La compensazione dei crediti: le Sezioni Unite sull’opponibilità in compensazione del credito contestato

La compensazione dei crediti: le Sezioni Unite sull’opponibilità in compensazione del credito contestato

Sommario1. Premessa  – 2. La sentenza delle SS.UU., Corte di Cassazione, 18 dicembre 2007, n. 26617  – 3. Definizione di compensazione  – 4. Profili storici e inquadramento sistematico   – 5. La compensazione propria e quella impropria –  5.1. La compensazione legale  – 5.2. La compensazione giudiziale  – 5.3. La compensazione volontaria  – 5.4. Segue: La compensazione impropria all’esame delle SS. UU. della C. di Cassazione civile (sentenza 15/11/2016 n° 23225) e l’opponibilità del credito contestato  – 6. Conclusioni

1. Premessa

La compensazione è un modo di estinzione dell’obbligazione diverso dall’adempimento. L’ordinamento infatti ammette, in alcune ipotesi legali, la possibilità di derogare alla regola posta dall’art. 1197 c.c. che impone, nelle obbligazioni pecuniarie, che il soddisfacimento del credito avvenga mediante il pagamento della somma dedotta nell’obbligazione. La regola generale, del resto, stabilisce che, “salvo che il creditore consenta”, non sono consentiti modi alternativi di estinzione del debito con effetto satisfattorio, cioè con il duplice effetto del soddisfacimento della pretesa obbligatoria da parte del creditore, e la realizzazione dell’interesse del debitore a essere liberato dalla propria obbligazione. Dunque, l’esecuzione di una prestazione diversa da quella dovuta, benché di valore uguale o addirittura maggiore, non libera il debitore.

Eppure, la monolitica ricostruzione appena fornita sembra cedere ai colpi inferti dall’evoluzione del diritto, soprattutto sotto la spinta dell’intervento giurisprudenziale; tant’è che alcune importantissime pronunce del massimo organo giurisdizionale si sono spinte fino al punto di individuare, oltre le ipotesi legali, alcune fattispecie che contravvengono al principio posto dall’art. 1197 c.c.; o, meglio, a mutare pare essere la stessa nozione di “moneta avente corso legale”, secondo l’interpretazione che tradizionalmente si è data dell’art. 1277 c.c..

2. La sentenza delle S.U. Cassazione 18 dicembre 2007, n. 26617

Del resto, il nuovo orientamento di matrice giurisprudenziale appare fondato su ragioni tutt’altro che irrilevanti. In primo luogo una motivazione di carattere socio-economico: il codice civile si muove di fatti, in una visuale sistematica e teleologica, nel segno della promozione e della facilitazione degli scambi commerciali e della ricchezza in generale. Pertanto, la materia delle obbligazioni, quale ambito privilegiato nel quale si manifesta la tipica forma di regolamentazione dei rapporti patrimoniali, ossia il contratto, è stata oggetto di un processo evolutivo che ha ampliato, via via sempre più, le maglie delle modalità estintive dell’obbligazione diverse dall’adempimento mediante il pagamento di una somma di danaro.

In secondo luogo, è emersa l’esigenza di rimodulare i rapporti tra creditore e debitore, dando pieno riconoscimento non solo all’interesse del creditore a essere soddisfatto, ma anche a quello del debitore di liberarsi dal debito derivante dall’obbligazione pecuniaria assunta. D’altronde, considerando l’evoluzione dei rapporti commerciali, si registra la tendenza a una “smaterializzazione” della moneta. Invero, non solo si ammette la possibilità che il pagamento avvenga ricorrendo a strumenti alternativi al denaro e, oggi, di ampia diffusione, quali: le carte di credito, il vaglia postale, i bonifici bancari, i titoli di credito e gli assegni, siano essi bancari o circolari; ma si registra nondimeno un’apertura del sistema legislativo anche a forme “immateriali” di investimento mobiliare, alla stregua di quanto prevede il d.lgs. 23 luglio 1996, n. 415, c.d. Decreto Eurosim, in sostituzione della definizione tradizionale di valore mobiliare, non più adeguata all’evolversi dei nuovi servizi di investimento.

