La coltivazione domestica di Cannabis ad uso personale non è reato
La condotta di coltivazione domestica di modica sostanza stupefacente per uso personale non costituisce più una fattispecie di reato. Lo affermano le Sezioni Unite della Cassazione Penale nella sentenza n. 12348/2020, depositata in data 16 aprile 2020: non è punibile la coltivazione domestica di minime dimensioni destinata in via esclusiva ad uso personale.
Sommario: 1. Premessa – 2. Orientamenti precedenti – 3. Sentenza n. 12348/2020 – 4. Brevi conclusioni
1. Premessa
In data 10 ottobre 2019 le Sezioni Unite sono state investite della questione a seguito di ricorso in Cassazione per annullamento, proposto dall’imputato avverso la sentenza del 28/02/2018 della Corte D’Appello di Napoli, con la quale era stato dichiarato colpevole del reato di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309/1990, per avere coltivato alcune piante di Marijuana per farne commercio.
La questione di diritto, rimessa alle Sezioni Unite, era la seguente: «se, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, è sufficiente che la pianta, conforme al tipo botanico previsto, sia idonea, per grado di maturazione, a produrre sostanza per il consumo, non rilevando la qualità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ovvero se è necessario verificare anche che l’attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato».
In altri termini la questione posta era la seguente: se al fine di configurare come reato la coltivazione di piante stupefacenti, risulta sufficiente accertare che la pianta (conforme al tipo botanico vietato dalla legge) sia idonea a produrre sostanza stupefacente adatta a consumo, per il grado di maturazione raggiunto dalla pianta stessa, e senza che sia necessario valutare la quantità effettiva di principio drogante ricavabile da tale pianta; ovvero, d’altra parte, se occorra verificare in concreto se la pianta (conforme al tipo botanico vietato) sia idonea a favorire la circolazione della sostanza stupefacente all’interno del mercato, per la quantità di principio attivo ricavabile da essa, e di conseguenza a ledere il bene giuridico protetto dalla legge, ossia la salute pubblica.
2. Orientamenti precedenti
La recente pronuncia delle Sezioni Unite, depositata lo scorso 16 aprile, segna una vera e propria svolta in tema di coltivazione non autorizzata di piante stupefacenti. A partire, infatti, dal quesito posto, la Corte di Cassazione, ha modificato radicalmente il proprio orientamento in merito alla coltivazione di Cannabis ad uso personale. L’orientamento restrittivo sinora sostenuto dalla Consulta si orientava nel senso di ritenere la coltivazione di piante stupefacenti fattispecie di reato, anche se realizzata per uso personale, indipendentemente dal numero di piantine e dal quantitativo di sostanza ottenibile.
La stessa visione restrittiva è stata sostenuta, negli anni, dalla Corte Costituzionale, più volte chiamata a pronunciarsi in merito a questioni di legittimità costituzionale riguardanti il Testo Unico in materia di stupefacenti (d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309). Una delle principali e più recenti pronunce della Consulta, cui fra l’altro le Sezioni Unite fanno riferimento nella sentenza in esame, è la n. 109/2016 con cui i giudici di legittimità erano stati chiamati ad esprimere un giudizio di legittimità costituzionale sull’art. 75 del Testo unico in materia di stupefacenti, giudizio promosso dalla Corte d’appello di Brescia. La disposizione dell’articolo considera come meri illeciti amministrativi le condotte di “chiunque, per farne uso personale, illecitamente importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope”, qualora sia accertata la destinazione ad uso esclusivamente personale della sostanza stupefacente o psicotropa o del medicinale.
Difatti occorre ricordare che (a seguito della abrogazione della legge Fini-Giovanardi, con conseguente ritorno in vigore della legge Iervolino-Vassalli, che modificava pesantemente il Testo Unico 309 del 1990) detenere piccole quantità di Marijuana non costituisce più reato ma soltanto un illecito amministrativo ex art. 75 d.P.R. 309/90. Al di fuori del caso di uso esclusivamente personale trova applicazione l’art. 73 del medesimo decreto, che punisce “Chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I”.
La Corte di Appello di Brescia rilevava, pertanto, una possibile contraddizione giuridica con riferimento al reato di coltivazione e sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 nella parte in cui non include tra le condotte punibili con sole sanzioni amministrative, anche la coltivazione di piante di cannabis ove finalizzata in via esclusiva ad uso personale della sostanza stupefacente.
