La colpa nel concorso di persone anche con riferimento ai reati causalmente orientati

La colpa nel concorso di persone anche con riferimento ai reati causalmente orientati

L’art. 113 del codice penale prevede che “nel delitto colposo, quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso’’

La norma prende in considerazione e disciplina un’autonoma ed autentica ipotesi di concorso di persone nel delitto colposo, che presenta peculiari caratteri legati alla natura colposa del delitto. Occorre infatti coniugare il presupposto proprio del concorso , ovvero la coscienza e volontà di prendere parte alla realizzazione plurisoggettiva del fatto, con la struttura stessa della colpa,prima facie incompatibile con il concetto di consapevole volontà.

Proprio in considerazione della natura colposa del delitto, ciò che deve essere accertato in capo ai concorrenti, ai fini dell’applicazione dell’art. 113 c.p., non è la volontà di concorrere alla realizzazione del reato ma la coscienza e volontà di concorrere alla condotta violatrice delle norme cautelari, condotta in cui appunto si concretizza il reato.

Partendo da una premessa di tal tipo, è agevole tracciare i confini esterni della figura della cooperazione colposa, con particolare riferimento al contiguo fenomeno del concorso di cause colpose indipendenti.

Il tratto distintivo della figura in esame rispetto a quest’ultimo risiede, infatti, nella necessaria sussistenza, quale imprescindibile requisito strutturale della fattispecie, di un legame psicologico con l’agire altrui. Nel concorso di cause colpose indipendenti l’evento è, invece, il frutto di una coincidenza di una pluralità di azioni od omissioni non collegate tra loro da alcun vincolo subiettivo.

Risulta pertanto pacifico che nella cooperazione colposa è richiesta la consapevolezza, in capo al soggetto agente, della convergenza delle volontà dei singoli concorrenti nella realizzazione della condotta produttrice dell’evento, restano invece incerti i confini entro i quali tale consapevolezza deve estendersi.

La dottrina maggioritaria sostiene che la cooperazione colposa presuppone l’ulteriore condizione della consapevolezza del carattere colposo della condotta altrui.

Affinché possa dirsi integrata la fattispecie concorsuale delineata dall’art. 113 c.p. è necessario che sussista nel concorrente la coscienza e la volontà di concorrere, non

già certo nella realizzazione dell’intera fattispecie di reato (posto che si sarebbe altrimenti al cospetto dell’elemento psicologico tipico del concorso doloso), (evitare incisi tra parentesi) ma nella realizzazione della condotta (comune o altrui) contraria a quelle regole cautelari, prasseologiche o scritte, intese a prevenire il verificarsi di eventi dannosi o, comunque, a ridimensionarne la portata entro limiti di tollerabilità socialmente accettabili.

Ed invero, se la mancanza della volontà di concorrere nella commissione dell’intero fatto criminoso (elemento negativo) vale a differenziare il concorso colposo da quello doloso, la coscienza e volontà di partecipare alla realizzazione della condotta violatrice della regola prudenziale consente di tracciare la differenza tra la fattispecie di cui all’art. 113 c.p. e quella del concorso di azioni colpose indipendenti.

In linea più generale, sempre in tema di legame psicologico tra le condotte sanzionate ex art. 113 c.p., sotto il profilo oggettivo, l’inosservanza rilevante può riguardare una regola cautelare incombente in via diretta sull’agente (es.: prestare l’automobile a chi si sa non abilitato alla guida), comune ai compartecipi (es.: organizzare in gruppo un falò in condizioni ambientali tali da evidenziare il rischio di incendi), ovvero propria di uno solo dei soggetti coinvolti (es.: istigare il guidatore a spingere sull’acceleratore).

A tale requisito deve accompagnarsi, in omaggio ai canoni ordinariamente vigenti in materia di responsabilità colposa, quello della previsione o, quantomeno, della prevedibilità ed evitabilità dell’evento lesivo, quale requisito dal quale non è dato prescindere ai fini dell’imputazione soggettiva del fatto al concorrente.

Tale tesi è stata, però, sottoposta, in tempi relativamente recenti, a revisione da chi ha obiettato, da un lato, che tra cause colpose indipendenti e cooperazione colposa sussiste, a ben vedere, una equivalenza assiologia che non giustifica la disparità di trattamento normativo, e, dall’altro, che il criterio discretivo proposto costituisce il retaggio di un approccio alla materia su basi psicologiche, confliggente con l’evoluzione in senso normativo che connota la maggior parte delle moderne indagini sul reato colposo monosoggettivo.