Ebbene, al di là di tale specifico profilo, si può osservare come, in generale, gli strumenti alternativi al denaro abbiano, in alcuni casi, addirittura sostituito il denaro; lo stesso legislatore con la legge c.d. «antiriciclaggio», d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, ha peraltro vietato il trasferimento di denaro contante di importo superiore ai 5.000,00 euro.

È, pertanto, in questa prospettiva che può leggersi l’evoluzione ermeneutica avvallata dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la pronuncia del 2007 (sentenza 18 dicembre 2007, n. 26617). La Corte, infatti, è intervenuta sulla questione della c.d. datio in solutum, affermando che “nelle obbligazioni pecuniarie per le quali non sia imposta per legge una diversa modalità di pagamento, il debitore ha facoltà di pagare, a sua scelta, in moneta avente corso legale nello Stato o mediante consegna di assegno circolare”, potendo, il creditore, rifiutare il pagamento “solo per giustificato motivo, da valutare secondo la regola della correttezza e della buona fede oggettiva”. Di tal che, l’effetto liberatorio si verificherà solo quando il creditore acquisterà, concretamente, la disponibilità giuridica della somma di denaro, ricadendo sul debitore il rischio dell’inconvertibilità dell’assegno.

Dunque, dall’esame di queste brevi premesse, appare chiaro come il tema riguardante le vicende di estinzione dell’obbligazione sia di particolare attualità. E in tale dibattito si colloca anche l’istituto giuridico della compensazione, con esiti ermeneutici e applicativi che occorre qui approfondire.

3. Definizione di compensazione

Con riguardo a tale ultima figura occorre, in primo luogo, precisarne l’esatto valore semantico e delimitarne nondimeno i confini, nel quadro delle coordinate ermeneutiche del nostro sistema giuridico. Per compensazione, infatti, si intende uno strumento civilistico legislativamente disciplinato nella Sezione terza del Capo IV del Libro IV del codice civile, rubricato “Dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dell’adempimento”. Secondo la disciplina ivi contenuta,  quando due persone risultino legate l’una verso l’altra da due distinte obbligazioni, “i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti”. In tal modo la coesistenza, nei rispettivi patrimoni, delle due partite di dare e avere elide le reciproche pretese, con estinzione dei rapporti di debito/credito fino a concorrenza della corrispondente quota.

Al riguardo, tuttavia, occorre precisare che si riconoscono diverse “species” del “genus” compensazione: esse vengono in rilievo a seconda di come si atteggi il credito, e cioè in considerazione delle caratteristiche quantitative, ontologiche e probatorie del credito stesso. Queste ipotesi speciali, rispetto alla figura legale tipica di compensazione (che, come si esaminerà in seguito, pare coincidere con la nozione di compensazione “propria”), si caratterizzano, a loro volta, per distinti regimi giuridici, con esiti differenti, in particolare, rispetto all’opponibilità del credito.

Prima, però, di esaminare tali specifici aspetti, occorre fornire alcune considerazioni di carattere preliminare, così da inquadrare l’argomento in esame nella giusta prospettiva di sistema.

4. Profili storici e inquadramento sistematico

Si consideri, in primo luogo, l’ambito oggettivo nel quale si staglia la compensazione, ossia l’obbligazione. L’ordinamento civilistico ha compiuto nel tempo un significativo processo evolutivo; si è privilegiata cioè la concezione sostanzialista dell’obbligazione, a scapito di quella personalistica. Non a caso la “obligatio” del diritto romano generava in caso d’inadempimento una costrizione della libertà personale del debitore, tale da avvincere il medesimo, come nel tipico caso della “legis actio per manus iniectionem”, a una vera e propria condizione di schiavitù. Così il creditore poteva disporre del debitore come voleva: poteva finanche ucciderlo, se non fosse riuscito a venderlo.