Sul punto la Corte Costituzionale era stata chiara nell’affermare che non sussiste alcuna disparità di trattamento tra le condotte. Il principio affermato nella decisione della Consulta è il seguente: “la coltivazione di piante di stupefacenti è sempre reato, anche se destinata ad uso personale, a prescindere dal numero di piantine e dal principio attivo ritrovato dalle autorità”. Riassumendo, nella sentenza del 2016 veniva stabilito che la condotta di coltivazione è concretamente idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto che coltivandole si aumenta la quantità di droga in circolazione e, quindi, si può contribuire al fenomeno dello spaccio. Secondo la Corte la risposta sanzionatoria meno rigorosa prevista per la detenzione, l’acquisto e l’importazione di stupefacente per uso personale è ragionevole sia in quanto tali condotte rappresentano il diretto antecedente del consumo di un solo soggetto, andando così ad incidere solo sulla sua salute, sia perchè tali ipotesi consentono di conoscere con certezza il quantitativo di sostanza detenuta e, quindi, di effettuare una valutazione prognostica circa la sua destinazione. Dall’altro lato la risposta sanzionatoria più rigida della condotta di coltivazione, anche laddove la stessa avvenga con la finalità di far uso personale della sostanza ricavata, trova giustificazione proprio in quanto tale fattispecie risulta priva dei requisiti sopra menzionati, e determina una maggiore pericolosità perché condotta destinata ad accrescere in modo indiscriminato i quantitativi di droga presenti sul mercato.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, pertanto, anche alla luce dell’orientamento della Consulta, avevano finora confermato le condanne per la coltivazione di piante da cui ricavare sostanza stupefacente anche in caso di presenza poche piantine e comunque a prescindere dallo stato in cui si trovasse la pianta al momento del controllo e dal quantitativo di sostanza stupefacente ricavabile. Si possono ricordare le del 24 aprile 2008 n. 28605 Di Salvia e n. 28606, Valletta, con le quali la Corte di Cassazione, richiamandosi alla giurisprudenza costituzionale, affermava che la condotta penalmente rilevante è astrattamente integrabile da qualsiasi attività di coltivazione non autorizzata di sostanza stupefacente, non scriminando in alcun modo la finalità di impiego del prodotto.
3. Sentenza n. 12348/2020
In data 16 aprile 2020 le Sezioni Unite della Cassazione Penale hanno depositato la sentenza n. 12348 /2020 (Presidente Carcano, Relatore Andronio), affermando il seguente principio di diritto: “il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.
Le Sezioni Unite giungono all’elaborazione di un orientamento che stupisce per l’innovatività. Difatti, a parere dei giudici supremi il bene giuridico della salute pubblica, che il d.P.R. 309 del 1990 mira a tutelare, non viene pregiudicato o messo in pericolo da chi coltiva esclusivamente per sé qualche piantina, senza immetterla sul mercato alimentandone la circolazione. Come si evince dalle motivazioni della sentenza, si tratta di una questione che coinvolge l’offensività in concreto di tali condotte, per le quali assumono rilevanza: le modalità di coltivazione; il numero di piantine; il quantitativo di prodotto ricavabile; gli ulteriori indici di un inserimento nel mercato degli stupefacenti.
La condotta di coltivazione di piante destinate alla produzione di sostanze stupefacenti deve recare in sé, ai fini dell’integrazione del reato, un nucleo minimo di offensività. Così come affermato dalle stesse Sezioni Unite del 2008 con la già citata sentenza n. 28605, spetterà al giudice verificare in concreto l’offensività della singola condotta di coltivazione non autorizzata. Qualora all’esame essa risulti assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto e in concreto inoffensiva, la punibilità è esclusa. Dunque l’offensività in concreto opera come criterio interpretativo-applicativo per il giudice ordinario, il quale è tenuto a verificare la riconducibilità della fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, evitando così di reprimere comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva.
La pronuncia segna, quindi, una svolta di particolare importanza per quanto attiene al contrasto, emerso da tempo nella giurisprudenza di legittimità, circa il concetto di offensività in concreto della condotta. Due erano i prevalenti orientamenti in materia. Secondo il primo indirizzo non era sufficiente la coltivazione di una pianta (conforme al tipo botanico previsto dalla legge come vietato) che, per maturazione, avesse raggiunto la soglia minima di capacità drogante, ma occorreva anche verificare la concreta idoneità di tale attività a ledere la salute pubblica e a favorire la circolazione della droga alimentadone il mercato, perché potesse configurarsi fattispecie di reato. Il secondo orientamento richiedeva, ai fini della punibilità della condotta, la sola conformità della pianta coltivata al tipo botanico vietato e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente. Secondo questa linea interpretativa la capacità offensiva della condotta di coltivazione consisteva nella sua idoneità a produrre le sostanze per il consumo, non rilevando la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza.
Il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite chiarisce come per la configurabilità del reato di coltivazione di stupefacenti sia irrilevante la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente.
