La collaborazione tra potere pubblico e soggetti privati all’indomani dell’Unità d’Italia

La collaborazione tra potere pubblico e soggetti privati all’indomani dell’Unità d’Italia

La collaborazione tra il potere pubblico ed i soggetti privati ha una lunga storia alle spalle: sin dalla nascita del Regno d’Italia la realizzazione di numerosi compiti pubblici è stata affidata ad operatori privati.

Il presente contributo, dunque, mira a ricostruirne le primissime fasi, mediante l’analisi delle vicissitudini che hanno riguardato due entità fondamentali per l’epoca quali le Opere Pie e le Camere di Commercio.

La pubblicizzazione delle Opere Pie

All’indomani dell’Unità d’Italia, le uniche attività caritative di cui abbiamo notizia si fondavano su motivazioni etico-religiose ed erano dunque interamente rimesse alla volontà ed al desiderio dei privati di aiutare il prossimo, per quanto non fosse possibile affermare che alla carità fosse stata del tutto negata la qualifica di interesse pubblico; e ferma su posizioni liberali nonché ad una concezione di beneficienza di tipo privatistico l’Italia rimase almeno fino agli anni Novanta dell’Ottocento, nonostante la promulgazione della legge 3 agosto 1862, n. 753 {Cfr. S. Sepe, L. Mazzone, I.Portelli, G. Vetritto, Lineamenti di storia dell’amministrazione italiana (1861-2006), Roma, Carocci Editore, 2007, p. 65}.

Infatti questo primo riordino di matrice statale in materia assistenziale continuava a far riferimento al tradizionale sistema delle Opere Pie: una serie di istituzioni caritatevoli di natura privata, sottoposte sì ad un controllo da parte dello Stato ma squisitamente formale.

La disciplina delle diverse attività espletate, invece, continuava ad essere appannaggio dei rispettivi consigli d’amministrazione di ciascun ente pio.

Tutt’al più un elemento di novità era possibile ravvisarlo nell’introduzione di una Congregazione di Carità in ogni Municipio: un organismo statale eletto dal Consiglio Comunale allo scopo di curare gli interessi dei poveri del Comune e di amministrare eventuali Opere Pie prive di amministratori.

D’altronde all’epoca le resistenze opposte a qualsiasi tipo di legislazione sociale o riforma che prevedesse l’intervento diretto dello Stato erano molto forti ed in grado di influenzare l’evoluzione della società civile.

Il Governo Rattazzi adottò dunque un orientamento moderato di stampo liberale e decentratore, che unificava la legislazione in materia di Opere Pie senza però pregiudicarne l’autonomia.

Nondimeno il ruolo marginale dello Stato nella loro organizzazione, ridotto all’approvazione di atti e di bilanci senza entrare nel merito delle scelte gestionali, unito alla scarsità dei controlli da parte del Ministero dell’Interno, di lì a poco portò alla luce tutte le lacune di quel sistema assistenziale divenuto ormai desueto ed inadeguato alle mutate esigenze sociali {Sul punto v. Ivi, p. 67}.

Anche la dottrina giuridica dell’Italia postunitaria cominciò ad interrogarsi circa la necessità di un intervento diretto dello Stato nel campo della beneficenza nonché sull’esigenza di conferire carattere pubblico agli enti pii in ragione dell’indiscussa indole pubblicistica di tale attività, senza però riuscire mai a contrastare efficacemente le ostilità delle classi sociali dominanti nei confronti del sistema della carità legale.

Ad ogni modo le inefficienze del sistema assistenziale erano così evidenti che si arrivò al punto di istituire una Commissione Reale d’Inchiesta proprio in merito alla cattiva amministrazione degli enti caritativi: gli allarmanti dati raccolti spinsero il Parlamento ad approvare con urgenza il progetto di riforma organica della L. 753/1862 promosso dal Governo Crispi.

Nonostante ciò, nemmeno la normativa crispina portò ad un pieno superamento dell’indirizzo precedente; ad opera della legge 3 luglio 1890, n. 6972 si ebbe piuttosto una significativa inversione di tendenza nel settore della beneficenza e dell’assistenza, la quale si manifestò innanzitutto nella formale attribuzione alle Opere Pie della denominazione di Istituzioni di Pubblica Assistenza e Beneficenza (IPAB) e pertanto nella loro trasformazione in persone giuridiche di diritto pubblico.

Va però precisato che gli enti pii divennero istituzioni “pubbliche” non in quanto finanziate dallo Stato, il quale anzi rimpinguò le proprie casse grazie alla previsione dell’obbligo per ciascuna di esse di impiegare i propri capitali in titoli di Stato, bensì perché di interesse pubblico erano le relative prestazioni come pure pubblico era il destinatario.

