, violenta o minacciosa non può trasmodare in manifestazioni sproporzionate e gratuite, in intima contraddizione con l’elemento psicologico della fattispecie condensato nella convinzione dell’esercizio, sia pure solo preteso, di un diritto”.

Nel dichiarare inammissibile il ricorso, la Cassazione chiarisce che, in definitiva, ciò che caratterizza il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è “la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato: ne consegue che la condotta violenta o minacciosa non è mai fine a sé stessa, ma è strettamente connessa alla finalità dell’agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale, e pertanto non può mai consistere in manifestazioni del tutto incompatibili con il ragionevole intento di far valere un diritto”.


[1] Ex plurimis, Cass, n. 12247/1977.

[2] Ex plurimis, Cass. pen. n. 44674/2015.

[3] Ex plurimis, Cass. pen. n. 1921/2016.

[4] Tra le varie pronunce, v. Cass. Pen. n. 1195/1998 e Cass. pen. n. 12982/2006.


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