La causa del contratto e il controllo di meritevolezza
La causa del contratto e il controllo di meritevolezza con particolare riguardo al contratto autonomo di garanzia, alla c.d. claims made, al pagamento traslativo, al contratto in frode alla legge.
Si può osservare che dal dato costituzionale emerge un principio di razionalità, cristallizzato nell’art. 3 Cost., secondo cui le operazioni economico-giuridiche, svolte all’interno dell’ordinamento giuridico, devono avere una propria “logica giustificativa”, una funzione.
Originariamente, in dottrina la causa era intesa come elemento essenziale della singola obbligazione, in coerenza con il codice civile del 1865, al cui art. 1119 era previsto che “l’obbligazione senza causa, o fondata su una causa falsa o illecita, non può avere alcun effetto”. Il codice vigente ha accolto una tesi unitaria, concependo una causa del negozio in termini generali.
Il codice civile, com’è noto, pur lasciando un ampio spazio all’autonomia privata, ha scelto determinati modelli contrattuali in base alla loro importanza o frequenza, tipizzandoli nella struttura e, altresì, attribuendo loro un nomen juris.
Questi, in particolare, sono individuati in un ampio elenco previsto dal Titolo III del Libro IV del codice, dedicato propriamente ai “singoli contratti”. Esistono, e aumentano progressivamente, anche modelli extra-codicistici, individuati dalla legislazione speciale (per esempio nel caso dell’affiliazione commerciale o franchising);
Esistono anche “tipi sociali”, ossia modelli negoziali adottati frequentemente dai privati per determinate operazioni economiche, sebbene – non ancora – disciplinati dalla legge (come nel caso, per esempio, del contratto di ormeggio). Il procedimento di tipizzazione passa, di regola, attraverso una serie di passaggi: da una fase di “atipicità” in cui lo schema contrattuale è individuato direttamente dall’autonomia negoziale si transita a una seconda fase caratterizzata dall’uso generalizzato in una determinata realtà sociale o commerciale e si arriva a una terza, di accoglimento da parte dell’esegesi giurisprudenziale, fino alla loro previsione da parte del legislatore. Nel momento finale di questa evoluzione il negozio acquisisce, così, l’approvazione completa da parte dell’ordinamento giuridico, il quale lo dichiara, di fatto, meritevole di tutela. Non è necessario, allora, per il giudice indagare ulteriormente sulla funzionalità astratta: il giudizio sulla meritevolezza è stato offerto direttamente dalla legge. Questa opinione viene disattesa da chi propone una interpretazione dell’art. 1322, 1° c. cod. civ., secondo cui il controllo causale, aderendo a una nozione di causa in concreto, come funzione economico individuale del contratto, va effettuato anche per i contratti nominati. Per i contratti innominati – perché creati dall’autonomia delle parti o dalla prassi sociale – è necessario un vaglio giudiziale nel caso della loro impugnazione da parte dei contraenti. Occorre, infatti, che gli stessi rispettino, quanto alla loro struttura, sia i principi dell’ordinamento nonché le regole di validità che la normativa civilistica impone. Questa valutazione sembra attenere, quindi, al concetto di “causa astratta”, quale funzione economico-sociale del contratto.
La sentenza delle Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione 24.09.2018 n°22437 – in tema di clausola claims made o a “richiesta fatta” inserita in una polizza assicurativa – statuisce la necessità da parte del Giudice di procedere, anche d’ufficio, per i contratti tipici, al vaglio ex art. 1322 1°comma c.c. della causa concreta del contratto o della clausola contrattuale, per verificare l’esistenza o meno di uno squilibrio tale tra gli interessi regolati equivalente ad una carenza della causa dell’operazione economica. Sul punto si è espressa recentemente la Suprema Corte, affermando, in primis, che un prezzo irrisorio o vile non determina automaticamente la nullità del contratto per mancanza dell’oggetto, quale elemento essenziale, ex art. 1418, co.2, c.c.; al contrario, solo se la controprestazione fosse meramente simbolica o priva, comunque, di un valore effettivo (come per il contratto nummo uno), potrebbe inficiare la compravendita di nullità per mancanza di un elemento essenziale. Tuttavia, nel caso in cui un prezzo – sebbene irrisorio – fosse materialmente presente, sarebbe comunque possibile vagliare la causa concreta del negozio nella sua adeguatezza: in tal modo, infatti, si potrebbe indagare, proficuamente, se il contratto così stipulato possa effettivamente rispondere al reale intento negoziale delle parti.
