La coltivazione domestica della cannabis. Tipicità, offensività in concreto e prime applicazioni ad un anno dall’intervento delle Sezioni Unite
Sommario: 1. La tipicità della condotta dal punto di vista botanico – 2. Il contrasto interpretativo sugli estremi della rilevanza penale della coltivazione “domestica” – 3. L’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite – 4. Le prime applicazioni
1. La tipicità della condotta dal punto di vista botanico
Il genere Cannabis in botanica è rappresentato da piante erbacee a ciclo annuale con diverse varietà chimiche (Sativa L., Indica Lam, Ruderalis Janish) che si caratterizzano per habitat, sviluppo e fitocomplesso, l’insieme dei principi attivi (i cannabinoidi) e dei coadiuvanti (i più noti sono i terpeni, che caratterizzano aroma e sapore, ed i flavonoidi) che determinano le azioni della sostanza sul consumatore.
Tra i cannabinoidi si distinguono il Delta-9-tetraidrocannabinolo (THC), che è uno psicoattivo e come tale modifica lo stato psico-fisico dell’assuntore, e il cannabidiolo (CBD).
Ogni coltivazione di varietà della cannabis rientra in astratto nella disciplina del D.p.r. 309/90[1], salvo che sia ricompresa nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole ai sensi dell’art. 17 della Direttiva 2002/53 CE del Consiglio Europeo del 13.06.2002[2], per le quali si applicherà la disciplina prevista della Legge 242/2016, purché venga rispettato il limite di THC inferiore allo 0,6 % del prodotto e la coltivazione sia destinata alle finalità indicate dalla citata normativa.
2. Il contrasto interpretativo sulla rilevanza penale della coltivazione “domestica”
La Sezioni Unite della Cassazione sono state chiamate nel 2020 a dirimere un contrasto interpretativo relativo alla configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti.
Al crescere della casistica di condotte di coltivazioni domestiche di cannabis, infatti, si erano formati nel tempo due filoni interpretativi dell’art. 73 D.p.r. 309/90, il quale punisce, fra le altre condotte, anche la coltivazione non autorizzata delle sostanze ricomprese nelle tabelle allegate al decreto in parola, fra le quali rientra anche la cannabis.
Il primo orientamento, aderente ad un concetto di offensività della condotta “in concreto”, riteneva non sufficiente, per integrare la fattispecie di cui all’art. 73 D.p.r. 309/90, che la pianta fosse conforme alla tipologia botanica ricompresa nelle tabelle allegate al citato decreto e che avesse raggiunto una soglia minima drogante, ma richiedeva di verificare nel caso concreto se tale attività fosse idonea a ledere la salute pubblica favorendo la circolazione della sostanza psicotropa nel mercato[3].
Il principio di offensività in concreto trova infatti larga applicazione nelle normativa sugli stupefacenti ed ha condotto negli anni all’introduzione di concetti rilevanti quali la “soglia drogante” e la “dose media giornaliera” nella valutazione delle condotte rientranti di volta in volta nella punibilità della detenzione di sostanze psicotrope a fine di spaccio piuttosto che nell’ipotesi di detenzione per uso personale.
Con riferimento alla condotta tipica della coltivazione di sostanze psicotrope, l’offensività in concreto si declina nella duplice esigenza, perché integri illecito penale, che la sostanza sia elencata nelle tabelle allegate al D.p.r. 309/90 e che abbia un’efficacia stupefacente o psicotropa, a partire dalla messa a dimora del seme.
Un diverso orientamento, di offensività “in astratto”, invece, sosteneva che l’offensività della condotta de qua fosse insita nell’idoneità della pianta a produrre la sostanza psicotropa per il consumo[4].
Secondo tale indirizzo, anticipando la tutela del bene giuridico protetto dalla norma e considerando la fattispecie di coltivazione di sostanze psicotrope quale reato di pericolo e non di mero danno, non rilevava, ai fini dell’integrazione del reato in parola, la percentuale di principio attivo ricavabile nell’immediatezza dalla pianta, bensì la sua conformità al tipo botanico e la sua capacità, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione, produrre la sostanza drogante e dare seguito ad una potenziale diffusione della stessa.