Invero, la normativa traeva ispirazione dall’idea che quella dell’assistenza fosse una funzione pubblica, che lo Stato aveva il diritto ed il dovere di gestire assumendosi direttamente ampie facoltà di ingerenza {Cfr. D. Donati, Il paradigma sussidiario: interpretazioni, estensioni, garanzie, Bologna, Il Mulino, 2013, p. 308}.

Per porre rimedio agli sperperi di capitali ed alle cattive gestioni protrattesi fino a quel momento, vennero dunque introdotti non soltanto controlli più rigidi e penetranti, ma anche regole che miravano a rendere meno dispendiose le amministrazioni e più effettive le responsabilità dei singoli amministratori {F.Della Peruta, Le Opere Pie dall’Unità alla legge Crispi, Il Risorgimento, XLIII, 2-3, p. 296}.

Era perciò evidente che il Legislatore aveva esteso in maniera considerevole le prerogative dell’autorità pubblica per poi restringere proporzionalmente l’autonomia delle IPAB ed attuare di conseguenza una sostanziale estromissione della Chiesa dal settore caritativo-assistenziale.

La riforma Crispi ruotava intorno al ruolo della Congregazioni di Carità, la cui istituzione da facoltativa divenne obbligatoria per ogni Comune: divenute organi di Stato in stretto rapporto con la Giunta Provinciale Amministrativa e soggette alla sorveglianza del Ministero dell’Interno, ognuna di esse accorpava a sé tutte le Opere Pie della propria città che presentavano rendite esigue così come provvedeva alla conversione delle istituzioni caritative rimaste senza un fine o divenute comunque superflue.

La regolamentazione promossa dal Governo Crispi aveva una spiccata impostazione anticlericale, combattuta prima e dopo l’approvazione della stessa dalla Chiesa romana.

Altre critiche a tale spinta accentratrice vennero poi dalle frazioni più moderate del liberalismo costituzionale: furono disapprovate la preponderante ingerenza governativa, la moltiplicazione dei controlli come pure la sostituzione della carità pubblica e legale a quella privata di stampo esplicitamente religioso.

Ad ogni modo l’applicazione faticosa e contrastata della legge Crispi è in particolar da imputare allo scarso impegno ed alla lentezza di adeguamento della Pubblica Amministrazione, inefficienze che richiesero numerosi provvedimenti di modifica alla legge fondamentale così come leggi speciali destinate a quei territori del Sud Italia che presentavano esigenze particolari in tema di beneficienza.

Tutto questo però non impedì alla riforma crispina di passare alla storia come “l’atto di lunga durata” che istituì il primo sistema di carità legale della Penisola nonché di aprire la strada alla legge 18 luglio 1904, n. 390 voluta dal Governo Giolitti.

Se la legge Crispi di fatto non era riuscita a predisporre un’assistenza pubblica da coordinare ed integrare con quella privata, è proprio con la sistemazione promossa da Giolitti che si arrivò ad una coerente applicazione ed ancor più al perfezionamento della precedente riforma: vennero istituite le Commissioni Provinciali di Assistenza e Beneficenza Pubblica, deputate al coordinamento di tutte le attività caritative in ciascuna provincia, ed un Consiglio Superiore presso il Ministero dell’Interno affinché studiasse i problemi del settore di rilevanza nazionale {P. Aimo, Politiche sociali per l’infanzia ed enti locali tra Ottocento e Novecento, in Welfare e minori. L’Italia nel contesto europeo del Novecento, M. Minesso (a cura di), Milano, FrancoAngeli, 2011, pp. 123-184}.

In realtà si ebbe molto più che un’integrazione: l’assistenza privata non era più solo soggetta al controllo dello Stato ma anche coordinata e sostenuta dall’assistenza pubblica.

Benché nemmeno a questi accorgimenti di carattere organizzativo si risparmiarono critiche e resistenze da parte di chi temeva un’ancora più marcata ingerenza dell’autorità pubblica nella gestione delle IPAB, il cammino verso la formazione di uno Stato sociale moderno, dove da funzione “di polizia” le attività assistenziali cominciassero ad essere considerate “funzione di Stato” e dunque un diritto dei cittadini, era comunque stato avviato anche in Italia.

Il riordino delle Camere di Commercio

Raggiunta l’Unità nazionale, anche sul fronte delle attività commerciali ed industriali esistevano degli enti dislocati sul territorio italiano che, pur essendo disciplinati dal diritto pubblico, si adoperavano per la valorizzazione di interessi eminentemente privati: le Camere di Commercio ed Arti.

