La concessione della cittadinanza italiana non è necessariamente subordinata a fatti penalmente rilevanti

La concessione della cittadinanza italiana non è necessariamente subordinata a fatti penalmente rilevanti

I chiarimenti dei giudici di Palazzo Spada: Consiglio di Stato, Sez. III , 11 luglio 2023, n. 6971

a cura di avv. dott. Renzo Cavadi

 

Sommario: 1. Premessa introduttiva – 2. La vicenda da cui si è sviluppato il contenzioso – 3. Il ricorso di fronte al TAR LAZIO e la decisione dei giudici di primo grado – 4. I motivi di appello sollevati davanti al Consiglio di Stato – 5. Lo sviluppo argomentativo seguito dai giudici di Palazzo Spada (Cons. di Stato, sez. III, 11 luglio 2023, n. 6971) – 6. Conclusioni

 

1. Premessa introduttiva

Il provvedimento di concessione della cittadinanza italiana, ai sensi dell’art. 9, comma 1, lettera f), della legge n. 91 del 1992, è connotato da ampia discrezionalità e sorretto da una valutazione di opportunità politico-amministrativa, informata a principi di cautela. Atteso che l’acquisizione della cittadinanza comporta l’inserimento a tutti gli effetti, nella collettività nazionale, tale valutazione deve necessariamente basarsi su un complesso di circostanze, atte a dimostrare l’avvenuto stabile inserimento e integrazione del richiedente nel tessuto sociale sotto il profilo delle condizioni lavorative, economiche, familiari e di irreprensibilità della condotta, da un punto di vista civile e penale.

L’amministrazione ha, peraltro, il potere di valutare anche fatti oggetto di mera comunicazione di reato, archiviazione in sede penale, assoluzione o integranti reati (poi estinti o depenalizzati), in quanto comunque rivelatori di una non piena adesione ai valori della convivenza civile, nonché rilevanti per la sicurezza e l’ordinato svolgimento della vita sociale. In questa eventualità, è però ineludibile, un adeguato approfondimento istruttorio, diretto ad accertare se e quali siano gli sviluppi delle denunce poste a base della valutazione negativa. Occorre altresì, un’ampia motivazione che dia conto delle ragioni, per le quali quei fatti in astratto penalmente rilevanti possano ritenersi comunque ostativi al rilascio della cittadinanza, in quanto tali da far venir meno quel requisito dello status illesae dignitatis morale e civile richiesto nel soggetto richiedente, non essendo sufficiente una semplice rilevazione acritica delle pendenze nella loro asettica storicità, senza alcun autonomo ed effettivo vaglio critico.

Sulla base di tali interessanti considerazioni, il Consiglio di Stato, sez. III, attraverso un’importante sentenza dell’11 luglio 2023 n. 6971 (Est. P. Carpentieri), pronunciandosi sui criteri effettivi di legittimità del provvedimento di diniego avverso un’istanza di concessione della cittadinanza italiana, ha accolto l’appello di un cittadino albanese residente in Italia da venticinque anni, contro quella decisione del giudice amministrativo di prime cure che dichiarava legittimo il decreto di rigetto adottato in materia dal Ministero dell’Interno.

2. La vicenda da cui si è sviluppato il contenzioso

Il Ministero dell’Interno, attraverso decreto emesso in data 12 aprile 2018, respingeva l’istanza di concessione della cittadinanza italiana presentata il 18 ottobre 2010 da un cittadino albanese, ai sensi dell’articolo 9 comma 1 lettera f) della legge del 5 febbraio 1992 n. 91.

Il motivo di diniego, su cui ha poggiato la decisione dell’amministrazione resistente, si è basata sul fatto che il cittadino albanese, (poi ricorrente), negli anni precedenti alla data di presentazione della relativa domanda, risultava interessato da notizie di reato (in specie per ricettazione ex art. 648 c.p.).

Più precisamente secondo la valutazioni effettuate dal Ministero dell’Interno, da tali pregiudizi di carattere penale, l’amministrazione resistente aveva ricavato che “la condotta del richiedente è indice di inaffidabilità e di una compiuta integrazione nella comunità nazionale desumibile da un complesso di situazioni e comportamenti, posti in essere nel corso della permanenza nel territorio nazionale – e in particolare – nel decennio anteriore alla data di presentazione della domanda – idonei  a fondare l’opportunità della concessione nel nuovo status civitatis”.