Eppure quest’impostazione arcaica non ha cessato di spiegare i suoi effetti in tempi più recenti, tant’è che nello stesso Code Napoleon e nel codice italiano previgente si stabiliva che, in caso di modifica soggettiva attiva o passiva dell’obbligazione, si avesse una novazione, cioè l’estinzione e la contestuale creazione di una nuova obbligazione, con due conseguenze: la necessità di richiedere l’accettazione della modifica soggettiva a controparte, e la perdita della garanzia precedentemente resa.

Nell’attuale assetto della disciplina civilistica, invece, ogni residuo retaggio della dimensione soggettiva del debito è venuta meno: l’obbligazione si inserisce nel dinamico contesto della circolazione dei beni configurandosi come partita attiva o passiva di un dato patrimonio; sicché essa va considerata come tale, sia nei rapporti con la controparte, sia sotto il profilo ontologico e strutturale. Non a caso, salvo che le modifiche intervengano dal lato passivo del rapporto, non si richiede l’accettazione della modifica soggettiva, e nondimeno permane la garanzia del credito.

5. La compensazione propria e quella impropria (o atecnica)

Il rilievo che assume il profilo oggettivo e sostanziale dell’obbligazione, quale componente patrimoniale più che vincolo di tipo personale, è evidente anche nella disciplina della compensazione. Così, la distinzione tra compensazione “propria” e compensazione “impropria” (o “atecnica”) attiene proprio al piano strutturale del vincolo giuridico.

Talché si distinguono due casi:

  1. Compensazione propria: le due obbligazioni accedono a due distinti e autonomi rapporti, non legati da un vincolo di sinallagmaticità, benché eventualmente collegati.

  2. Compensazione impropria: i rapporti di debito/credito sono dedotti nel medesimo rapporto, che, come accade spesso nella casistica giurisprudenziale, è sottoposto ad accertamento giudiziale.

Ebbene nella disciplina codicistica si considera solo l’ipotesi sub 1, ovverosia solo la compensazione propria. Invero, il legislatore si preoccupa di disciplinare negli artt. 1241 e ss. del c.c. solo la prima ipotesi (definita appunto compensazione propria), siccome riferita a due distinti e autonomi rapporti tra gli stessi soggetti. Nel silenzio della disciplina positiva, pertanto, si è posta la questione di valutare il caso differente, nel quale, invece, le reciproche posizioni di dare e avere sono dedotte in unico rapporto. Eppure, a un primo esame, in entrambi i casi pare ravvisarsi un medesimo schema: il creditore chiede il pagamento al proprio debitore; questi è creditore nei confronti del primo di un controcredito; dunque, quest’ultimo può far valere la propria pretesa obbligatoria e così opporre la compensazione, anziché adempiere la prestazione dedotta nella prima obbligazione.

Da tale rilievo, anche di tipo empirico, emerge pertanto la necessità di soppesare le due ipotesi, e in particolare verificare se che la compensazione possa essere riconosciuta solo ove vi sia diversità di rapporti, o, piuttosto, anche se si versi in una fattispecie posta al di fuori della disciplina codicistica, ritenere che, anche nel caso in cui le due posizioni di debito/credito accedano a un medesimo rapporto, non può che aversi ugualmente un accertamento contestuale di dare e avere fra le parti. E questa, invero, pare la soluzione accolta dalla stessa giurisprudenza.

Eppure, l’esistenza di una speciale disciplina di legge – come si accennava – pare nondimeno avvalorare la tesi di un statuto giuridico che distingue fra le due ipotesi, non fosse altro perché la legge individua una serie di limiti sia di carattere sostanziale (ad esempio relativi alla prescrizione), sia di carattere processuale (come quelli riguardanti la rilevabilità o meno d’ufficio della compensazione) che paiono doversi applicare solo alla compensazione “propria”, siccome costituiscono deviazioni, di carattere eccezionale, alle regole generali.

Alla luce di tali considerazioni, appare pertanto opportuno esaminare la ratio legis e la disciplina regolamentare riferiti alla compensazione propria, sì da procedere, poi, a un confronto con lo statuto giuridico della compensazione impropria, secondo gli approdi della giurisprudenza più accreditata.