Già in attività negli Stati preunitari, la classe dirigente del tempo, nonostante il forte orientamento liberista, aveva fin da subito avvertito la necessità di adottare una disciplina organica ed unitaria per quegli istituti, in modo da configurarli quali giuntura tra il mondo imprenditoriale ed artigiano ed il potere pubblico; ben presto venne infatti promulgata la legge 6 luglio 1862, n. 680, allo di conferire loro un assetto sistematico ed adeguato alle mutate condizioni economico-sociali.

Ai sensi dell’articolo 4, la funzione precipua delle Camere di Commercio ed Arti era quella di rappresentare presso il Governo le categorie economiche e di promuovere lo sviluppo degli interessi commerciali ed industriali in armonia con quelli generali economici della Nazione.

Seguivano poi una serie di attribuzioni di carattere consultivo, informativo ed anche amministrativo.

Se l’assegnazione di questi compiti poteva apparire più o meno in linea con la tradizione preunitaria, in special modo con il modello camerale napoleonico, viceversa innovative erano senz’altro la previsione della potestà regolamentare come pure quella dell’autonomia finanziaria in capo alle Camere; quest’ultima era assicurata dalla possibilità di prelevare diritti sugli atti emanati e tasse sulle assicurazioni marittime, sulle polizze di carico, sui noleggi e su contrattazioni della medesima natura, a patto che l’ente non disponesse di rendite patrimoniali proprie sufficienti al proprio sostentamento.

E sommando funzioni di rappresentanza degli interessi con funzioni di amministrazione dell’economia non poté che generarsi una profonda enigmaticità riguardo la natura delle Rappresentanze Commerciali: un sistema autonomo di gestione di interessi categoriali privati ma comunque dotato di poteri speciali all’interno della Pubblica Amministrazione {Sul punto v. M. Malatesta, Stato liberale e rappresentanza dell’economia. Le Camere di Commercio, Italia contemporanea, 171, 1988, p. 55}.

Ad ogni modo la rigida separazione tra Stato ed economia che a quei tempi il Governo andava professando venne pertanto smentita.

In effetti è proprio questa prima legge dello Stato sugli enti camerali a dare inizio alla loro progressiva pubblicizzazione: non a caso pur rimanendo enti periferici di natura privata, gestivano le economie locali e risultavano già strettamente collegati all’amministrazione centrale.

Le attribuzioni delle Camere di Commercio ed Arti già dal 1862 erano dunque abbastanza vaste, in modo da poter essere realmente in grado di promuovere lo sviluppo del commercio e della produzione industriale, ma allo stesso tempo definite e tassative perché non potessero in alcun modo agire a discapito del potere statale: dopotutto erano state pensate quali vettrici di interessi fra economie locali e Stato nonché mediatrici fra potere politico e centri di produzione {Cfr. C. Trimarchi, Le Camere di Commercio italiane in età liberale (1862-1910). Dinamiche istituzionali, rappresentanza d’interessi e mediazione politica, Roma, Aracne Editrice, 2013, p. 24-26}.

In effetti all’epoca era fortissimo il timore di creare centri di potere esterni all’ordine pubblico statale, uno su tutti le corporazioni, tanto è vero che per tutti gli esercenti era obbligatorio aderire alle Rappresentanze Commerciali.

Sempre in quest’ottica, alle Camere vennero assegnati compiti pedagogici come pure dimostrativi: sostenere l’istruzione tecnica attraverso il parziale o totale finanziamento delle scuole di avviamento all’industria; incentivare la produzione locale mediante l’organizzazione di esposizioni di prodotti industriali; premiare i risultati raggiunti con l’indizione di concorsi e competizioni fra produttori.

Per quanto non dipendenti da esso, gli istituti erano formalmente soggetti al controllo del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio.

Concretamente però la verifica della gestione finanziaria di ciascun ente camerale era totalmente rimessa ai prefetti, i quali avrebbero poi dovuto trasmettere i rispettivi bilanci approvati all’amministrazione centrale.

Non è azzardato dunque affermare che, in virtù della loro facoltà di tassare e della conseguente possibilità di investire denaro pubblico, le Camere fossero sottoposte alle procedure di accertamento amministrativo tipiche degli enti locali.

Nonostante ciò, quello camerale era un controllo di stampo liberista, squisitamente formale e puramente simbolico: i prefetti difatti non si spingevano mai a verificare la corrispondenza fra mezzi e fini o i risultati conseguiti dalle singole Camere di Commercio ed Arti.

