La cessione del diritto di usufrutto ed i suoi effetti: la posizione del proprietario
Nonostante la disciplina dell’usufrutto sembri avere profili interpretativi piuttosto consolidati e coerenti con la giurisprudenza maggioritaria non è comunque infrequente il ricorso alla magistratura per dirimere conflitti sorti in relazione alle sorti dell’usufrutto stesso ed alla sua qualificazione specifica in determinate circostanze.
In particolare l’interrogativo principale è legato alle ipotesi in cui l’usufruttuario abbia ceduto l’usufrutto a terzi e successivamente sia deceduto.
L’interrogativo non è di poco conto perché è evidente che la disposizione dell’usufrutto potrebbe, in talune ipotesi, andare ad integrare una violazione di quelle che sono le normative previste in materia di successioni e, sostanzialmente, andare a sottrarre dalla disponibilità del proprietario del bene il bene medesimo, alterando, in concreto, l’intera massa ereditaria.
Va anche osservato, e probabilmente è questo il tema più gravoso in concreto, che il proprietario del bene, in ipotesi di violazione di quelle che sono le norme in materia di usufrutto, deve agire per recuperare la disponibilità del proprio bene e per farlo deve fare ricorso all’autorità giudiziaria e questo rappresenta per lui un evidente carico di oneri economici oltre che di tempo.
La prassi, al solo fine di evitare successivi contenziosi, sulla cui durata è impossibile fare previsioni, ha tendenzialmente portato a ritenere che sia preferibile aggiungere dei vincoli contrattuali all’usufrutto, limitandone la trasferibilità.
Il discorso, a ben guardare, ha una valenza principalmente pratica e legata all’eventuale difficoltà per il proprietario di rientrare in possesso del bene di sua proprietà.
Non è infrequente che ad essere ceduta sia la nuda proprietà di un immobile del quale i cedente si riservi l’usufrutto vitalizio. Si tratta di una prassi molto diffusa che viene utilizzata per rispondere a diverse esigenze.
La norma, in materia di usufrutto, sembrerebbe dirci in modo chiaro ed incontrovertibile che la durata dell’usufrutto non può eccedere la vita stessa dell’usufruttuario. A questo riguardo, infatti, facciamo riferimento al primo comma dell’articolo 979 c.c. che ci dice proprio che “la durata dell’usufrutto non può eccedere la vita dell’usufruttuario”.
Questa precisazione normativa appare essere cardine per tutte le considerazioni che andremo a svolgere di qui a poco.
La giurisprudenza, in particolar modo, ha fatto riferimento ad un aspetto specifico della tematica alla nostra attenzione ed, ad esempio, la Corte di Cassazione, sezione seconda, con la sentenza n. 8911 del 2016, ha avuto modo di esprimersi in materia ed, in particolare, sulla cessione pro quota del diritto di usufrutto vitalizio e sulla sua eventuale sopravvivenza in caso di premorienza del cessionario rispetto al primo usufruttuario.
In particolare all’attenzione della Corte è stato posto l’interrogativo legato alla trasmissibilità agli eredi o se, alternativamente, quella quota vada a consolidarsi in capo ai nudi proprietari.
Basandosi sulla lettura della norma cui abbiamo innanzi fatto riferimento, la Cassazione precisa come la caratteristica del diritto di usufrutto sia quella della temporaneità pur non escludendo che l’usufrutto possa costituire oggetto di una disposizione testamentaria, deve tendere a far ritenere precluso che lo stesso possa, di per sé, essere oggetto di cessione mortis causa fatta salva la possibilità di una cessione inter vivos.
La precisazione che, però, fa la Corte è legata al fatto che lo stesso diritto di usufrutto non può comunque eccedere la durata della vita del cedente.
Sotto questo profilo, pertanto, si può compiutamente argomentare che il cessionario può disporre del proprio diritto di usufrutto in vita ma non può disporre dello stesso nell’ottica di privare del bene il cedente e, come tale, non può né farne oggetto di una propria disposizione testamentaria né costituire su di esso un diritto altrui che ecceda la vita del cedente stesso.