Per il detto orientamento il ricorso all’offensività in astratto delle condotta, per quanto riguarda la coltivazione, sarebbe necessario per le peculiarità che connotano la produzione della sostanza in parola.
A differenza della mera detenzione, dell’acquisto e dell’importazione, infatti, nelle quali il quantitativo della sostanza stupefacente è certo e determinato e consente, di concerto con gli altri elementi attinenti alle circostanze concrete del caso, una valutazione prognostica sulla destinazione personale o di vendita, nel caso della coltivazione tale dato è meno certo, più ipotetico e ciò comporta una maggior pericolosità della condotta.
Pertanto, siccome la coltivazione può essere destinata ad incrementare in maniera esponenziale la quantità di sostanza sul mercato degli stupefacenti, è giustificato il ricorso ad un principio di offensività astratto, che ricondurrebbe la coltivazione in un reato di pericolo presunto.
Gli effetti di tale interpretazione verrebbero comunque mitigati tramite il recupero del principio di offensività “in concreto” – riservando la tutela penale a condotte che ledono effettivamente il bene giuridico protetto dalla norma penale, evitando possibili aberrazioni del sistema – con il ricorso all’istituto del reato impossibile nel caso in cui la pianta, seppur conforme al tipo botanico richiesto dalla normativa, non sia in concreto in grado di giungere a maturazione, producendo il principio drogante nelle infiorescenze e nelle foglie, a causa di errori di coltivazione, di coltivazione del tutto inadeguata o di agenti esterni (ad esempio parassitari) in azione al momento dell’accertamento del fatto.
La differenza di fondo dei detti approcci si riverberava sull’anticipazione della tutela penale nel caso di interpretazione dell’offensività in astratto: in tali casi, infatti, integravano l’art. 73 D.p.r. 309/90 tutte le ipotesi di coltivazione di piante corrispondenti dal punto di vista botanico alla tipologia inserita negli allegati al citato decreto svolte in modalità tali da poter potenzialmente condurre alla produzione di sostanze psicotrope, rimanendo escluse del tutto dalla sanzione penale solo le condotte per le quali fosse impossibile il raggiungimento di tale risultato.
3. L’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite
La Corte di Cassazione, con la pronuncia a Sezioni Unite n. 12348/2020, ha tentato di delineare i confini della rilevanza penale della coltivazione domestica della cannabis, ripristinando la distinzione, talvolta troppo poco marcata, fra la tipicità della condotta e l’offensività del reato e distinguendo la coltivazione di minime dimensioni da quella professionale o alla stessa assimilabile.
Innanzitutto la Corte di Cassazione ha ricondotto al piano della tipicità la riconducibilità della fattispecie concreta alla tipologia disciplinata dalla fattispecie astratta, i requisiti della conformità della pianta al tipo botanico vietato e della sua attitudine, per le modalità di coltivazione tecnicamente adeguata, a giungere a maturazione producendo sostanza drogante.
Sulla scorta di tale impostazione discende il necessario corollario che è “tipica” e quindi rientra nell’ipotesi delittuosa in parola, di pericolo presunto, solo la coltivazione “tecnico-agraria” mentre è penalmente irrilevante la coltivazione di minime dimensioni, finalizzata al consumo strettamente personale.
A tal proposito assume importante rilievo la prevedibilità del potenziale produttivo, in quanto solo una produzione prevedibile come modestissima rientra nel penalmente non rilevante.
Tale parametro, però, per poter operare con sufficiente certezza, deve essere ancorato ad altri presupposti oggettivi tutti compresenti, quali la minima dimensione della coltivazione, il suo svolgimento in forma domestica, le tecniche rudimentali adottare per la coltivazione, la scarso numero di piante, la mancanza di indici di inserimento nel mercato degli stupefacenti (la presenta o meno di bilancini di precisione, buste per il confezionamento o trita erba) e l’effettiva destinazione all’uso personale della sostanza ricavata dalla coltivazione.