Nel primo caso, cioè nella compensazione propria, è evidente che il meccanismo risponde a una logica di economia degli atti giuridici: si consente di evitare due adempimenti reciproci e “incrociati”, così facendo conseguire alla parti un risultato economico direttamente realizzabile mediante il venir meno delle reciproche pretese, almeno fino alla reciproca concorrenza.

L’istituto si collega nondimeno a un criterio di garanzia della realizzazione del credito: si evita cioè al creditore il pericolo dell’insolvenza del proprio debitore. Infatti, nel caso in cui non operasse un meccanismo compensativo, il debitore/creditore non potrebbe rifiutarsi di pagare il proprio debito qualora eventualmente sottoposto ad azione di accertamento o di condanna, anche in presenza di un inadempimento di controparte, e cioè nonostante l’esistenza di un controcredito.

Perché possa invocarsi peraltro una siffatta tutela giuridica, la legge richiede espressamente che: i due debiti devono avere per oggetto una somma di danaro o una quantità di cose fungibili dello stesso genere; essi devono essere egualmente liquidi; infine, devono essere esigibili.

L’art. 1243 c.c. pone dunque parametri strutturali e ontologici del credito, necessari perché possa valere il meccanismo compensativo. Ma v’è di più: la disciplina ammette delle eccezioni, e così se il debito opposto in compensazione non è liquido ma è “di facile e pronta liquidazione”, il giudice può dichiarare la compensazione per la parte del debito che riconosce esistente, e può anche sospendere la condanna per il credito liquido fino all’accertamento del credito opposto in compensazione.

Da quanto esposto deriva la necessità di precisare taluni concetti, così come indicati dalla legge.

In primo luogo, si deve stabilire il concetto di liquidità del credito/debito. Infatti, non v’è dubbio che la compensazione non possa che riferirsi alle obbligazioni pecuniarie o di valuta, sicché occorre stabilire quando un credito deve intendersi liquido. Il concetto di liquidità implica quello dell’esistenza del credito o, meglio, della certezza dell’esistenza.

Nell’ipotesi in cui il credito sia certo, la liquidità è data dalla determinazione del credito nel suo ammontare. L’esigibilità attiene invece alla non sottoposizione della pretesa creditoria a una condizione o ad altro impedimento giuridico che non consenta l’immediata efficacia del vincolo e, di conseguenza, limita l’esecuzione, anche coattiva.

5.1. La compensazione legale

Quando ricorrono questi requisiti, la compensazione opera di diritto. Si utilizza così l’espressione di compensazione legale. La giurisprudenza ha precisato che i requisiti prescritti devono intendersi in base a criteri, come si diceva, obbiettivi; cosicché ben può intendersi un credito liquido ed esigibile anche se oggetto di contenzioso. Quel che occorre, in altre parole, è la ricorrenza dei requisiti che, se oggetto di contestazione, possono essere accertati dal giudice. La conseguenza è questa: se il credito presenta strutturalmente le caratteristiche previste per la compensazione legale, la sentenza non può che riconoscerne gli effetti; essa è dunque meramente dichiarativa del fatto estintivo risalente al giorno della coesistenza dei due crediti. In tal modo si avranno le conseguenze giuridiche poste dalla stessa legge, e in particolare dall’art. 1242 c.c.. Dunque, benché l’effetto della compensazione opera di diritto, il giudice deve pronunciare una sentenza dichiarativa, e non già costitutiva e, nondimeno, non può decidere d’ufficio sulla questione, richiedendosi infatti una specifica eccezione di parte. Rilevano così le previsioni degli artt. 35 c.p.c. e 112 c.p.c., poiché riguardano il profilo della rilevabilità d’ufficio della questione giuridica e il profilo della competenza giurisdizionale del giudice adito. Occorre esaminare pertanto la relativa disciplina.

Si consideri in primis l’art. 112 c.p.c.: la compensazione rientra tra le eccezioni che possono essere proposte solo dalle parti; quindi, il soggetto che intenda avvalersene ha l’onere di eccepirla in giudizio.