In tal senso, dunque, la domanda originaria che ci siamo posti trova una sua risposta che sembrerebbe tutelare il cedente da eventuali privazioni del bene di sua proprietà. Il problema che permane, però, è sempre legato al rientro nel possesso del bene medesimo.
La sentenza della Cassazione fa riferimento ad una ipotesi che ha per oggetto la cessione di un usufrutto vitalizio di un bene e sugli eventuali diritti successori sull’usufrutto stesso.
La Cassazione ribalta i pronunciamenti di primo e secondo grado con puntuali argomentazioni.
Nel caso di specie gli attori avevano acquisito la nuda proprietà di un immobile su cui i proprietari, due coniugi, si erano riservati l’usufrutto vitalizio. Successivamente la moglie aveva ceduto la sua quota di usufrutto del marito ed, alla morte di quest’ultimo, i proprietari, avendo ritenuto estinto con la morte del marito l’usufrutto, avevano richiesto alla signora di lasciare l’immobile sul quale non vantava più alcun diritto.
La Cassazione aveva ritenuto, come abbiamo avuto modo di evidenziare già in precedenza, che alla moglie spettava comunque, quale usufruttuaria originaria, spettava comunque il rientro nella titolarità dell’usufrutto che aveva donato alla morte del cessionario/donatario.
Si tratta di un orientamento che ha trovato una sua conferma giurisprudenziale successiva ed un ulteriore chiarimento in un pronunciamento della Cassazione del 2018, seconda sezione, n.33546 che ci dice ancora che l’’usufrutto acquistato da entrambi i coniugi continui nella comunione legale fra loro esistente fino allo scioglimento della stessa, fino alla sua naturale estinzione. Nelle ipotesi in cui la cessazione della comunione legale sia determinata del decesso di uno dei coniugi, la quota di usufrutto spettante al coniuge deceduto si estingue, non potendo avere durata superiore alla vita del suo titolare, a meno che nel titolo non sia stato predisposto antecedentemente l’accrescimento in favore del coniuge superstite.
Anche in questo caso notiamo come la giurisprudenza ci permetta di cogliere la ratio dell’istituto dell’usufrutto stesso che risiede nell’intenzione di garantire il godimento di un bene, in base a quanto stabilito dalla legge, per un tempo prestabilito (che può avere anche natura vitalizia) ma che è correlato, in modo inequivocabile, al soggetto che è titolare del diritto, ovvero l’usufruttuario, non potendo eccedere la vita di quest’ultimo.
Nel pronunciamento del 2016, inoltre, abbiamo che la durata dell’usufrutto, in ragione di quanto ci dice la norma, non può eccedere la vita dell’usufruttuario, che, salvo diversa pattuizione, può cedere il suo diritto per un certo tempo o per tutta la sua durata.
La caratteristica della temporaneità del diritto è l’elemento che esclude che lo stesso possa formare oggetto di disposizione testamentaria o rientrare nella successione mortis causa.
Dalla elaborata interpretazione giurisprudenziale, portata su un piano generale, emerge la conferma per quale il diritto di usufrutto, anche laddove pattuito come vitalizio, possa essere ceduto ma non possa mai eccedere la vita del cedente al fine di rispettare il principio della temporaneità dell’usufrutto e per tutelare il proprietario.
Sotto il profilo pratico, però, permane la difficoltà di quest’ultimo, di rientrare in possesso del proprio bene.
Si tratta di una problematica concreta che si ravvede non necessariamente nelle ipotesi cui abbiamo fatto riferimento innanzi ma, ad esempio, nelle ipotesi in cui l’usufruttuario abbia dato in locazione l’immobile e sia successivamente deceduto trascinando con sé, come abbiamo detto, il diritto di usufrutto e mettendo in condizione il proprietario di tornare nell’immediata disponibilità del proprio bene.
Emerge, dunque, come sia preferibile, per non incorrere in complessi problemi sotto il profilo pratico prediligere l’inserimento di una clausola, nel contratto di usufrutto che ne limiti o ne precluda la trasferibilità.
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Avv. Daniela Ferro
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