La Corte prosegue stabilendo che devono però ritenersi escluse dall’ambito di applicazione della norma penale le coltivazioni svolte in forma domestica che appaiono destinate in via esclusiva ad uso personale del coltivatore, ossia quelle coltivazioni di minime dimensioni (scarso numero di piante) per le quali vengano accertate rudimentali tecniche (si può pensare, ad esempio, a metodi non professionali di irrigazione, o fertilizzanti fatti in casa), modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, e mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti (tali indici posso essere, ad esempio la presenza di materiale vario utilizzato per il confezionamento o di un bilancino di precisione). L’unico utilizzatore può essere colui che si dedica materialmente alla cura delle piante, non può esserci consumo di gruppo. Al fine di escludere la punibilità potranno, pertanto, rilevare: l’inadeguata modalità di coltivazione da cui possa desumersi che la pianta non sarà mai in grado di giungere a maturazione ed un eventuale risultato finale della coltivazione che abbia un contenuto di principio attivo troppo povero per essere oggetto di spaccio.
In questi casi, in presenza dei requisiti sopra menzionati, la coltivazione c.d. domestica non integrerà la fattispecie di coltivazione di cui all’art. 73 D.P.R. 309/90; tale attività non integrerà nemmeno l’art. 75 D.P.R. 309/90, poiché il dettato normativo di tale disposizione non si riferisce in alcun modo alla coltivazione, nemmeno a quella rilevante penalmente. Tuttavia la condotta, secondo la Consulta, continua ad avere una valenza di violazione amministrativa nel caso in cui “la coltivazione domestica a fini di autoconsumo produca effettivamente una sostanza stupefacente dotata di efficacia drogante“. In questo caso le sanzioni amministrative, previste dall’articolo 75 del d.P.R. 309/1990, non si applicheranno all’individuo come coltivatore, ossia persona che contribuisce allo spaccio, ma solo “come detentore di sostanza stupefacente destinata a uso personale”.
4. Brevi conclusioni
In conclusione a fare la differenza, secondo il nuovo orientamento della Corte di Cassazione, è proprio la modesta quantità di prodotto ricavata dalla coltivazione domestica. A parere dei giudici è dunque rilevante, ai fini della sussistenza del reato, la distinzione fra coltivazione tecnico-agraria (caratterizzata da strumentazione normalmente utilizzata per la coltivazione rapida e su larga scala) e coltivazione domestica poiché in quest’ultimo caso il prodotto ottenuto non può che coprire un consumo di tipo personale, è impossibile che venga impiegato per lo spaccio.
Solamente in relazione alla coltivazione tecnico-agraria può trovare applicazione l’art. 73 T.U. n. 309/90. Per quanto riguarda, invece, la coltivazione domestica viene operata una sorta di equiparazione alla detenzione; ed è rilevante la linea di confine tra detenzione ad uso personale e detenzione ai fini di spaccio che costituisce lo spartiacque tra lecito ed illecito, tra condotta non punibile e condotta punibile. Secondo la Corte, qualora la coltivazione domestica a fini di autoconsumo produca effettivamente una sostanza stupefacente dotata di efficacia drogante, essa configurerà un illecito amministrativo e troveranno applicazione le sanzioni amministrative, previste dall’art. 75 del d.P.R. n. 309/1990, per le ipotesi di detenzione ad uso personale (diversamente dalla detenzione a fini di spaccio e traffico di stupefacenti di cui all’art. 73 del medesimo decreto che hanno, invece, rilevanza penale). Le sanzioni amministrative possono consistere, ad esempio, nella sospensione dell’uso della patente, del porto d’armi, del passaporto o del permesso di soggiorno per un periodo che ha una durata variabile.
In ultima analisi, le conclusioni a cui sono giunte le Sezioni Unite con la pronuncia n. 12348/2020 si pongono finalmente in armonia con il diritto europeo. In particolare ricordiamo la decisione quadro del consiglio n. 2004/757/GAI, che esclude espressamente dal novero dei reati in materia di traffico di stupefacenti (che gli Stati membri devono prevedere) le condotte “tenute dai loro autori soltanto ai fini del consumo personale, quale definito dalle rispettive legislazioni nazionali”, facendovi rientrare la condotta di coltivazione.
Cass. Pen, Sezioni Unite 16 aprile 2020 n. 12348
C. Cost 9 marzo 2016 n. 109
Cass. Pen. Sezioni Unite 24 aprile 2008 n. 28605 e n. 28606
D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, “Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”
GAROFOLI, Manuale di diritto penale parte generale e speciale, cit., 155 , 745
Decisione quadro n. 2004/757/GAI, “Norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti”
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Claudia Ruffilli
Claudia Ruffilli, nata a Bologna il 21 aprile 1992. Ho conseguito il diploma di maturità classica presso il Liceo Classico Marco Minghetti di Bologna. Nel 2017 ho conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Bologna. Ho svolto la pratica forense presso uno Studio Legale ed un tirocinio formativo presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Nel 2019 ho conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione forense presso la Corte di Appello a Bologna, dove lavoro.
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