Eppure, passando al secondo profilo (posto dall’art. 35 c.p.c.), il giudice “quando è opposto in compensazione un credito che è contestato ed eccede la competenza per valore del giudice adito”, se la domanda è fondata su titolo non controverso o facilmente accertabile, può decidere su di essa e rimettere le parti al giudice competente per la decisione relativa all’eccezione di compensazione. Altrimenti egli deve rimettere tutta la causa al giudice superiore cui appartiene la competenza per valore della causa, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione del giudizio davanti a lui.

5.2. La compensazione giudiziale

Pertanto, la compensazione giudiziale si configura come ipotesi speciale, senz’altro distinta da quella legale, sebbene anche in questo caso, come s’è esaminato, possa aversi l’intervento giudiziale. Più precisamente, la differenza non è data dal fatto che la questione sia o meno sub judice; rilevano piuttosto la complessiva vicenda dedotta in giudizio e le caratteristiche ontologiche del credito opposto in compensazione.

Infatti, come stabilito dal secondo comma dell’art. 1243 c.c., il giudice può dichiarare la compensazione anche se il debito non è liquido purché “di facile e pronta liquidazione”, naturalmente per la parte del debito che riconosce esistente. Dunque, in qualche modo, il requisito della liquidità si scontra con quello della certezza: il giudice può pertanto stabilire il quantum di un debito solo ove esso sia certo nell’an. È un procedimento logico evidente; ed è per questo stesso motivo che l’art. 34 c.p.c. utilizza l’espressione “questione pregiudiziale”. Non v’è dubbio infatti che seppure il giudice possa stabilire, come ha precisato la giurisprudenza, l’entità del debito mediante un semplice processo aritmetico, occorre in ogni caso che il credito sia certo, prima ancora che determinato. E, invero, un credito fondato su un titolo non ancora definitivo, come è il caso di una sentenza non ancora passata in giudicato o, ancor più, di un credito sottoposto ad accertamento giudiziale, non può consentire l’effetto posto dal secondo comma dell’art. 1243 c.c., ovvero la dichiarazione della compensazione per la parte del debito riconosciuto esistente, o la sospensione della condanna per il credito pure determinato nel quantum.

Peraltro, nonostante l’espressione utilizzata dal legislatore, per cui il giudice nell’ipotesi esaminata “può dichiarare la compensazione”, si ritiene che la sentenza che viene pronunciata ex art. 1243 c.c., secondo comma, abbia natura costitutiva e operi ex nunc: con ciò distinguendo tale ipotesi con quella della compensazione legale. Muta in altri termini il regime della prescrizione: nella compensazione legale la sentenza è dichiarativa e opera ex tunc; e pertanto la prescrizione non impedisce la compensazione se non si era compiuta quando si è verificata la coesistenza dei due debiti. In altri termini, nella compensazione giudiziale, il momento rilevante ai fini della configurabilità della prescrizione non è quello della coesistenza dei debiti, ma quello del momento della pronuncia, limitandosi questa a produrre effetti ex nunc. Pertanto, se prima dell’intervento del giudice, la prescrizione si è compiuta, il giudice non può che rilevarla, sempre che sia stata opportunamente eccepita.

Riassumendo, la compensazione giudiziale presuppone l’accertamento del controcredito da parte del giudice dinanzi al quale la medesima compensazione è fatta valere. Inoltre, essa non può fondarsi su un credito la cui esistenza dipenda dall’esito di un separato giudizio ancora in corso, ovvero prima che il relativo accertamento sia divenuto definitivo. In tale ultima ipotesi, resta esclusa la possibilità di disporre la sospensione della decisione sul credito oggetto della domanda e va parimenti esclusa la sospensione contemplata in via generale dall’art. 295 c.p.c. o dall’art. 337 c.p.c., in applicazione della disciplina speciale di cui all’art. 1243 c.c., secondo comma.