In sostanza il Ministero dell’Interno, ha ritenuto tali presupposti sintomo evidente di inaffidabilità del soggetto e come tali, fisiologicamente ostativi rispetto al requisito basilare di necessaria integrazione nella comunità nazionale.

3. Il ricorso di fronte al TAR LAZIO e la decisione dei giudici di primo grado

Il privato pertanto, ritenendosi leso nei suoi diritti, a fronte del comportamento adottato dall’amministrazione resistente, decideva di proporre ricorso innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, censurando l’illegittimità dell’atto impugnato per violazione e falsa applicazione ex art. 9 della legge n. 91 del 5 febbraio 1992, unita al difetto di istruttoria e carenza di motivazione. Nella prospettazione delle doglianze sollevate dal cittadino albanese infatti, l’amministrazione avrebbe adottato l’atto, semplicemente sulla base di meri pregiudizi penali, che non potevano configurarsi come vere condanne ma al più, come semplici segnalazioni di polizia di cui non si conosceva neanche  l’eventuale esito giudiziario.

Il TAR LAZIO dal canto suo lo riteneva infondato con sentenza del 31 ottobre 2022.

In particolare il giudice di prime cure, alla luce dell’ampio carattere discrezionale che contraddistingue il provvedimento concernente la concessione della cittadinanza (e delle collegate limitazioni a cui va incontro l’eventuale sindacato giurisdizionale del G.A in relazione alla valutazione del corretto inserimento o meno dello straniero nel tessuto socio-economico della comunità nazionale), ha giudicato non manifestamente illogica e pertanto condivisibile la decisione adottata dal Ministero dell’Interno nei confronti del ricorrente.

Più precisamente nei confronti del ricorrente risultavano a suo carico “plurime notizie di reato” e tutto questo per il giudice di prime cure, rappresenta “chiaro indice sintomatico di inaffidabilità e di una non compiuta integrazione nella comunità nazionale desumibile in primis dal rispetto delle regole di civile convivenza e dalla rigorosa sicura osservanza delle leggi vigenti nell’ordinamento giuridico italiano”.  Aggiungono i giudici amministrativi del TAR LAZIO che i comportamenti addebitati al ricorrente, a prescindere dal decorso degli esiti penali, “rimangono valutabili come fatto storico e quindi possono essere ragionevolmente considerati come indicativo di una personalità non incline al rispetto delle norme penali e civili” e comunque tale da “giustificare il diniego di riconoscimento della cittadinanza italiana”.

4. I motivi di appello sollevati davanti al Consiglio di Stato

L’appellante invece, rappresentando il proprio compiuto inserimento all’interno della comunità nazionale, sottolineava d’essere incensurato e privo di carichi pendenti e oltretutto che quelle notizie di reato (falso e ricettazione) risalenti al biennio 2000-2002, erano mere segnalazioni di polizia prive di esito giudiziario, da lui in ogni caso apprese esclusivamente all’atto della ricezione della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della relativa domanda di cittadinanza.

Nello specifico secondo le doglianze sollevate in appello, il decreto emesso dal Ministero dell’Interno successivamente impugnato, sarebbe stato emesso contra legem, “possedendo il ricorrente, tutti i requisiti per beneficiare della concessione della cittadinanza italiana, essendo residente ininterrottamente da venticinque anni in Italia, quivi convivendo con la moglie e i figli (aventi cittadinanza italiana), avendo da sempre svolto regolare attività lavorativa nel Paese e con questa prodotto i propri redditi”. Secondo le censure sollevate dall’appellante inoltre, la decisione negativa si poneva in contrasto con i precedenti giudiziari espressi proprio dagli stessi giudici di Palazzo Spada che in contesti e situazioni analoghe, hanno richiesto una più completa e adeguata istruttoria unitamente a una motivazione nettamente più dettagliata.

5. Lo sviluppo argomentativo seguito dai giudici di Palazzo Spada (Cons. di Stato, sez. III, 11 luglio 2023 n. 6971)

La posizione del Collegio Amministrativo sui profili dell’eventuale legittimità o meno del relativo diniego.