Appartiene, invece, al piano dell’offensività il corretto inquadramento della coltivazione di sostanze psicotrope nell’alveo dei reati di pericolo presunto, in quanto l’incremento della provvista di sostanza stupefacente derivante dalla coltivazione comporta un aumento potenziale di aggressione alla salute pubblica, con la connessa valorizzazione dell’offensività “in concreto” quale criterio interpretativo affidato al Giudice per escludere le condotte che non hanno effettivamente leso o messo in pericolo il bene giuridico tutelato.
Pertanto non sarà integrato il reato, sul piano dell’offensività, allorquando, con una valutazione a posteriori, venga accertato che la coltivazione, giunta a termine del proprio ciclo produttivo, ha prodotto una sostanza non in grado di raggiungere l’effetto drogante, a causa di un principio attivo a tal fine inadeguato.
Viceversa il reato di coltivazione, intesa in ogni sua fase, dalla semina al raccolto, sarà integrato, sotto il profilo dell’offensività, allorché ci si trovi in presenza della conformità della pianta al tipo botanico previsto e della sua attitudine, per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e produrre sostanza psicotropa, anche se in fase antecedente alla maturazione, indipendentemente al quantitativo di principio attivo immediatamente riscontrabile nell’immediatezza del fatto.
Si configura pertanto una graduazione della rilevanza penale delle condotte connesse alla coltivazione domestica di piante stupefacenti: sono lecite le coltivazioni domestiche, a fine di autoconsumo, nelle quali difetti la tipicità (pianta non rientrante nel tipo botanico oppure coltivata con modalità tali da non poter in assoluto raggiungere la maturazione oppure che al termine del ciclo di coltivazione non abbiano raggiunto una capacità drogante) e, per difetto di offensività in concreto, la coltivazione in modalità “industriale” che al termine del ciclo di sviluppo della pianta non abbia prodotto sostanza drogante; è lecita la detenzione di sostanza psicotropa ad uso personale, anche se ottenuta tramite coltivazione domestica lecita, ed è soggetta alla disciplina prevista dall’art. 75 D.p.r. 309/90; alla coltivazione penalmente rilevante sono comunque applicabili l’art. 131 bis c.p., nel caso di particolare tenuità del fatto, ed il comma 5 dell’art. 73 D.p.r. 309/90 nel caso di minore gravità del fatto.
In caso di condotte non punibili, per mancanza della tipicità relativa alla coltivazione di sostanze psicotrope, non potranno neppure essere applicate le conseguenze previste dall’art. 75 del D.p.r. 309/90, in quanto previste solamente per la condotta di “detenzione” e non anche di “coltivazione” di sostanze ad uso personale. Tali conseguenze, invece, troveranno applicazione qualora la coltivazione domestica, anche di autoconsumo, abbia raggiunto invero l’efficacia drogante, essendo in tal caso equiparabile la posizione del coltivatore domestico per autoconsumo al detentore di sostanze psicotrope ad uso personale. Qualora poi si raggiunga la coltivazione penalmente rilevante, trovandosi al di fuori delle ipotesi di produzione per autoconsumo, la detenzione della sostanza sarà assorbita nella condotta di coltivazione[5].
4. Le prime applicazioni
Nell’arco dell’ultimo anno non sono mancate le prime applicazioni dell’interpretazione sulla tipicità della coltivazione domestica offerta dal citato intervento delle Sezioni Unite della Cassazione.
Ad esempio, facendo leva sul numero esiguo delle piante conformi al tipo botanico richiesto (quattro, di cui una secca e quindi inidonea a produrre sostanza psicotropa) rivenute a seguito di perquisizione ambientale nell’alloggio di un ragazzo romano, sulla condizione di consumatore di sostanza stupefacente del coltivatore, sull’assenza di elementi indici di collegamenti con organizzazioni dedite allo spaccio, sul quantitativo, non particolarmente rilevante, di sostanza ricavabile dalla coltivazione (g. 150,3 di marijuana) e sulla modalità rudimentale della medesima (svolta in una piccola stanza con due lampade alogene) il Tribunale di Roma[6] ha assolto l’imputato, al quale era stato contestata la fattispecie di cui all’art. 73, c. 4 D.p.r. 309/90, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, rientrando invero nell’alveo di detenzione di sostanza ad uso personale e quindi nell’ambito di applicazione dell’illecito amministrativo di cui all’art. 75 D.p.r. 309/90.