5.3. La compensazione volontaria

Peraltro, si ammette tradizionalmente anche un’altra ipotesi di compensazione, quella c.d. volontaria. In questo caso, infatti, è la volontà delle parti a dar luogo all’effetto estintivo. Questa circostanza non deriva invero dal fatto della contestuale esistenza di crediti, ma dalla volontà negoziale. Essa dà luogo a un contratto di accertamento sull’esistenza delle reciproche ragioni di credito, previo riconoscimento della loro esistenza. Eppure, nonostante muti il titolo, rilevando in questo caso il contratto piuttosto che la legge, la giurisprudenza ritiene che l’effetto estintivo retroagisca al momento della coesistenza dei crediti; non opera cioè quel particolare meccanismo previsto per la compensazione giudiziale ex art. 1242 c.c., secondo comma, in quanto quest’ultima previsione conserverebbe sempre il suo carattere speciale. Inoltre, le parti di regola non intendono, in questo caso, perseguire lo scopo previsto, ad esempio, dall’art. 1965 c.c.: non si ha cioè un accordo transattivo in senso tecnico. Le parti, in tale contesto, non intendono porre fine a una lite già incominciata o prevenire una lite che può sorgere tra loro. Al contrario, esse si limitano a stabilire un accertamento negoziale avente a oggetto la contestuale esistenza delle reciproche posizioni di dare e avere. E così l’effetto è quello tradizionale della compensazione legale e, come in questa ipotesi, la giurisprudenza richiede che la compensazione possa compiersi soltanto rispetto a crediti afferenti due distinti rapporti giuridici.

La compensazione volontaria, al pari di quella legale, potrà quindi essere riconosciuta dal giudice con effetto dichiarativo e non costitutivo, su espressa eccezione di parte. Occorre così allegare e provare l’esistenza della volontà negoziale che accerta il credito, cioè il contratto, così da far luogo all’effetto compensativo. Dunque, anche qui rileva la medesima esigenza processuale, cioè quella di evitare un’inutile proliferazione dei giudizi, pur se entro i puntuali limiti previsti dal sistema stesso: sia di carattere processuale, non operando ivi un’ipotesi generale ex artt. 295 o 337 c.p.c.; sia di tipo sostanziale, applicandosi anche qui gli artt. 1241 e ss. c.c..

5.4. Segue: La compensazione impropria all’esame delle SS. UU. della C. di Cassazione civile (sentenza 15/11/2016 n° 23225) e opponibilità del credito contestato

Così tracciate le ipotesi speciali che, a vario titolo, sono riconducibili alla nozione e alla disciplina della compensazione “propria”, è possibile a questo punto esaminare la compensazione impropria (o atecnica). Sul punto, pare opportuno anticipare che la giurisprudenza ha escluso l’operatività del regime giuridico e processuale proprio della compensazione propria. E, così, dunque, l’ipotesi in cui le posizioni di dare e avere attengano ad un medesimo e unico rapporto giuridico, piuttosto che a due distinti e autonomi rapporti, configura una situazione giuridica autonoma, che non pare giustificare – come invece nella compensazione propria – esigenze di deflazione dei giudizi e di economia degli atti. Infatti, in questo caso muta la prospettiva: i crediti/debiti, proprio perché relativi a un medesimo rapporto, vanno accertati in unico conteggio, al di fuori dei limiti e dei divieti “speciali” posti dalla disciplina civilistica sopra esposta per la compensazione propria.

Infatti, come si accennava, la giurisprudenza è orientata proprio in tal senso: nega l’applicazione delle regole poste dagli artt. 1241 e ss. c.c., per il fatto che, pur versandosi in una situazione giuridica contrassegnata dalla compresenza di reciproche pretese di dare e avere, queste sono tuttavia contenute in un medesimo e unico rapporto giuridico. Del resto, è evidente, oltre che logico, che in tal caso il giudice non possa che pronunciarsi in modo, per così dire, “forte” e cioè penetrando con il suo potere istruttorio senza la necessità di un’eccezione in senso tecnico, e dunque d’ufficio, in modo tale da sindacare l’effettiva consistenza delle reciproche pretese, siccome riferite all’unico rapporto portato al suo esame.