Un altro caso in cui la giurisprudenza si è di recente espressa in merito alla adeguatezza negoziale, concerne il contratto di assicurazione c.d. on claims made basis (lett. a richiesta fatta) con cui l’istituto assicurativo si impegna a mantenere indenne l’assicurato laddove la domanda di risarcimento del terzo danneggiato giunga mentre è ancora attiva polizza. Al contrario, attraverso la clausola c.d. loss occurance – che costituisce invece la modalità ordinaria di assicurazione – il risarcimento è condizionato, per contro, alla verificazione dell’evento-danno (incident) nel periodo assicurato dalla polizza. Le Sezioni unite, sul punto, hanno da un lato affermato la tipicità (e la consequenziale meritevolezza) delle clausole claims made perché previste in più occasioni dalla legislazione speciale (per esempio, dall’art. 11 l. n.24/2007) nonché dall’art. 1932 c.c.; tuttavia hanno anche precisato che in base alle modalità concrete con cui esse sono stipulate, le stesse potrebbero risultare comunque inadeguate a soddisfare l’interesse per il quale il cliente ha stipulato l’assicurazione. È il caso, in particolare, di quelle “impure”, dove è previsto che sia la richiesta di risarcimento che il fatto che l’ha generata debbano collocarsi in costanza della policy.
La giurisprudenza successiva, inoltre, si è occupata di evidenziare i rimedi che l’assicurato può esercitare in via giudiziale contro un contratto così configurato, ossia: l’azione di risarcimento per la responsabilità precontrattuale, laddove abbia stipulato l’assicurazione a condizioni svantaggiose (per la violazione delle cc.dd. regole di condotta); l’azione di nullità, anche parziale, del contratto per difetto di causa in concreto (in quanto, per l’appunto, “inadeguato”); nonché la possibilità di chiedere la conformazione del negozio in presenza di clausole abusive (come il recesso dell’assicuratore in caso di denuncia del sinistro).
Le Sezioni Unite chiariscono che il giudizio di meritevolezza resta ancorato al presupposto dell’atipicità contrattuale, mentre per i contratti tipici, il Giudice, deve indagare sulla causa concreta del contratto o della clausola contrattuale, al fine di verificare se l’assetto negoziale realizzi o meno la funzione pratica del contratto. Quindi, secondo la Corte occorre indagare con la lente del principio di buona fede contrattuale se lo scopo pratico del regolamento negoziale presenti un arbitrario squilibrio giuridico delle prestazioni fra le parti, ed in caso positivo al Giudice spetterà valutare l’adeguatezza del contratto o della clausola contrattuale allo scopo pratico perseguito dai paciscenti.
Il giudizio sulla meritevolezza ha mostrato, tuttavia, alcuni suoi limiti rispetto a quelle ipotesi nelle quali il contratto non sembrava riuscire a soddisfare – appieno – la funzionalità concreta dell’operazione economica, ossia l’intento delle parti. Nei modelli tipizzati, infatti, si è osservato che il contratto, pure astrattamente meritevole (perché ritenuto tale dallo stesso legislatore), poteva ugualmente risultare “inadeguato” in relazione alla sua causa concreta.