Dinanzi a tali critiche va però innanzitutto ribadito che il sommarsi di più condotte negligenti è obiettivamente più pericoloso se frutto di una scelta consapevole rispetto a quanto accade quando è il risultato casuale di sfavorevoli circostanze di fatto: ciò giustifica, da un canto, la distinzione concettuale tra ipotesi non coincidenti sotto il profilo dogmatico, dall’altro, la differenziazione della risposta sanzionatoria.

In secondo luogo, per quel che attiene alla segnalata esigenza di rileggere l’istituto della cooperazione colposa alla luce della costruzione dell’illecito colposo nella chiave normativa di violazione del dovere di diligenza, va considerato che, pure ammettendo che, in talune ipotsi di colpa (si pensi, ad esempio, alle c.d. omissioni per dimenticanza) manca un effettivo substrato psicologico nel comportamento dell’agente (connotato certo presente, tuttavia, in altre ipotesi, quali quelle connotate da colpa con previsione), non può, per ciò solo, escludersi dal novero degli elementi costitutivi della fattispecie concorsuale colposa il requisito di natura psichica che, anzi, svolge, nel reato pluri soggettivo, un ruolo specifico, evitando la sovrapposizione tra cooperazione colposa e concorso di cause colpose indipendenti.

Sulla questione è di recente intervenuta la Cassazione che, nell’esaminare la natura ed il contenuto dell’elemento soggettivo che deve intercorrere tra le condotte dei partecipi, conferma che tale nesso va individuato nella consapevolezza di cooperare con altri. Ha tuttavia ritenuto che la tesi della mera consapevolezza, in capo al partecipe, della convergenza della propria condotta a quella altrui implica il rischio di creare un’eccesiva dilatazione dell’imputazione, mentre la opposta concezione che richiede la consapevolezza del carattere colposo dell’altrui comportamento reca il rischio opposto di svuotare di significato la norma e di renderla inutile, una tale consapevolezza potendo implicare un comportamento penalmente rilevante già in via autonoma

In particolare, il criterio per definire il fondamento ed i limiti della colpa di cooperazione è stato individuato nel concetto di “interazione prudente”.

E’ stato affermato in particolare, che le preoccupazioni di eccessiva estensione della fattispecie di cooperazione connesse alla mera consapevolezza dell’altrui condotta

concorrente non sono prive di peso. Esse pare possano essere arginate solo individuando con rigore, sul piano fenomenico, le condotte che si pongono tra loro in cooperazione. Occorre cioè che il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto dalla legge, da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio, o almeno sia contingenza oggettivamente definita senza incertezze e pienamente condivisa sul piano della consapevolezza. In tali situazioni, l’intreccio cooperativo, il comune coinvolgimento nella gestione del rischio giustifica la penale rilevanza di condotte che, come si è accennato, sebbene atipiche, incomplete, di semplice partecipazione, si coniugano, si compenetrano con altre condotte tipiche. In tutte tali situazioni ciascun agente dovrà agire tenendo conto del ruolo e della condotta altrui. Si genera così un legame ed un’integrazione tra le condotte che opera non solo sul piano dell’azione, ma anche sul regime cautelare, richiedendo a ciascuno di rapportarsi, preoccupandosene, pure alla condotta degli altri soggetti coinvolti nel contesto. Tale pretesa d’interazione prudente individua il canone per definire il fondamento ed i limiti della colpa di cooperazione. La stessa pretesa giustifica la deviazione rispetto al principio di affidamento e di autoresponsabilità, insita nell’idea di cooperazione colposa.

Il fenomeno della cooperazione colposa è così delimitato entro confini ben determinati, coincidenti con i settori nei quali il coinvolgimento di più persone discende dalla legge, da esigenze organizzative relative alla gestione del rischio, oppure da circostanze contingenti ma comunque oggettive, e sempre che via sia la consapevolezza in capo al compartecipe che la propria condotta accede a quella di altri. In questa situazione, l’intersezione delle varie condotte estende il novero degli obblighi cautelari, e pone il dovere di ciascun agente di relazionarsi e preoccuparsi anche della condotta degli altri soggetti che intervengono nella stessa situazione: la violazione di tale obbligo rende colpose condotte che tali non sarebbero alla stregua della fattispecie incriminatrice.