Inevitabilmente, un tale lassismo da parte della pubblica autorità non fece che rafforzare l’autonomia degli enti camerali, sempre più preoccupati di crearsi un patrimonio personale derivante da rendite e gettito fiscale che non di conseguire piuttosto esiti soddisfacenti in termini di rappresentatività e di aumento della produzione e degli scambi a livello locale.

Invero, non passò molto tempo che cominciarono ad affiorare tanto inefficienze ed incuria da parte dei prefetti quanto irregolarità e spese ingiustificate da parte delle Camere: nel 1885 il Ministero fu costretto a revocare la delega conferita ai prefetti per l’approvazione dei bilanci, prerogativa che quindi ritornava ad essere di competenza esclusiva del Ministro.

Ma questo non bastò né a ricondurre gli istituti camerali alle loro funzioni di base né a rinsaldare quello scollamento che si era irrimediabilmente prodotto tra enti rappresentativi e categorie economiche.

Alle soglie del Novecento le Camere di Commercio come disciplinate dalla L. 680/1862 avevano sostanzialmente fallito il loro mandato politico-economico.

Nel frattempo l’ininfluente peso esercitato dalle istituzioni camerali aveva reso particolarmente marcata la necessità di creare un organo permanente che si occupasse delle questioni attinenti a commercio ed industria che presentassero rilevanza nazionale, dato che sino ad allora una delle carenze più evidenti delle Camere era quella di non riuscire a coordinarsi tra di loro e perciò ad assumere una linea politica comune nei confronti del Governo.

Una prima risposta a siffatto problema arrivò nel 1901 con l’istituzione dell’Unioncamere da parte del Congresso nazionale delle Camere di Commercio ed Arti, per l’occasione riunitesi nella città di Milano.

In linea con le sue prerogative, l’Unione delle Camere di Commercio iniziò fin da subito a svolgere attività in favore del superamento della L. 680/1862.

In effetti il tanto atteso riordino degli enti camerali, che vide la luce con la legge 20 marzo 1910, n. 121, non si rifaceva ad un progetto di legge scritto e discusso nelle aule del Parlamento ma durante gli incontri organizzati dall’Unioncamere.

Inevitabilmente, questo condusse alla promulgazione di una normativa che mirava in primo luogo ad adeguare il sistema camerale alle nuove esigenze del mercato, in linea insomma con i desiderata dell’imprenditoria meneghina.

Non a caso la riforma esordì trasformando la denominazione delle Rappresentanze Commerciali in Camere di Commercio ed Industria: superare la locuzione Arti significava abbandonare attività economiche ormai obsolete e stare al passo con le esigenze dettate dallo sviluppo industriale che l’Italia stava vivendo proprio in quegli anni.

In realtà, pur modificando sostanzialmente l’apparato giuridico ed organizzativo delle Camere, la L. 121/1910 mantenne l’impianto normativo disegnato dalla disciplina precedente: intesi adesso più specificatamente come rappresentanti presso il Governo degli interessi delle categorie produttive del distretto in cui erano situati, agli istituti camerali vennero attribuite prerogative nettamente più estese.

Per quanto alcune funzioni venissero di fatto già esercitate, in base all’articolo 5 le Camere di Commercio vennero in aggiunta incaricate di: compilare e conservare le raccolte di usi e consuetudini diffusi nel proprio distretto; predisporre mercuriali e listini rilasciandone eventualmente il certificato; redigere elenchi di arbitri per la risoluzione amichevole di controversie tra produttori o tra essi ed i loro dipendenti.

Ma la novità senz’altro più importante, soprattutto in termini di incarichi pubblicistici loro attributi, è l’istituzione del Registro delle ditte e del corrispondente obbligo per chiunque esercitasse commercio od industria, sia individualmente sia in società con altri, di farne denuncia presso l’ente camerale del proprio distretto.

Il fatto che le Rappresentanze Commerciali si stessero sempre più avvicinando allo Stato lo evidenzia anche l’importante innovazione in materia di entrate camerali: secondo l’articolo 31, oltre che con le potenziali rendite patrimoniali, ora le Camere provvedevano alle spese per il loro funzionamento prelevando un diritto sui certificati e sugli atti rilasciati, applicando una tassa sul reddito proveniente da ogni forma di attività commerciale ed industriale o applicando una tassa sui commercianti temporanei e girovaghi.

Invero, se da un lato i compiti erano numericamente aumentati, la nuova regolamentazione andò a ridurre drasticamente l’autonomia concessa agli istituti camerali dalla L. 680/1862: aumentarono le prerogative del Ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio in tema di approvazione dei bilanci; le modalità di riscossione delle tasse e dei diritti venne conformata a quella tipica delle pubbliche imposte; la nomina di nuovi impiegati venne subordinata alla formalità del concorso pubblico.