Un primo esempio può essere offerto dai contratti di compravendita cc.dd. “a prezzo vile” e “nummo uno” (lett. dal latino “per un soldo”), in cui la controprestazione economica è, rispettivamente, molto inferiore al valore di mercato dello stesso bene offerto o, nel secondo caso, addirittura meramente simbolica. I negozi in questione sono, almeno nella loro struttura, senz’altro tipici giacché disciplinati dagli artt. 1470 e ss. c.c., tuttavia era dubbio se potessero essere anche adeguati rispetto alla causa concreta (ossia lo scambio di cosa contro un prezzo) e, di conseguenza, se rispettassero la necessaria “sinallagmaticità” dei rapporti tra venditore e acquirente.
L’inidoneità del provvedimento rispetto allo scopo può avere, in realtà, diverse cause: alcune possono attenere, innanzitutto alla fase procedimentale, quale un difetto d’istruttoria, o un erroneo contemperamento degli interessi in gioco. In questi casi, laddove dall’inadeguatezza derivi un danno ai destinatari dello stesso provvedimento, il sindacato del giudice incontrerà comunque i limiti del merito della p. a., a eccezione dei casi di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133 c.p.a.
In conclusione, i caratteri della meritevolezza e dell’adeguatezza quali espressioni della causa nel suo lato astratto e concreto, fanno supporre che le tesi su questo elemento essenziale non siano antitetiche ed escludenti l’una con l’altra. Difatti, il contratto deve essere oltre che conforme, nella sua struttura genetica, ai principi generali dell’ordinamento, anche essere idoneo a soddisfare l’interesse specifico delle parti che l’hanno concluso; e lo stesso può dirsi del provvedimento amministrativo, rispetto all’interesse pubblico perseguito dall’ente che lo ha emesso. Dunque, si può affermare che queste due anime convivano in una sorta di “causa bifronte” attraverso la coesistenza della funzione economico-sociale e della ragione pratica.
La sentenza Corte Appello di Venezia, 2 luglio 2020 affronta la questione delle differenze tra contratto autonomo di garanzia e fideiussione, partendo dalla presenza di una particolare clausola molto ricorrente nella pratica.
Vediamo anzitutto quale è il contenuto della sentenza.
Secondo la citata sentenza, La clausola del contratto di fideiussione secondo la quale il fideiussore è tenuto a pagare immediatamente, a semplice richiesta scritta, anche in caso di opposizione del debitore, non è di per ciò solo idonea a qualificare tale atto come un contratto autonomo di garanzia, non essendo sufficiente ad escludere l’accessorietà della garanzia e il conseguente diritto del fideiussore di opporre le eccezioni relative al rapporto fondamentale.
il contratto autonomo di garanzia ha la funzione di tenere indenne il creditore dalle conseguenze del mancato adempimento della prestazione gravante sul debitore principale, contrariamente al contratto del fideiussore, il quale garantisce l’adempimento della medesima obbligazione principale altrui (attesa l’identità tra prestazione del debitore principale e prestazione dovuta dal garante): invero, la causa concreta del contratto autonomo è quella di trasferire da un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale, sia essa dipesa da inadempimento colpevole oppure no, mentre con la fideiussione, nella quale solamente ricorre l’elemento dell’accessorietà, è tutelato l’interesse all’esatto adempimento della medesima prestazione principale. Ne deriva che, mentre il fideiussore è un “vicario” del debitore, l’obbligazione del garante autonomo si pone in via del tutto autonoma rispetto all’obbligo primario di prestazione, essendo qualitativamente diversa da quella garantita, perché non necessariamente sovrapponibile ad essa e non rivolta all’adempimento del debito principale, bensì ad indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata, sostitutiva della mancata o inesatta prestazione del debitore.
Un altro importante ambito dell’interazione fra giudizio sulla causa in concreto e giudizio di meritevolezza è il c.d. pagamento traslativo, istituto non espressamente disciplinato dal codice civile e sulla cui ammissibilità si è sviluppato un intenso dibattito. Prima di procedere con l’analisi delle diverse tesi sorte intorno alla questione dell’ammissibilità del pagamento traslativo, appare opportuno fornire una possibile definizione dello stesso. Con tale locuzione si indica l’atto con cui il debitore, al fine di adempiere ad una preesistente obbligazione, trasferisce al creditore la proprietà di un determinato bene. Tanto precisato, occorre mettere in rilievo che il pagamento traslativo, così come definito, è un atto traslativo solvendi causa, che si distingue tanto dalla vendita di cosa altrui di cui all’art. 1478 c.c., quanto dall’ipotesi ex art. 1476, comma 1, n. 2, c.c. .