Successivamente, a parere della Cassazione ciò che contraddistingue la forma di concorso che il codice qualifica come cooperazione nel delitto colposo (concorso che viene detto anche “improprio”) è il legame psicologico che si instaura tra gli agenti, ognuno dei quali è conscio della condotta degli altri.

Ad avviso della Corte, la consapevolezza riguarda esclusivamente la partecipazione di altri soggetti e non, come è ovvio trattandosi di reati colposi, il verificarsi dell’evento.

Non è richiesto, invece, perché possa essere ritenuta la cooperazione colposa, un quid pluris costituito dalla specifica coscienza o conoscenza sia delle persone che cooperano sia delle specifiche condotte da ciascuno poste in essere.

Non ignora la Corte che una corrente dottrinale sostiene che, per ipotizzare la cooperazione, sia necessaria la consapevolezza anche della natura colposa dell’altrui condotta ma questa tesi non è mai stata condivisa dalla dottrina dominante che ha obiettato che, richiedendo questo requisito, la cooperazione sarebbe configurabile solo nel caso di colpa cosciente.

La Corte, sul presupposto che l’elemento soggettivo della partecipazione colposa implica la sola consapevolezza della convergenza della propria condotta con quella di altri, e non richiede né la conoscenza del contenuto specifico delle condotte degli altri, nè dell’identità dei partecipi, ha ritenuto che la cooperazione è ipotizzabile anche in tutti quelle ipotesi nelle quali un soggetto è cosciente della partecipazione di altri al contesto in cui si svolge la sua condotta o, più specificamente (e con riguardo alla fattispecie in esame o a casi consimili) interviene essendo a conoscenza che la trattazione del caso non è a lui soltanto riservata perchè anche altri soggetti ne sono o ne saranno investiti. Queste conclusioni non riguardano soltanto l’organizzazione sanitaria perchè analoghi esempi potrebbero farsi in relazione ad altre organizzazioni complesse quali le imprese e settori della pubblica amministrazione (si pensi alla formazione di atti complessi nei quali confluiscano atti adottati da persone diverse in tempi diversi senza alcun rapporto tra i partecipi). Orbene in tutti questi casi esiste il legame psicologico previsto per la cooperazione colposa perchè ciascuno degli agenti è conscio che altro soggetto (medico, pubblico funzionario, dirigente ecc.) ha partecipato o parteciperà alla trattazione del caso; in particolare, per quanto riguarda

l’attività medico chirurgica, l’agente è consapevole che, per quella specifica patologia che ha condotto a sottoporre il paziente al trattamento terapeutico, altri medici sono investiti del medesimo trattamento.

Nell’enunciare il contenuto del nesso soggettivo che intercorre tra i partecipi nella cooperazione colposa, la Corte di Cassazione ha così evidenziato che esso non implica la rappresentazione della reale e precisa consistenza materiale delle condotte dei compartecipi, ma la sola conoscenza del fatto dell’intervento dell’opera di terzi.

L’inquadramento di una data condotta nella figura disciplinata dall’art. 113 c.p. anziché in quella del concorso di cause colpose indipendenti, lungi dall’esaurirsi in uno sterile dibattito dogmatico, presenta rilevanti riflessi sul piano pratico.

La sussunzione nella fattispecie di cui all’art. 113 c.p. determina, in primo luogo, la possibilità di concedere, ricorrendone gli ulteriori presupposti, l’attenuante di cui all’art. 114 c.p: nel dettaglio la circostanza attenuante può essere riconosciuta al fine di adeguare il trattamento sanzionatorio in funzione dell’oggettivo apporto fornito da ciascun concorrente.

Essa comporta, inoltre, l’operatività dell’effetto estensivo ex art. 123 c.p. della querela eventualmente sporta nei confronti di uno solo dei concorrenti nell’unico reato.

Sempre per quel che attiene alle specifiche questioni applicative, è discussa in dottrina l’armonizzabilità con la struttura del concorso colposo dell’art. 117 c.p. A fronte di un primo indirizzo diretto ad escludere siffatta compatibilità sull’assunto del carattere necessariamente doloso dell’atteggiamento destinato a connotare sul versante psicologico l’extraneus, pare prevalentemente seguita la diversa opzione volta ad escludere ogni incompatibilità; alla stregua di quest’ultimo indirizzo, quindi, l’art. 117 c.p. va applicato al concorso colposo allorché l’extraneus ignori per errore determinato da colpa la qualifica rivestita dall’intraneus. Per parte della dottrina, inoltre, il concorso colposo può essere, in ipotesi, anche unilaterale, il che accade quando soltanto uno dei concorrenti sa di cooperare con altri: conseguenza obbligata

di tale situazione fattuale è l’applicazione del regime concorsuale all’unico soggetto consapevole.

