La città come res omnium, alla luce della nuova giurisprudenza sui beni comuni

La città come res omnium, alla luce della nuova giurisprudenza sui beni comuni

La città nel pensiero antico e medievale

Il principio di sussidiarietà emerge, in forma implicita, nel pensiero di Aristotele e, successivamente, in quello di Tommaso d’Aquino. La sussidiarietà nasce come principio di organizzazione sociale. Per Aristotele, lo stato è un prodotto naturale e l’uomo per natura è un essere socievole: “chi vive fuori dalla comunità statale per natura e non per qualche caso o è un abietto o è superiore all’uomo” [1].

Aristotele individua nella città, quindi, un sistema naturale di alleanze fra diverse unità territoriali caratterizzato da forme di mutuo intervento e cooperazione. La città si organizza dal basso in senso verticale sulla base delle micro autonomie (la famiglia, la tribù, il villaggio). L’autonomia è il diritto delle unità minori di autodeterminarsi in relazione a quelle maggiori nel complesso della città.

Nelle primissime righe del Libro I, Aristotele afferma, inoltre, che ogni Stato è una comunità e ogni comunità si costituisce in vista di un bene.

Il bene perseguito dallo Stato, in quanto comunità più importante che comprende tutte le altre, è da identificare con quello di cui parla il filosofo nell’Etica Nicomachea, la felicità.

Nel Medioevo, i nuovi imperi ordinano le città in nuovi sistemi di potere, riducendone gradualmente l’autonomia. I re auspicano, infatti, le città soggette alla loro supremazia. Nascono così le leghe fra città, aggregazioni federali dal basso che offrono una migliore difesa e una maggiore risposta ai bisogni collettivi.

Tommaso D’Aquino lega il carattere delle comunità alla natura morale delle relazioni umane, tese alla ricerca del bene comune secondo la volontà di Dio [2]. Nella città medievale la nozione di cittadino si completa, inoltre, con quella cristiana di persona. Per San Tommaso, il principio di sussidiarietà è inteso come elemento del bene comune, nel senso che lo sviluppo della persona umana si pone quale limite al pubblico potere, che deve anzi offrire il suo aiuto agli individui.

La città nel pensiero moderno e contemporaneo

La sussidiarietà orizzontale, rivendicata dalla libertà di autonomia di città e principati, e quella verticale, che risponde invece all’esigenza unitaria del Sacro romano impero, delineano il XVI secolo in Europa.

L’emergere delle grandi monarchie, il formarsi dello Stato moderno e lo sforzo dell’Impero di mantenere l’unità politica e religiosa dell’Europa hanno però alterato l’idea della sussidiarietà come processo di organizzazione umana fondato sull’autonomia e sulla responsabilità. Althusius, convinto che nell’uomo esista una naturale tendenza all’associazione, vede l’origine della società in un patto espresso o tacito, che regola sia i rapporti tra gli individui, sia le modalità di governo. Concepisce lo Stato, la provincia, la famiglia, la corporazione e la comunità locale come le associazioni fondamentali. E intende lo Stato come la libera federazione di comunità minori (città e province).

In Althusius è rinvenibile il principio di sussidiarietà verticale ed orizzontale, dato il ruolo di congiuntura tra pubblico e privato che è detenuto dalle associazioni corporative [3]. La società va quindi pensata secondo una organizzazione gerarchica costituita da associazioni di diversa grandezza. Locke e Mill ritengono necessaria invece un’autorità pubblica che garantisca la pace e la sicurezza sociale purché la libertà d’azione e l’autonomia degli individui singoli e associati non sia intaccata.

Sul terreno del liberalismo anglosassone si svilupperà la sussidiarietà verticale e la riflessione sul federalismo.

Proudhon, servendosi del principio di sussidiarietà, elabora un modello sociale in cui assumono grande valore la cooperazione tra le classi, la reciprocità tra le persone e le relazioni istituzionali tra i diversi livelli di governo: salvaguarda, quindi, l’autonomia di ciascun organismo e sviluppa una società plurale, stabilendo un minimo intervento della pubblica autorità [4].

La formulazione classica del principio di sussidiarietà si rinviene, infine, nella Rerum Novarum di Papa Leone XIII (1891) e, soprattutto, nell’Enciclica Quadragesimo Anno di Papa Pio IX (1931), che evidenzia la funzione sussidiaria dei poteri pubblici rispetto alle formazioni sociali [5].

Ecosistema urbano e bene comune

Il termine città, nell’articolo 18 del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (TUEL, decreto legislativo numero 267/2000), indica un titolo onorifico, attribuito ai comuni insigni per ricordi, mutamenti storici e per l’attuale importanza, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’Interno. Il carattere di città è, quindi, associato a fattori di tipo storico-culturale e, relativamente al requisito dell’attuale importanza, ad altri parametri come quelli legati all’esercizio di funzioni politiche, allo svolgimento di attività economiche e commerciali, all’erogazione di servizi, alla popolazione.

La città, però, vive oggi un momento di profonda decadenza. Essa non è solo economica e politica ma, anche e soprattutto, sociale. Lo scompenso valoriale dei suoi abitanti porta, infatti, all’inevitabile (anche se prevedibile) rovina dell’intero ecosistema urbano.