La Cassazione ha preso in considerazione un caso emblematico, il risarcimento dei danni nell’ipotesi posta dall’art. 2054 c.c., ovvero: scontro tra veicoli per il quale si presume, fino a prova contraria, che ciascuno dei conducenti abbia concorso ugualmente a produrre il danno subito dai singoli veicoli. In tal caso, infatti, la Corte non ha ritenuto operante il meccanismo compensativo ex art. 1241 c.c. e ss.. Al contrario, essa è stabilito che debba procedersi a un mero accertamento delle rispettive posizioni di dare e avere, con l’elisione automatica dei rispettivi crediti fino alla reciproca concorrenza. Talché, in tal caso, non opera il limite della non rilevabilità d’ufficio della compensazione. L’accertamento del giudice sarà quindi consentito senza che si abbia una specifica eccezione di parte o un’eventuale domanda riconvenzionale. Non operano così neanche i limiti posti, ad esempio, dall’art. 1246 c.c. sulla compensabilità dei crediti. Invero, la Cassazione ha osservato ciò: non è necessario che i crediti da considerare ai fini della compensazione atecnica debbano essere previamente accertati in un apposito giudizio. Infatti, l’accertamento sul dare/avere va compiuto in un unico contesto giudiziario, in quanto si tratta di un’operazione funzionale alla verifica della pretesa di una parte rispetto alla posizione creditoria dell’altra. Tant’è che la giurisprudenza afferma che quando si discute di una contrapposta pretesa relativa alla sussistenza di crediti derivanti dallo stesso rapporto, non è neppure necessaria un’apposita domanda riconvenzionale o un’apposita eccezione di parte, siccome il giudice è chiamato a pronunciarsi sull’intero rapporto sottoposto al suo esame, e non già su una parte di esso. E ciò purché ricorrano due indefettibili presupposti: da una parte, la necessaria sussistenza degli elementi probatori da cui il giudice possa inferire il quantum della reciproca pretesa; e, dall’altra parte, il rispetto dei limiti del potere giurisdizionale, che deve contenersi entro il “petitum”, così come definito con la domanda giudiziale e la comparsa di risposta.

In tal caso, non si ritiene neppure operante la speciale previsione di cui all’art. 1242 c.c., secondo comma; sicché, nella compensazione atecnica, si esclude pure che, quanto alla prescrizione, si debba far riferimento al momento di coesistenza dei debiti. Invero, i debiti, in questo caso, accedono a un medesimo rapporto e, per l’effetto, essi presumibilmente non possono che essere concomitanti. Il giudice, dunque, non è chiamato a pronunciarsi su una vicenda che, solo per ragioni di deflazione processuale o di economia degli atti, è attratta entro un medesimo ambito di verifica giurisdizionale. Qui il rapporto è unico e, di conseguenza, la pronuncia del giudice non potrà che essere limitata alla verifica dell’entità delle pretese, sub specie di calcolo o conteggio delle rispettive poste di dare e avere dedotte in giudizio.

Così, per ritornare all’esempio del risarcimento dei danni derivanti da un unico evento, si riconoscono i seguenti elementi oggettivi: 1) il titolo è unico; 2) la certezza dei crediti attiene al piano della liquidazione del danno; 3) l’entità del risarcimento è pertanto verificabile dallo stesso giudice. Questi, infatti, potrà compiere una verifica contestuale delle contrapposte pretese, stabilendo, nel caso, che le rispettive posizioni si compensano, ovverosia si elidono reciprocamente per le quantità corrispondenti.

Così articolati i confini processuali delle due ipotesi, compensazione “propria” da una parte (unitamente alle altre ipotesi legali sopra esaminate), e compensazione “atecnica” dall’altra, anche gli statuti giuridici delle due figure appaiono ora sistematicamente definiti e analiticamente circoscritti, in linea con le soluzioni più recenti della giurisprudenza.