Delimitato l’ambito applicativo dell’art. 113 c.p., resta dibattuto se la norma svolga funzione solo di disciplina od anche incriminatrice; se cioè sia destinata ad attribuire rilevanza penale a comportamenti colposi atipici rispetto alle fattispecie monosoggettive di parte speciale, non punibili in assenza di una norma ad hoc estensiva della punibilità, ovvero ì sia diretta ad assoggettare ad un particolare trattamento penale fatti già autonomamente sanzionabili in base alle fattispecie di parte speciale.

A tal fine, è necessario ulteriormente distinguere i reati “a forma vincolata’’ o di “mera condotta’’ dai reati causalmente orientati. Relativamente ai primi la norma in esame svolge una indubbia funzione incriminatrice, consentendo la punizione di comportamenti di mera agevolazione di un fatto colposo altrui altrimenti non perseguibili in quanto tali.

Più discusso è il ruolo che l’art. 113 c.p. svolgerebbe in relazione alle fattispecie casualmente orientate. Parte della dottrina attribuisce alla norma una analoga funzione incriminatrice, mediante l’innalzamento al rango di contegno penalmente sanzionato di condotte partecipative che, per il taglio tipicamente agevolatorio, non sarebbero legate da nesso eziologico nei confronti del risultato lesivo; parimenti accadrebbe per ciò che concerne il concorso colposo in reato commissivo mediante omissione, in specie per il caso in cui il contributo di partecipazione venga fornito da persona estranea alla specifica situazione di garanzia dalla quale promana la responsabilità penale.

Non mancano però incongruenze in siffatta costruzione, soprattutto nella parte in cui assume l’applicabilità dell’art. 113 c.p. ai reati colposi casalmente orientati, a partire dalla ingiustificata sovrapposizione al parametro materiale di quello psicologico, che afferisce, piuttosto, al tema della colpevolezza: essa, infatti, attribuisce decisiva rilevanza alla mera consapevolezza di concorrere con altri, pur in carenza di diretto

contrasto tra la condotta serbata ed una o più regole di diligenza, prudenza, perizia, andando in senso contrario rispetto alla più recente evoluzione della teoria della colpa penale, che, utilizzando parametri normativi, sottolinea l’esigenza di rinvenire la violazione del dovere oggettivo di diligenza già sul piano della tipicità del fatto colposo.

Sulla questione, di recente si è pronunciata la Cassazione secondo cui l’art. 113 c.p. esercita una funzione estensiva dell’incriminazione rispetto a condotte atipiche, agevolatrici, incomplete, di semplice partecipazione, che per assumere concludente significato hanno bisogno di coniugarsi con altre condotte.

Tale indirizzo interpretativo trova conferma nella disciplina degli articoli 113, co. 2, e 114 c.p., i quali prevedono, nell’ambito delle fattispecie di cooperazione, l’aggravamento di pena per il soggetto che ha assunto un ruolo preponderante e, simmetricamente, la diminuzione della pena per l’agente che abbia apportato un contributo di minima importanza: quest’ultima previsione, evocando condotte di modesta significatività, si riferirebbe proprio a comportamenti che sono sforniti di tipicità colposa e quindi non autosufficienti ai fini della affermazione di responsabilità in base alle norme incriminatrici di parte speciale.

Nell’esemplificare il principio esposto nei casi problematici, la Cassazione ha ritenuto che l’effetto estensivo dell’incriminazione operato dall’art. 113 c.p. si configura sicuramente nei reati commissivi mediante omissione, per incriminare l’apporto fornito all’omissione del garante dal soggetto non gravato dall’obbligo di impedimento dell’evento.