La crisi è determinata dal declino degli spazi e dei servizi pubblici, tanto nelle periferie, quanto nelle aree centrali e dalla graduale disaffezione dei cittadini verso questi spazi e questi servizi di interesse comune, percepiti come luoghi o servizi di nessuno anziché di tutti [6]. Eppure, nella costruzione del benessere sociale, è decisivo il coinvolgimento degli attori principali dell’ecosistema urbano, gli stessi cittadini che usano e vivono la città. Usare la città vuol dire, innanzitutto, sfruttare i servizi pubblici, quel complesso di attività prestate nei riguardi degli utenti per il soddisfacimento di bisogni collettivi. Viverla, poi, significa concorrere alla cura degli spazi pubblici, beni che sono non solo condivisi ma, anche e soprattutto, comuni.

Gli spazi e i servizi urbani sono beni relazionali: non si possiedono, si è partecipi di essi [7]. Prendere parte al bene comune è sinonimo di concepire la città in un modo differente e, allo stesso tempo, inedito. Vuol dire riconoscersi parte del tutto, senza perdere la propria individualità ma unirla a quella altrui, contribuendo al miglioramento e allo sviluppo del luogo che si abita.

Gli spazi e i servizi comuni sono pubblici solo in quanto sono stati fino a questo momento affidati prevalentemente alla cura di amministrazioni pubbliche. Ma non è detto che la titolarità formale debba essere sempre pubblica. Possono esistere, infatti, beni comuni affidati alla custodia di privati.

Quanto detto trova conferma nei lavori della Commissione Rodotà, istituita con decreto del 21 giugno 2007 dal Ministero della Giustizia, per elaborare una proposta di modifica delle disposizioni del codice civile in materia di beni pubblici.

Nell’ambito dei lavori della commissione, i beni comuni sono stati caratterizzati come funzionali all’esercizio di diritti fondamentali allo sviluppo della persona, che richiedono una tutela intensa anche a beneficio delle generazioni future, a consumo non rivale ma con problemi di esauribilità, che possono appartenere a persone giuridiche pubbliche ma anche ai privati, ma deve esserne assicurata la fruizione collettiva nei limiti e secondo le modalità fissati dalla legge.

Se, infine, la titolarità dei beni comuni è pubblica essi sono collocati fuori commercio ma ne è consentita la concessione nei soli casi previsti dalla legge e per una durata limitata. La giurisprudenza di legittimità ha poi confermato i principi riguardanti i beni comuni definendoli “beni che, indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore, per loro intrinseca natura o finalizzazione risultino, sulla base di una compiuta interpretazione dell’intero sistema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività” [8].

Da queste riflessioni della dottrina e della giurisprudenza si evince l’importanza della città, intesa non solo come insediamento umano, esteso e stabile, che si differenzia da un paese o da un villaggio per dimensione, densità di popolazione, importanza o status legale, ma come bene comune dei singoli individui che diventano una collettività nel momento in cui si relazionano alla civitas e ai suoi spazi e servizi.

Conclusioni

Concepire la città come bene comune, alla luce del principio di sussidiarietà, vuol dire restituire alla collettività quel ruolo centrale che aveva nella polis greca e nella civitas tommasiana e che ha invece perso nell’epoca moderna e contemporanea.

Definire, poi, gli spazi urbani e i servizi pubblici come beni comuni significa aderire alla dottrina e alla giurisprudenza maggioritaria che hanno trovato nella pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione numero 3665 del 14 febbraio 2011 un precedente non solo rispettoso dei principi filosofici e storici in tema di autonomie ma, addirittura, rivoluzionario rispetto alle classiche e a volte concettualmente fragili classificazioni accademiche e manualistiche.

Accogliendo questa nuova prospettiva, non ci si può e non ci si deve preoccupare solo ed esclusivamente di garantire l’affermazione di un uso o di un godimento aperto dei beni comuni. Si devono profilare, invece, nuovi diritti, i diritti di cura, attraverso l’esercizio di quella libertà responsabile e solidale che costituisce il nuovo modo di essere cittadini, quello sottinteso dall’articolo 118, ultimo comma, della Costituzione.

 

 

 

 

 


Note bibliografiche
[1] Aristotele, Politica, Laterza, Bari Roma, 2019, Libro Primo, A, 2, 1253 a.
[2] F. M. Giordano, Conoscere le radici della sussidiarietà orizzontale per costruire una società relazionale e sussidiaria, labsus.org, 3 ottobre 2016.
[3] P. Savarese, La sussidiarietà è il bene comune, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2018, p. 15.
[4] C. Malandrino, Un popolo per l’Europa unita: fra dibattito storico e nuove prospettive teoriche e politiche, L. S. Olschki, Firenze, 2004, p. 128.
[5] Per un approfondimento sul tema si veda, tra i tanti, G. De Rosa, I tempi della Rerum Novarum, Istituto Don Luigi Sturzo, Rubbettino, Catanzaro, 2002.
[6] C. Iaione, La città come bene comune, Aedon, numero 1, 2013, disponibile all’indirizzo http://www.aedon.mulino.it/archivio/2013/1/iaione.htm.
[7] Ugo Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 52.
[8] Corte di Cassazione, Sezioni Unite, numero 3665 del 14 febbraio 2011.

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