Ne deriva, quindi, che, non esistendo, all’interno del nostro ordinamento, un contratto tipico in virtù del quale si adempie ad una precedente obbligazione mediante il trasferimento della proprietà, occorre interrogarsi sulla possibilità di ammettere il pagamento traslativo quale atto di adempimento.
Secondo una prima impostazione, il pagamento traslativo non è ammissibile nel nostro ordinamento. Tale conclusione si fonda su due principali argomenti sistematici. In primo luogo, con l’art. 922 c.c., il Legislatore ha inteso disciplinare i modi di acquisto della proprietà attraverso un sistema chiuso e tipico, all’interno del quale non rientrerebbe il trasferimento della proprietà in adempimento di un precedente obbligo. In secondo luogo, è necessario rilevare che i contratti che hanno ad oggetto il trasferimento della proprietà sono sorretti dal principio del consenso traslativo. In tal senso, infatti, l’art. 1376 c.c. stabilisce che, al fine di trasferire la proprietà di una cosa determinata, è necessario il consenso legittimamente manifestato dalle parti. In virtù di tale disposizione, dunque, anche la parte che acquista il diritto di proprietà dovrebbe manifestare il proprio consenso e ciò anche in virtù del principio di relatività degli effetti del contratto ex art. 1372 c.c. . Tale ultima norma, infatti, stabilendo, al comma 2, che il contratto non produce effetti nei confronti dei terzi, fatti salvi i casi previsti dalla legge, è anche espressione della regola dell’intangibilità della sfera giuridica altrui. Unica eccezione al riguardo si rinviene nel contratto a favore di terzo di cui all’art. 1411 c.c., caratterizzato, in ogni caso, dalla facoltà di rifiuto riconosciuta in capo al terzo stesso, nonché dall’attribuzione a quest’ultimo di effetti positivi derivanti dal contratto.
Da quanto esposto, dunque, deriva che il trasferimento della proprietà di una cosa determinata o del diritto di proprietà di un determinato bene avviene per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato, attraverso uno dei modi espressamente previsti dalla legge, con la conseguenza che il pagamento traslativo, non integrando alcune delle fattispecie tipiche di cui all’art. 922 c.c. e non rispondendo alla logica del principio consensualistico ex art. 1376 c.c., non sarebbe ammesso nel nostro ordinamento. In aggiunta a tanto, inoltre, l’indirizzo che nega la configurabilità del pagamento traslativo fa leva anche su un altro rilevante principio che regola i rapporti obbligatori, vale a dire quello causalistico. In accordo con tale regola, infatti, ogni trasferimento patrimoniale deve essere sorretto da una giustificazione causale. Nell’ipotesi del pagamento traslativo, l’atto di trasferimento non apparirebbe sorretto da una causa concreta, dando vita, così, ad un fenomeno di astrazione sostanziale, non ammesso nel nostro ordinamento.
Dato atto dell’orientamento che esclude l’ammissibilità del pagamento traslativo, è possibile osservare che, più di recente, parte della dottrina ha elaborato una diversa lettura dei citati principi proprio al fine di ritenere configurabile l’istituto in esame.
In particolare, con riferimento all’art. 922 c.c., questo viene interpretato sistematicamente, prendendo in considerazione quanto previsto dall’art. 1322, comma 2, c.c.. Tale ultima norma, infatti, consente alle parti di esercitare la propria autonomia negoziale ricorrendo anche a schemi non espressamente tipizzati dal legislatore, purché tesi alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Dalla lettura combinata delle due richiamate disposizioni, deriverebbe, quindi, per i privati la facoltà di dare vita a modi di acquisto della proprietà atipici, ma pur sempre tesi alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. In seconda battuta, l’indirizzo che ammette il pagamento traslativo precisa che il principio consensualistico ex art. 1376 c.c. non deve essere interpretato alla stregua di principio assoluto e, quindi, inderogabile. Ciò deriva dalla ratio dello stesso, che è quella di assicurare la velocità degli scambi tra i privati, e non, invece, di limitare l’autonomia privata.