Pari efficacia incriminatrice è stata ritenuta rispetto alle condotte inosservanti di una regola cautelare di condotta attinente all’obbligo di controllare ed impedire le altrui condotte colpose: la Corte aderisce a quella dottrina che ha ravvisato una funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p. rispetto a comportamenti che costituiscono violazione di obblighi di “natura secondaria”

La Corte di Cassazione, ha poi osservato che meno definita appare la vasta area in cui è presente una condotta che, priva di compiutezza, di fisionomia definita nell’ottica

della tipicità colposa se isolatamente considerata, si integra con altre dando luogo alla fattispecie causale colposa. Mentre la condotta tipica da luogo alla violazione della regola cautelare eziologica, quella del partecipe, come ritenuto da autorevole dottrina, si connota per essere pericolosa in una guisa ancora indeterminata. A tali condotte viene solitamente attribuita valenza in chiave agevolatrice. A tale ambito sembrano riferirsi non solo l’intitolazione dell’art. 113 c.p., che evoca il concetto di cooperazione colposa distinto da quello di concorso doloso; ma anche i lavori preparatori, quando si parla di scientia maleficii, di consapevolezza di concorrere con la propria all’altrui azione, di fascio di volontà cooperanti nel porre in essere il fatto incriminato.

La Corte di Cassazione aderisce ad una particolare elaborazione dottrinaria che ha riconosciuto efficacia incriminatrice all’art. 113 c.p., nei reati causali puri, nei casi in cui sussista in capo al partecipe la consapevolezza di concorrere nel fatto materiale altrui: la consapevole interazione tra le condotte consente di attribuire rilievo penale a condotte fornite di pericolosità ancora astratta ed indeterminata rispetto al fatto comune; la consapevolezza dell’interazione che lega le condotte dei partecipi estende il contenuto del dovere di diligenza fino a ricomprendere la generalmente irrilevante prevedibilità delle conseguenze del fatto comune.

Ulteriore profilo problematico relativo all’art. 113 c.p. riguarda la configurabilità della cooperazione colposa negli illeciti contravvenzionali.

La dottrina prevalente e la giurisprudenza danno soluzione positiva al quesito, facendo leva sul dato letterale dell’art. 110 c.p. La norma cardine della disciplina del reato plurisoggettivo parla di concorso “nel reato’’, così manifestando un’opzione terminologica atta a ricomprendere tanto i delitti quanto le contravvenzioni.

Viene, peraltro, rimarcata la necessità di interpretare l’art. 113 c.p. alla luce dell’art. 42, secondo co., c.p. che impone la necessità di apposita previsione normativa ai fini della punizione dei delitti, ma non anche delle contravvenzioni colpose; l’illiceità penale delle medesime contravvenzioni colpose troverebbe fondamento, quindi, nel combinato disposto degli artt. 42, co. 4, c.p., e 110 c.p.

L’art. 113 c.p., in questa prospettiva, farebbe riferimento ai soli delitti colposi, non per escludere le contravvenzioni, ma per parificare i delitti alle contravvenzioni, già contemplate nell’art. 110 c.p.

Non mancano, in merito, le voci di dissenso, che fanno leva anzitutto sull’incongruenza derivante dall’adesione alla ricostruzione più diffusa, che si concreta nell’applicazione delle circostanze aggravanti previste dai nn. 1 e 2 dell’art. 112 c.p., non richiamate dal capoverso del successivo art. 113 c.p., alle ipotesi di concorso nelle contravvenzioni e non anche ai casi di cooperazione nei delitti colposi. Tale argomento, pure suggestivo, non appare decisivo, collegandosi esso ad un assunto di principio sottoposto a revisione critica. Diversamente si obietta poi, che, data l’elevata frequenza, sul piano statistico, delle fattispecie contravvenzionali a forma libera, il risultato in termini di incriminazione ex novo di comportamenti atipici sarebbe di peculiare consistenza, onde una norma dedotta implicitamente dal testo dell’art. 110 c.p. finirebbe con l’assumere una portata incriminatrice assai vasta, effetto che, più opportunamente, dovrebbe essere rimesso ad una espressa previsione normativa. D’altra parte, a causa del descritto fenomeno, verrebbero sanzionati contributi di gravità ridotta, e ciò in contrasto con la tendenza alla riduzione dell’intervento del giudice penale che ha orientato, specie negli ultimi anni, le scelte del legislatore. Si tratta, tuttavia, di preoccupazione non decisiva se solo si considera che la punibilità è sempre condizionata, anche nell’ipotesi di concorso nel reato contravvenzionale, al riscontro di presupposti generali sopra illustrati.


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