Occorre preliminarmente evidenziare come, nell’ambito della sua articolata motivazione i giudici del Consiglio di Stato, con un’attenta interpretazione dal carattere tipicamente permissivo e apertamente democratico, pur riconoscendo e confermando l’elevato tasso di discrezionalità e l’ampia valutazione che viene rimessa ex lege all’Amministrazione competente nell’esercizio del collegato potere concessorio, propendono per l’idea secondo la quale in tali casi, è obbligatorio per il Ministero dell’Interno, attivarsi per effettuare un adeguato e ragionato approfondimento istruttorio in relazione ai fatti e alle circostanze (pur se penalmente rilevanti) comprovanti l’avvenuta stabile e complessiva integrazione del richiedente nel tessuto sociale. A tutto questo deve in ogni caso seguire, un ampio ed adeguato sviluppo motivazionale delle ipotesi ostative al rilascio della richiesta cittadinanza.

Ciò posto, il Collegio amministrativo fa presente che l’appellante, cittadino albanese, risiede stabilmente nel nostro Paese da 25 anni convivendo con la moglie e due figli minori, svolgendo con continuità attività lavorativa.  E’ inoltre incontestato che, lo stesso nei termini di legge, ha dato effettivo riscontro alla comunicazione ex art. 10 bis della legge n. 241/1990 datata 4 maggio 2016, facendo presente: a) di non essere edotto circa le notizie di reato, non avendo mai ricevuto comunicazioni e tanto meno notifiche in merito, documentando anzi di essere incensurato nonchè di non avere a carico alcun procedimento penale; b) che in relazione alle notizie in possesso del Ministero dell’interno, non è mai stata esercitata l’azione penale, tant’è che nei confronti del ricorrente non risultano procedimenti penali pendenti.

Sul punto, i giudici di Palazzo Spada, ritenendo illegittimo per difetto di istruttoria e di motivazione il decreto di rigetto adottato dal Ministero dell’Interno, condividono la tesi formulata dall’appellante e, richiamando i propri precedenti giurisprudenziali della sezione formulati in materia, evidenziano che “quando il diniego sia basato esclusivamente su fatti risalenti nel tempo non seguiti da alcuno sviluppo in sede penale, occorre che l’eventuale provvedimento di diniego sia supportato da un maggiore approfondimento istruttorio e da un più ampio corredo motivazionale, non apparendo in tali casi sufficiente il mero richiamo di segnalazioni, rapporti e denunce a carico del richiedente, in specie se non recenti e risalenti nel tempo, senza un’adeguata verifica circa l’attuale stato di tali segnalazioni, denunce e rapporti”.

A tal proposito il Consiglio di Stato in un importante precedente giurisprudenziale (sentenza 26 aprile 2022 n. 3185) ha ritenuto altresì illegittimo il diniego di cittadinanza, allorquando esso “si basi sulla constatazione che vi è stata una denuncia all’autorità giudiziaria, senza accertare quali siano stati gli ulteriori sviluppi del relativo procedimento (nella stessa direzione si veda anche Cons. di Stato sentenze 3 marzo 2021 n. 1826, 14 maggio 2019 n. 3121 e infine 20 marzo 2019 n. 1837)”. Più in generale il Consesso Amministrativo ritiene che devano considerarsi illegittime quelle ipotesi in cui  “le denunce non sono state fatte oggetto di un autonomo apprezzamento, non essendo in alcun modo circostanziate”, ovvero “il provvedimento ministeriale  per l’insufficienza dei dati istruttori su cui si fonda, non reca un approfondito apprezzamento sui fatti sottesi alle denunce e, dunque, sul reale disvalore delle condotte rispetto ai princìpi fondamentali della convivenza sociale e alla tutela anticipata della sicurezza e della incolumità pubblica, risolvendosi in una rilevazione acritica delle pendenze nella loro asettica storicità senza alcun autonomo ed effettivo vaglio critico, come dato cioè di per sé stesso idoneo ad accreditare un giudizio di disvalore ai fini qui in rilievo” (Cons. di Stato, sentenza 3185/2022).