Lo Stato insomma amplia il raggio d’azione delle Camere di Commercio in senso pubblicistico, assicura loro entrate omogenee ed adeguate, ma contemporaneamente […] accresce nei loro riguardi la propria azione di vigilanza e tutela {Unione italiana delle Camere di Commercio Industria Agricoltura, Le Camere di Commercio nel primo centenario dell’Unità d’Italia, Milano, Giuffrè, 1961, p. 46}.

Ad ogni modo le richieste avanzate a gran voce dall’Unioncamere furono in larga parte soddisfatte; basti pensare che se la disciplina antecedente si limitava a concedere loro la possibilità di riunirsi in associazioni generali, la L. 120/1910 autorizzava esplicitamente le Rappresentanze Commerciali anche a costituire unioni o federazioni permanenti allo scopo di analizzare questioni comuni a più distretti o addirittura di rilevanza nazionale.

Riconoscendo il carattere pubblico degli enti camerali ed equiparandole dunque a Comuni e Provincie, il Governo eliminò ogni dubbio circa la loro ambiguità ed allo stesso tempo scongiurò un’eventuale avanzata delle corporazioni.

Seguendo la politica di stretto controllo degli enti territoriali inaugurata dal Ministero nel 1884, si andò insomma a ritoccare la L. 680/1862 senza però stravolgerne le fondamenta, in modo da rafforzare le Camere di Commercio, e dunque consentire loro di svolgere al meglio le proprie funzioni, pur non affrancandole dal controllo dello Stato {Cfr. M. Malatesta, op. cit., p. 56}.

L’amministrativizzazione totale delle Rappresentanze Commerciali fu perciò la soluzione definitiva individuata da Giolitti per porre argine alle tante inefficienze che erano emerse lungo i decenni precedenti, anche perché  non  pareva ammissibile pensarle indipendenti dall’amministrazione centrale ma dotate di potere impositivo.

Anzi, la riforma riguardò in primo luogo il potere finanziario delle Rappresentanze Commerciali: unificando i diversi tipi di tassazione che esse potevano applicare ed adeguando le loro regole contabili ai principi vigenti per la Pubblica Amministrazione, venne significativamente ridimensionato il loro potere fiscale.

Molti autori hanno letto questo confluire degli istituti camerali nel sistema amministrativo statale alla luce della “teoria del conflitto” elaborata da Lorenzo Ornaghi {Teoria sviluppata in L. Ornaghi, Stato e corporazione, Milano, Giuffrè, 1984}, secondo cui lo Stato moderno tende regolarmente ad assimilare al proprio interno gli insiemi economico-sociali reclamando il primato sulla politicità di cui anche i secondi vogliono essere portatori.

Nondimeno, non essendo comunque stata espressamente indicata nella L. 121/1910, sempre in dottrina ben presto si aprì un dibattito circa la natura giuridica delle Camere di Commercio {Di particolare rilevanza la disquisizione tra Vincenzo Cao e Santi Romano: “enti pubblici creati per esercitare una funzione che per sua natura potrebbe sostenersi dover competere allo Stato” secondo il primo, “rappresentanti di interessi particolari […], enti ausiliari e complementari che lo Stato istituiva quando era possibile la compenetrazione degli interessi particolari con quelli generali” per il secondo}.

In conclusione, la L. 121/1910 fu un chiaro esempio di come Giolitti intendesse promuovere gli interessi diffusi incorporandoli e sottoponendoli alle regole dettate dallo Stato; in questo modo l’amministrazione centrale ritornava ad essere la protagonista indiscussa della politica sociale a discapito delle classi borghesi, ora costrette a negoziare con lo Stato le modalità di una collaborazione subordinata.

Senonché in quel periodo gli equilibri socio-politici mutarono rapidamente ed il modello amministrativo giolittiano, sarebbe presto stato spazzato via dallo scoppio della Prima guerra mondiale.

Non a caso già nei primi anni Venti del Novecento si cominciò a discutere della necessità di riformare, ancora una volta, l’assetto delle Camere di Commercio; pertanto la normativa in esame non entrò sostanzialmente mai in vigore.

Dopotutto, alla vigilia del sistema corporativo fascista, non era più il momento di dedicarsi a burocratizzazione e contemperazione di interessi.


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Ilaria Baisi

Laureata cum laude in Giurisprudenza (percorso transnazionale), è attualmente dottoranda di ricerca in Diritto Amministrativo e dell'Ambiente presso l'Università degli Studi di Firenze. È allieva del seminario di Studi e Ricerche Parlamentari "Silvano Tosi" e nel 2022 ha conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione forense.

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