La commisurazione della pena: criteri normativi
Generalmente la pena viene indicata nella norma penale tra un minimo ed un massimo, spettando al giudice il compito di determinazione della pena in concreto applicabile. Tale discrezionalità non è, tuttavia, illimitata dovendosi attenere ai parametri disposti dall’art. 133 c.p.: gravità del reato e capacità a delinquere del soggetto attivo. Quest’ultima può essere definita quale inclinazione o disposizione dell’individuo a commettere reati. Delinearla giova alla funzione retributiva in quanto calibra la pena alla reale attitudine del reo sia alla funzione preventiva, delineando le future possibilità circa la commissione di nuovi reati. L’art. 133, comma 2 c.p. elenca i criteri dai quali desumere la capacità a delinquere del colpevole. Nello specifico, devono essere analizzati i motivi della condotta (movente), il carattere del reo, la vita anteatta ed eventuali precedenti, il comportamento contemporaneo e successivo alla commissione del reato ed, infine, l’ambiente di vita nel quale è immerso.
Diversa dalla capacità a delinquere è, invece, la pericolosità sociale. Una persona non imputabile o non punibile potrebbe comunque essere giudicata socialmente pericolosa quando è probabile che commetta nuovi reati. L’art. 203 c.p. sottolinea che gli stessi criteri di cui all’art. 133 c.p. che vengono utilizzati ai fini della commisurazione della pena, vengono, oltretutto usati per la deduzione della pericolosità sociale. Il rapporto tra questa e la capacità a delinquere viene discusso da tempo dalla dottrina: molti sostengono che la capacità a delinquere debba individuarsi in relazione al futuro e valutano la pericolosità sociale quale forma intensa di questa capacità; altri affermano che l’indagine sulla capacità a delinquere debba rivolgersi al passato e distinguono nettamente le due figure, in quanto solo la pericolosità sociale si rivolge al futuro; infine, Mantovani ritiene che la capacità a delinquere consti di un giudizio relativo al passato e di uno relativo al futuro, e proprio riguardo a questo segmento ha dei punti di incontro con la pericolosità sociale. La pericolosità sociale rileva in ambito di applicazione delle misure di sicurezza, influisce su qualità e quantità della pena ed è un elemento decisivo ai fini della concessione della liberazione condizionale, l’affidamento in prova o la semilibertà. Vi sono forme specifiche di pericolosità sociale: la recidiva, l’abitualità criminosa, la professionalità nel reato e la tendenza a delinquere.
Per quanto concerne la recidiva, essa riguarda chi, dopo aver ricevuto una condanna passata in giudicato per un delitto non colposo, ne commette un altro. Questa prima forma si chiama recidiva semplice, ne consegue un aumento di pena di un terzo. La recidiva aggravata ricomprende la nuova commissione di un delitto non colposo della stessa indole o una recidiva infraquinquennale. Se il reo commette il nuovo delitto non colposo durante o dopo l’esecuzione della pena si parla di recidiva vera, se lo commette durante il periodo in cui si sottraeva volontariamente alla pena, si parla di recidiva finta. La pena in caso di recidiva aggravata può essere sino della metà. Qualora ricorrano più circostanze saremo in presenza di una recidiva pluriaggravata, la quale comporta un aumento di pena della metà. Quando un soggetto già dichiarato recidivo commette nuovamente un delitto non colposo siamo in presenza di una recidiva reiterata. Se il reo era un recidivo semplice l’aumento di pena è della metà, se era un recidivo aggravato dei due terzi.