Tanto precisato, è necessario osservare, in ogni caso, che l’ostacolo del principio consensualistico è superabile anche qualora si qualifichi l’atto di trasferimento come atto esecutivo riconducibile ad un obbligo assunto in precedenza. In questo caso, infatti, il consenso è stato già legittimamente manifestato nel momento in cui è sorto il rapporto obbligatorio tra le parti. Inoltre, tale ricostruzione permette anche di risolvere il problema della compatibilità del pagamento traslativo con il principio causalistico. La causa del trasferimento è, infatti, rinvenibile nel preesistente rapporto obbligatorio, con la conseguenza che il pagamento traslativo può essere interpretato come atto solutorio con causa esterna solutoria.
Tanto osservato con riferimento all’impostazione che ammette il pagamento traslativo nel nostro ordinamento, occorre sciogliere un ulteriore nodo problematico, vale a dire quello della natura giuridica dello stesso.
In via preliminare, è opportuno osservare che, pur dovendosi considerare il pagamento traslativo alla stregua di atto di adempimento e, quindi, di atto dovuto di tipo esecutivo, lo stesso non rientra, come l’atto di adempimento, nella categoria degli atti giuridici in senso stretto nei quali la volontà del solvens rileva soltanto con riguardo al comportamento da tenere, ma non, invece, con riferimento agli effetti derivanti dal comportamento stesso.
Ciò premesso, al fine di individuare correttamente la natura giuridica del pagamento traslativo, è, quindi, necessario prendere in considerazione la fattispecie complessa al cui interno lo stesso si inserisce. E’ possibile, infatti, osservare che, a monte, sussiste un negozio programmatico con il quale si stabilisce l’obbligo di trasferire la proprietà di un determinata cosa, mentre, a valle, vi è il negozio traslativo con cui si dà attuazione alla volontà traslativa. Da tanto deriva, quindi, che il pagamento traslativo è qualificabile alla stregua di atto negoziale e, nello specifico, il medesimo è riconducibile nell’ambito dei negozi giuridici unilaterali. Rileva, infatti, la volontà del soggetto che trasferisce la proprietà, mentre la volontà di colui che acquista la proprietà stessa è stata già manifestata con il negozio programmatico. In tal modo, dunque, si può ritenere rispettato il principio consensualistico di cui all’art. 1376 c.c. .
Occorre, poi, ribadire che la ricostruzione in parola permette di superare i punti di frizione tra il pagamento traslativo e il principio causalisitico. La giustificazione causale del trasferimento, infatti, può rinvenirsi nel precedente rapporto obbligatorio e, più nello specifico, nel collegamento esistente tra il negozio programmatico a monte e il negozio traslativo a valle. In tal senso, è possibile osservare come, nel nostro ordinamento, siano individuabili altri istituti che rispondono a tale logica: un esempio è quello dell’acquisto della proprietà di un bene da parte del mandatario senza rappresentanza. Quest’ultimo, infatti, sarà, poi, tenuto a ritrasferire la proprietà del bene al mandante.
Individuata la struttura giuridica a cui poter ricondurre il pagamento traslativo, appare utile, infine, segnalare che, secondo un’altra impostazione, l’istituto in esame potrebbe essere ricondotto anche allo schema di cui all’art. 1333 c.c., vale a dire il contratto con obbligazioni a carico del solo proponente.
Giudizio su causa in concreto e giudizio di meritevolezza si intrecciano anche con la tematica del “contratto in frode alla legge”, regolamentato dall’art. 1344, il quale stabilisce che “La causa si reputa illecita quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa”.