E’ stata invece è stata riconosciuta dalla Corte d’Appello di Lecce[7] la tipicità della condotta di coltivazione di (cinque) piante di canapa indiana, con foglie ed infiorescenze per 2952 grammi e contenuto medio di principio attivo dell’1,4% le quali, seppur non ancora del tutto giunte a maturazione, sono state considerate idonee a produrre effetti droganti alla luce del principio attivo (THC) superiore allo 0,5 % sul peso secco, ma gli imputati sono stati assolti, perché il fatto non sussiste, per difetto di offensività in concreto, sulla scorta della tipologia di coltivazione, rudimentale e non organizzata, consistita nella mera messa a dimora delle piante, del principio attivo modesto e dell’assenza di collegamenti con ambienti dediti alla commercializzazione degli psicotropi.
Sulla medesima scia interpretativa si rilevano anche una pronuncia della Corte d’Appello di Ancona[8] con riferimento alla detenzione di tre piante di cannabis, del Tribunale di Ferrara[9], con riferimento alla coltivazione di due piante corrispondenti al tipo botanico richiesto ed alla detenzione di sostanza psicotropa destinata al consumo personale e del Tribunale di Genova[10] con riferimento alla coltivazione di tre piante con metodi rudimentali, mentre proprio per il quantitativo di piante (ventotto) rinvenute, il relativo stato di maturazione connesso alla capacità di rifornimento di sostanza psicotropa (pari a 1669 dosi medie giornaliere) il metodo tecnico di coltivazione (un sistema di illuminazione che aveva condotto l’imputato anche ad effettuare un allaccio abusivo ad una fornitura elettrica) la Corte d’Appello di Napoli[11] ha ritenuto integrato il reato di cui agli artt.li 73, c. IV e V D.p.r. 309/90.
E’ stata altresì riconosciuta dal Tribunale di Vicenza[12] la corrispondenza alla tipicità della fattispecie di cui all’art. 73, c. V D.p.r. 309/90 della coltivazione domestica di (sei) piante effettuata con tecnica e mezzi considerabili “casalinghi ma non rudimentali” (una serra dotata di teli termici e lampade UV per la micropropagazione del calore, vari fertilizzanti ed essiccatoio) con un quantitativo non particolarmente ingente (erano ricavabili 453 dosi singole) ma non ritenuto compatibile con una scorta personale del coltivatore. Nella detta occasione è stato anche applicato il principio statuito dalla predetta sentenza delle Sezioni Unite sul concorso apparente fra la coltivazione e la detenzione di sostanza psicotrope, quest’ultima considerata ultima fase del ciclo produttivo e come tale post factum assorbito nella condotta di coltivazione.
[1] In sede di conversione del D.L. n. 36 del 2014 la parola “indica”, che nel decreto legge qualificava la cannabis, è stata soppressa. Vi è stata “la precisa intenzione del legislatore del 2014 di qualificare la cannabis come sostanza stupefacente, in ogni sua varietà”. Cass. S.U. n. 30475/2019.
[2] Art. 2 L. 242/2016.
[3] Da ultimo Cass. Sez.III n. 36037/2017.
[4] Da ultimo Cass. Sez. VI n. 35654/2017
[5] Tale principio già espresso dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 109/2016: la disponibilità della sostanza è l’ultima fase del processo di coltivazione, post factum non (autonomamente) punibile.
[6] Tribunale di Roma, Sez. V, sentenza n. 5325 del 2.07.2020.
[7] Corte d’Appello di Lecce, Sez. Unica, Sentenza del 5.02.2021.
[8] Corte d’Appello di Ancona, sentenza del 1.02.2021.
[9] Tribunale di Ferrara, sentenza del 25.11.2020 e sentenza del 16.11.2020.
[10] Tribunale di Genova, sentenza del 4.11.2020.
[11] Corte d’Appello di Napoli, sez. IV, sentenza del 19.10.2020.
[12] Tribunale di Vicenza, sentenza del 26.06.2020.
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