La coltivazione di sostanze stupefacenti e gli artt. 73 ss. d.P.R. n. 309/1990
La coltivazione di sostanze stupefacenti può integrare il delitto di cui all’art. 73 c.1 e 4. D. P. R 309/1990 c.p..
In primo luogo la condotta di “coltivazione” non è mai sottratta al rilievo penale, in quanto l’art. 75 I comma del DPR 309/1990 ricomprende nella figura dell’illecito amministrativo solo le condotte di “importazione, acquisto e detenzione” e non le altre condotte indicate dall’art. 73 e cioè “la produzione, la fabbricazione, la raffinazione, la messa in vendita e la “coltivazione” delle sostanze stupefacenti”.
In relazione alla rilevanza penale della coltivazione di sostanze stupefacenti, un significativo indirizzo delle Sezioni Unite è giunto ad un risultato interpretativo in armonia con la ratio e la funzione complessiva del D.P.R 309/90, utilizzando i principi di tipicità e di “offensività in astratto ed in concreto, richiamati più volte dalla giurisprudenza costituzionale (Cort. Cost., sentenza n. 360 del 24.7.1995 ) e al principio per il quale non è un concepibile un reato senza offesa ( “nullum crimen sine iniura”).
La Suprema Corte ha infatti affermato che esula dal canone della rilevanza penale di cui all’art. 73 D.P.R. 309 /1990, la coltivazione della sostanza stupefacente o psicotropa che, pur essendo ricompresa nelle tabelle allegate alla legge, sia priva di qualsiasi efficacia farmacologica e quindi sia inidonea a determinare qualsiasi effetto drogante.
Tuttavia, dopo aver accertato la tipicità della condotta – che consiste nella coltivazione di una pianta conforme al ‘tipo botanico’ e che abbia, se matura, raggiunto la soglia di capacità drogante minima – il giudice può e deve (anche) verificare se la condotta integri in concreto l’offesa al bene giuridico (Cass. pen., Sez. Un. 10.7.2008, n.28605).
Giusti i principi espressi dalla Corte Costituzionale (sent. 360/1995) il giudice di legittimità ha così sottolineato che non sussiste la coltivazione di una pianta il cui ciclo non si è completato, non avendo prodotto principi attivi e non essendo quindi rilevabile in concreto l’effetto stupefacente (Cass. pen., sez. VI, 28 ottobre 2008 – 14 gennaio 2009, n. 1222).
Tale soluzione è in perfetta armonia con le recenti pronunce della giurisprudenza che, nella prospettiva dei principi dell’ offensività in astratto ed in concreto, richiamano la figura del reato impossibile di cui all’art. 49, secondo comma, cod. pen., in forza del quale “la punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per la inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso” (Cass. pen., sez. IV, 21 gennaio 2016, n. 2548; Cass. pen., sez. VI, 22 gennaio 2016, n. 3037; Cass. pen., sez. VI, 9 febbraio 2016, n. 5254). Infatti, in tali casi è carente l’elemento oggettivo del reato e quindi il fatto non sussiste.
Recentissima giurisprudenza afferma invece che la coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti costituisce reato, in quanto rientra tout court nell’ambito delle condotte di cui al d.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 (Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope). Tale soluzione evidenzia che i reati di cui al citato decreto sono di pericolo astratto, sicché, laddove il fatto sia conforme alla fattispecie tipica, ricorre necessariamente l’astratta offensività della condotta (Corte di Cassazione, terza sezione penale, con sentenza 38868 del 24 agosto 2018). Occorre comunque verificare in concreto l’offensività della condotta che, in caso di coltivazione, non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile dalle piante non sia idonea a produrre un effetto stupefacente effettivamente rilevabile. L’offensività non ricorre, ossia, quando la sostanza coltivata, pur conforme al “tipo”, non abbia la quantità minima per svolgere la funzione di droga. Tra l’altro è stato in proposito affermato come, ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, l’offensività della condotta non è esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali, neppure quando risulti l’assenza di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, se gli arbusti sono prevedibilmente in grado di rendere, all’esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti.
La condotta di coltivazione può integrare anche il delitto di cui all’art. 73 c. 5 d.p.r. 309/1990 che tuttavia risulta non punibile ai sensi dell’art. 131 bis c.p. Il comma V della citata norma non prevede più una circostanza attenuante, ma – sia per le droghe pesanti che per quelle leggere punite indifferentemente – un reato autonomo che sanziona i fatti previsti dall’art. 73 (quindi descritti nel I come nel IV comma) che siano di lieve entità, considerati i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione, ovvero per la qualità e quantità della sostanza e quando l’offesa sia minima.
La ratio di tale norma è da individuare nel principio di ragionevolezza della pena, che rende anche necessaria una interpretazione non restrittiva del carattere “lieve” del fatto. Infatti. considerate le pene previste dai commi primo e quarto dell’art. 73, il “fatto di lieve entità” deve essere individuato con criteri interpretativi che consentano di rapportare in modo razionale la pena al fatto, tenendo conto di quel criterio di ragionevolezza (che vale tanto per il legislatore quanto per l’interprete), imponendo l’art. 3 Cost., in materia penale, la proporzione fra la quantità e la qualità della pena e l’offensività del fatto.
In tal senso, secondo un recente indirizzo giurisprudenziale, la condotta di chi coltiva una piccola piantina i cui semi non siano giunti a maturazione, essendo poco più che germogli, può integrare il delitto di cui all’art. 73 c. 5 d.p.r. 309/1990 (Cass. pen. 2618/2016).
Rispetto a tale reato la giurisprudenza ritiene l’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. In particolare le Sezioni unite della Suprema Corte hanno rilevato che il giudice, nel vagliare la speciale tenuità del fatto, deve prendere in considerazione tutti gli indicatori previsti dall’art. 131 bis (e non solo la “quantità” di aggressione al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice) e dare così rilievo al fatto storico (e non al fatto tipico).
Su tali basi, il Supremo Collegio ha dunque elaborato il principio di diritto secondo cui: «essendo in considerazione la caratterizzazione del fatto storico nella sua interezza, non si dà tipologia di reato per la quale non sia possibile la considerazione della modalità della condotta ed in cui sia quindi inibita ontologicamente l’applicazione del nuovo istituto» (Cass. Pen. Sezioni unite n. 13682 del 2016).
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Giacomo Garitta
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