L’abitualità criminosa viene definita la condizione personale di chi, con la sua persistente attività criminosa, dimostra di avere una notevole attitudine alla commissione di reati. L’art. 102 c.p. descrive le ipotesi dell’abitualità presunta che si avrà quando il reo viene complessivamente condannato alla reclusione in misura superiore a 5 anni per tre delitti non colposi, della stessa indole commessi entro 10 anni in maniera non contestuale; riporta una nuova condanna per delitti non colposo della stessa indole commesso nei 10 anni seguenti. L’art. 103 c.p., invece, esamina il caso dell’abitualità ritenuta dal giudice: quando un soggetto, dopo la commissione di due delitti non colposi ne commette un terzo e il giudice ritiene, sulla base dei criteri di cui all’art. 133 c.p., che sia un soggetto dedito al delitto. L’art. 104 c.p., infine, guarda l’abitualità dal lato delle contravvenzioni. Nello specifico, si afferma che colui che ha commesso due contravvenzioni della stessa indole per cui ha ricevuto una condanna all’arresto, ne commette successivamente un’altra e il giudice ritenga, sulla base dell’art. 133 c.p., che sia dedito al reato, viene dichiarato ex judice contravventore abituale.
La professionalità nel reato di cui all’art. 105 c.p. richiede che il reo si trovi nelle condizioni per la dichiarazione di abitualità ma per natura dei reati e in base alla sua condotta di vita si ha motivo di credere che egli viva dei proventi dei propri reati. Tale valutazione è rimessa al giudice che dovrà caso per caso esaminare gli elementi sopra esposti.
Da ultimo, la tendenza a delinquere è una condizione endogena del soggetto ma non è ritenuta una vera e propria invalidità. L’art. 108 c.p. afferma che colui che, anche fuori dai casi della recidiva, dell’abitualità e della professionalità nel reato, commetta un delitto doloso o preterintenzionale contro la vita o l’incolumità fisica, il quale unitamente alle circostanze di cui all’art. 133 c.p. lasci credere che il reo abbia una tendenza a delinquere. Tale tendenza può essere dichiarata solo con sentenza di condanna.
Circa la commisurazione della pena pecuniaria, invece, è d’uopo tenere in considerazione le condizioni economiche del condannato. La Riforma Cartabia sottolinea come la determinazione della pena pecuniaria debba modellarsi sulle attuali condizioni economiche del reo perché sia ritenuta una pena giusta. È importante dare rilievo all’art. 133bis c.p. il quale afferma la necessità di considerare non solo le condizioni reddituali ed economiche, ma più in generale quelle patrimoniali. Sempre in base a questo articolo il giudice può acconsentire al pagamento rateale della pena pecuniaria da un minimo di 6 ad un massimo di 60 rate ciascuna non inferiore ad euro 15. Interveniva sul punto il D.lgs.150/2022 prevedendo la possibilità di raddoppiare il numero minimo di rate.
Gli artt. Dal 134 al 139 c.p. riguardano il computo e il ragguaglio delle pene. Ad esempio, nel computo delle pene non si calcolano le frazioni di giorno o le frazioni di euro per quelle pecuniarie. Nel caso in cui vada operato un ragguaglio tra pena detentiva e pecuniaria si calcolano 250 euro o frazione per ogni giorno di pena detentiva. Le pende detentive si calcolano in giorni, mesi e anni.
La realizzazione della finalità punitiva della pena si ha con l’esecuzione della medesima. La maggior parte delle disposizioni codicistiche sono oggi abrogate, essendo la materia ormai coordinata con la disciplina dell’ordinamento penitenziario. I principi cardine sono, tuttavia, la tutela della dignità della persona umana e della sua personalità (principio di qualificazione del trattamento); la possibilità di svolgere un lavoro in carcere con tutele assicurative e previdenziali; la possibilità di essere affiancati da educatori e assistenti sociali; gli istituti delle misure alternative alla detenzione che in un’ottica deflattiva e rieducativa assumono una sempre maggiore importanza. Infine, fondamentale la giurisdizionalizzazione dell’esecuzione penale affidandolo ai magistrati e ai tribunali di sorveglianza le cui determinazioni sfociano nei relativi provvedimenti.
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Silvia Mallamaci
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