Il contratto in frode alla legge è quindi un contratto, tipico o atipico, che, apparentemente rispettoso della lettera della legge, in realtà è posto in essere per eludere una norma imperativa.
Uno degli esempi tipici che vengono fatti al riguardo è quello della vendita con patto di riscatto posta in essere tra debitore e creditore, al fine di eludere il cosiddetto divieto del patto commissorio.
Secondo la teoria cosiddetta oggettiva il contratto deve considerarsi in frode alla legge quando, mediante patti aggiunti, raggiunge lo stesso risultato che la norma imperativa proibisce. Si tratta di un contratto conforme alla legge dal punto di vista del suo oggetto e del suo contenuto, ma contrario ad essa nello spirito.
Contro questa teoria si è detto che, se il contratto raggiunge un risultato identico a quello proibito dalla norma vietata, allora esso si pone direttamente contro tale norma; non c’è bisogno, cioè, di “reputare” illecita la causa di un contratto del genere, perché essa sarà senz’altro tale.
Secondo un’altra teoria, detta teoria soggettiva, deve considerarsi in frode alla legge il contratto che raggiunge non lo stesso risultato, ma un risultato analogo, in base anche ad una ricostruzione delle finalità dell’operazione effettuata che tenga conto delle intenzioni dei contraenti. Occorrono quindi due requisiti per la frode alla legge: un risultato analogo a quello vietato, la volontà di eludere la norma imperativa.
Senz’altro è corretta la critica mossa alla teoria oggettiva, che se il risultato dovesse essere identico a quello vietato allora non abbiamo un contratto in frode, ma un contratto direttamente elusivo della norma imperativa.
Occorre anteporre una interpretazione effettuata dal giudice sulla base del caso concreto, secondo i paradigmi della causa concreta e meritevolezza. L’articolo 1344 ha lo scopo di permettere un’applicazione analogica ed estensiva di norme imperative, ciò che sarebbe proibito in virtù dell’articolo 12 delle disp. preliminari. Il progressivo passaggio dalla causa astratta alla causa concreta riduce la portata applicativa dell’art. 1344.
La questione è insomma proprio di quelle che sembrano aperte ad ogni soluzione, e di fronte alle quali l’interprete non può che esprimere l’augurio che il legislatore non dia lui stesso esca e al medesimo tempo giustificazione ai tentativi più o meno coscienti, e anche più o meno abilmente mascherati di frode, con l’emanare norme che, senza una imprescindibile necessità limitano in maniera spesso intollerabile l’autonomia dei privati, e al tempo stesso anche l’augurio per i giudici che non trasformino la doverosa ricerca della frode, la quale può rinvenirsi in qualsiasi contratto, in una sorta di caccia alle streghe, come dovrebbe chiamarsi, qualora prendesse piede, la preconcetta anche se non conclamata convinzione che la frode si debba sempre annidare in alcuni contratti che pure la legge espressamente disciplina. Mi riferisco, in così dire, tra gli altri, ai menzionati casi della vendita del diritto di abitazione sospettata di mascherare una locazione esente dal regime vincolistico degli alloggi, e della vendita con patto di riscatto sospettata di mascherare un patto commissorio (Carresi).
Tra l’altro sia la teoria oggettiva che quella soggettiva non offrono alcun criterio per distinguere quando un risultato debba considerarsi “analogo” oppure “identico” a quello vietato, demandando, in ultima analisi, questo compito al giudice. Tanto vale, allora, ammettere chiaramente che la norma in questione, essendo una clausola generale, non può essere precisata se non dall’interprete sulla base del caso concreto.
D’altro canto è questa la tecnica utilizzata dai giudici, che al di là delle affermazioni di principio sull’applicazione dell’una o dell’altra teoria, nei fatti utilizzano la tecnica dell’interpretazione estensiva delle norme proibitive, oppure utilizzano l’articolo 1344 in ipotesi in cui l’elusione non riguarda una norma imperativa.
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Salvatore Magra
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