Se ne inferisce, di conseguenza, la seguente conclusione sintetica. La sussistenza di un’analogia strutturale fra le due ipotesi, siccome fondata dal riconoscimento di un medesimo schema sostanziale, non preclude l’operatività del meccanismo compensativo, tuttavia esso conduce a differenti esiti in punto di disciplina, soprattutto processuale.

In particolare, sotto tale specifico aspetto, non si applicano alla compensazione atecnica le regole speciali poste dagli artt. 1241 e ss. del c.c. e, più precisamente, non opera la previsione dell’art. 1243 c.c. secondo comma. Invero, nel caso della compensazione propria, intervengono perlopiù ragioni di deflazionamento del contenzioso o di economia degli atti che giustificano una pronuncia contestuale del giudice rispetto alle posizioni creditorie riferite a distinti rapporti giuridici. E, in questo senso, si spiega anche la speciale disciplina posta dal codice civile nell’apposita Sezione del Libro IV relativo alle obbligazioni in generale.

Al contrario, nel secondo caso, ossia nella compensazione atecnica, il rapporto è unico e unico è l’oggetto del giudizio su cui il giudice è chiamato a pronunciarsi. Infatti, questi deve sindacare il singolo rapporto con un procedimento di verifica basato su un conteggio e con poteri istruttori e decisori che non richiedono né una domanda riconvenzionale né una specifica eccezione.

È evidente che tale conclusione si raccorda anche con un fondamentale principio insito nel sistema di diritto civile. In virtù di questo, l’intervento del giudice non può spingersi fino al punto di pregiudicare l’effettivo assetto economico, riflesso del regolamento contrattuale, stabilito dalle parti. Il potere giurisdizionale è, infatti, in tal caso circoscritto all’accertamento della reale consistenza dei rapporti di debito/credito. Pertanto, solo in un secondo momento, ovvero dopo la verifica della sussistenza delle pretese creditorie, e cioè dopo aver vagliato le rispettive e contrapposte contestazioni, il giudice potrà eventualmente dichiarare la compensazione fino a concorrenza del rispettive entità, entro il limite del credito riconosciuto esistente. Questo è, invero, proprio quel che si verifica nella compensazione propria, ove la certezza del credito è questione preliminare, ovvero presupposto necessario per dichiarare l’elisione dei due distinti crediti, secondo le previsioni degli artt. 1241 c.c. e ss..

Nella compensazione atecnica, invece, il rapporto giuridico dedotto in giudizio è unico e, dunque, unico è l’oggetto del giudizio. Pertanto, la decisione sulla compensazione dei crediti presuppone, in un certo senso, solo la determinazione del quantum delle rispettive pretese, ovvero la liquidazione complessiva delle rispettive poste di credito/debito. Per questo motivo, la decisione si appunterà su tale ultimo aspetto, e cioè su quanto spetta a una parte e quanto compete all’altra, all’interno del medesimo rapporto e, nondimeno, del medesimo giudizio, fino a compensazione delle rispettive quote.

6. Conclusioni

Il quadro complessivo sin qui tracciato, infine, consente dunque di supportare, in base alle argomentazioni esposte, la premessa da cui questa analisi è partita: ossia che la giurisprudenza ha ampliato il ventaglio delle ipotesi in cui è consentito raggiungere l’effetto estintivo dell’obbligazione in un modo diverso da quello offerto dall’esecuzione della prestazione dovuta. Infatti, pur non essendo la compensazione impropria contemplata, quale ipotesi legale tipica, nel sistema del codice civile, si ritiene che da essa derivi nondimeno un effetto di estinzione “reciproca” dei due contrapposti debiti; anzi, da quanto esaminato anche in virtù degli approdi ermeneutici offerti dalla recente giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cassazione civile, SS.UU, sentenza 15/11/2016 n° 23225), qui l’effetto estintivo opera, anche processualmente, oltre i limiti previsti dalla disciplina civilistica per la compensazione propria.


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Matteo Sgritta

Dipendente Ente Locale e PA - Area Contratti, Appalti pubblici e Politiche comunitarie

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