Il quadro interpretativo del sistema normativo alla luce dello sviluppo consolidato della giurisprudenza amministrativa

Ciò premesso, i giudici di Palazzo Spada nel richiamare l’opinione espressa dalla prima sezione del Consiglio di Stato (pareri 84,77e 62 del 2023; n. 1989 del 2022)  non sono contrari a riconoscere l’effettivo potere altamente discrezionale di valutazione che spetta per legge al Ministero dell’Interno nel momento in cui deve rilasciare il provvedimento di concessione della cittadinanza italiana ai sensi dell’articolo 9, comma 1, lett. f ai sensi della legge n. 91 del 1992: provvedimento la cui adozione presuppone inevitabilmente “una valutazione di opportunità politico amministrativa, informata a principi di cautela” dal momento che proprio l’ottenimento della cittadinanza italiana, determina concretamente il pieno inserimento e la piena integrazione nel tessuto della comunità nazionale.

Tale valutazione secondo il Collegio amministrativo può basarsi “su «un complesso di circostanze atte a dimostrare l’avvenuta stabile integrazione del richiedente nel tessuto sociale sotto il profilo delle condizioni lavorative, economiche, familiari e di irreprensibilità della condotta, tra cui particolare rilievo assume il rispetto delle regole della convivenza civile e non solo di quelle di rilevanza penale» (Cons. Stato, sez. I, pareri nn. 943 del 2022 e 1959 del 2020)”.  A ciò si aggiunga che la stessa amministrazione conserva il principio secondo il quale la stessa possiede “il potere di valutare anche fatti oggetto di mera comunicazione di reato, di archiviazione in sede penale, di assoluzione o integranti reati poi estinti o depenalizzati, in quanto comunque «rivelatori di una non piena adesione ai valori della convivenza civile rilevanti per la sicurezza e/o l’ordinato svolgimento della vita sociale» (Cons. Stato, sez. I, parere n. 77 del 2023; pareri nn. 1219, 1756-1761 e 806 del 2022”.

Ciò posto, per i giudici di Palazzo Spada, è pur vero che è la stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato con un orientamento certamente consolidato tende a sottolineare come in dette ipotesi “ è necessario un adeguato approfondimento istruttorio diretto ad accertare se e quali sviluppi vi siano stati delle denunce richiamate e poste a base della valutazione negativa, approfondimento istruttorio che deve essere poi logicamente seguito da un’attenta valutazione dei fatti così compiutamente ricostruiti”.  Secondo il Consesso Amministrativo inoltre, l’attenta istruttoria da parte dell’amministrazione interessata, deve essere accompagnata  da “un’ampia motivazione che dia conto delle ragioni per le quali quei fatti in astratto penalmente rilevanti, ancorché non seguiti da significativi sviluppi, né tanto meno da condanne, possano ritenersi comunque ostativi al rilascio della cittadinanza, in quanto tali da far venir meno quel requisito dello status illesae dignitatis morale e civile richiesto nel soggetto richiedente”.

Orbene nel caso di specie, è evidente come il provvedimento impugnato si discosta e fuoriesce certamente dagli accennati criteri di legittimità che devono conformare e orientare l’attività della Pubblica Amministrazione. Motivo per cui per i giudici del Consiglio di Stato, la sentenza appellata, “essendosi limitata a richiamare in modo non completo il quadro giurisprudenziale di riferimento, ponendo l’accento esclusivamente sull’ampiezza della discrezionalità amministrativa in questa materia e sui connessi limiti al sindacato in sede giurisdizionale”, lascia il fianco scoperto a censure giuridicamente fondate, meritando di essere adeguatamente e correttamente riformata.

6. Conclusioni

Il Collegio amministrativo pertanto, controbilanciando di fatto le valutazioni di natura politico-amministrativa ancorate al principio di cautela col l’importante principio di legalità sostanziale, ha legittimamente accolto il ricorso in appello riformando la sentenza appellata. Per l’effetto ha disposto l’annullamento del decreto di rigetto della concessione della cittadinanza impugnato dal cittadino albanese di fronte al TAR LAZIO, facendo salvo il ri-esercizio dei poteri da parte dell’Amministrazione competente.


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