La concorrenza nei servizi a rete: il caso del settore ferroviario
Sommario: 1. Premessa – 2. I servizi a rete – 3. La liberalizzazione dei servizi di rete – 4. Il settore ferroviario – 4.1 La liberalizzazione – 5. Conclusioni
1. Premessa
Le politiche internazionali di implementazione della concorrenza tra ordinamenti, unite all’esigenza di limitare le ingenti spese che gli enti pubblici comportavano, hanno contribuito a ridisegnare in Italia, tra gli anni Ottanta e i Novanta, l’intervento pubblico nell’attività di impresa: non più partecipazione diretta alle strutture dell’impresa, ma intervento regolatore esterno ed imparziale della loro attività[1]. Di qui le privatizzazioni[2] che hanno trasformato le imprese pubbliche in società di capitali aperte alla partecipazione dei privati ed operanti nel mercato nei modi e forme proprie di queste[3].
Prima dell’avvio di detti processi di privatizzazione, le società partecipate operavano per lo più in un regime di monopolio legale, per consentire allo Stato il pieno controllo su interi settori economici ritenuti particolarmente sensibili o strategici.
Ben presto si comprese che, al fine di realizzare gli obiettivi di efficienza e di libera concorrenza, contestualmente alla cessione ai privati di tali enti, dovevano necessariamente avviarsi anche forme di liberalizzazione dei settori in cui essi operavano[4].
In alcuni casi, però, il monopolio appare inseparabile dai caratteri obiettivi dell’attività economica, ed in tal senso esso è definito “naturale”. L’esempio classico è costituito da quelle attività produttive che per il loro esercizio richiedono la disponibilità di infrastrutture non duplicabili per ragioni di carattere fisico, o che sono duplicabili a condizioni non economiche. Questo è il caso di alcuni dei c.d. “servizi a rete”[5].
2. I servizi a rete
Il servizio pubblico a rete è una species del più ampio genus “servizio pubblico”, che si caratterizza per il fatto che l’erogazione dello stesso passa attraverso una rete di infrastrutture[6]. Va specificato preliminarmente che, sebbene il termine “rete”[7] faccia pensare ad un insieme materiale di opere, esso fa riferimento piuttosto ad una modalità operativa della diffusione del servizio.
Le operazioni economiche volte alla fruizione generale di tali servizi sono state, sempre più frequentemente, sottratte al monopolio statale e aperte alla libera concorrenza, attraverso l’abbattimento degli ostacoli che impedivano ai privati di inserirsi in settori quale quello delle telecomunicazioni, del gas, e del trasporto pubblico.
È stato necessario, così, adottare strumenti di regolazione che hanno operato, anzitutto, una distinzione tra le diverse tipologie di reti. In primo luogo, quindi, si è inquadrata la categoria delle reti che operano in condizioni di monopolio naturale da quelle che invece sono tali per la gestione del servizio[8]. Per le prime, il legislatore ha predisposto degli strumenti idonei volti al superamento delle limitazioni del diritto di accesso; per le seconde, invece, sono stati previsti dei limiti qualitativi minimi per garantire l’universalità del servizio.
Questa distinzione aiuta a comprendere meglio il motivo per il quale gli interventi pro-concorrenziali in materia di reti sono stati differenti a seconda del settore in cui essi andavano ad inserirsi. Se è vero, infatti, che tutte le infrastrutture a rete sono un fattore di sviluppo economico del Paese, sono essenziali per l’erogazione dei servizi di interesse collettivo, devono essere necessariamente realizzate dallo Stato per il loro elevato costo ed hanno un ruolo centrale anche per l’integrazione in ambito europeo, è vero anche, per converso, che esse presentano importanti elementi distintivi tra loro, sia di carattere fisico che per ragioni legate al mercato per il quale esse sono funzionali.
In questo senso, quindi, le infrastrutture legate al trasporto sono molto più invasive rispetto, ad esempio, alle reti postali. Tra i due opposti, invece, si collocano le reti del gas e delle telecomunicazioni, che sono meno invasive rispetto a quelle del traffico ma comunque più pregnanti rispetto a quelle postali.
Le misure adottate dalle autorità di regolazione in settori come questi, quindi, variano molto a seconda del mercato di riferimento, dei costi per sostenere le infrastrutture, della tecnologia necessaria per mantenere queste ultime.
Va evidenziato, però, che il nocciolo duro di queste politiche è costituito dal Diritto antitrust, che impone il cd. Third party access, cioè il diritto di accedere alle infrastrutture necessarie per l’erogazione del servizio, pena le conseguenze civilistiche e amministrativistiche in tema di abuso di posizione dominante[9].
3. La liberalizzazione dei servizi di rete
Proprio per le differenze individuate nel paragrafo precedente, la liberalizzazione di settori come quello ferroviario è stata sicuramente più complessa rispetto a quella che ha caratterizzato altri mercati.
Il settore ferroviario si caratterizza per essere, in sostanza, una forma di monopolio naturale, per superare il quale e aprire al libero mercato non basta permettere ad altri utenti di potervi accedere, ma è essenziale regolamentare l’utilizzo delle relative infrastrutture per permettere a tutti coloro che ne vogliano usufruire di poterlo fare, pagando, naturalmente, un prezzo per l’accesso[10].
Il processo di liberalizzazione di settori come quello in parola, quindi, si è realizzato attraverso due fasi: una che ha riguardato la privatizzazione del monopolista pubblico, e una che ha visto la scissione tra la società che gestisce l’erogazione del servizio e quella che, al contrario, si occupa esclusivamente delle infrastrutture.
Tale seconda azienda è tenuta a contrattare con gli altri gestori per permettere loro il transito sulla rete e per garantire la manutenzione della stessa, di modo che sia assicurato il più alto livello tecnologico possibile.
Per essere certi che ciò accada realmente e non si verifichino distorsioni legate all’abuso di posizione dominante, è necessario rafforzare i poteri normativi e sanzionatori delle Authorities che controllano il settore, di modo che esse possano guidare le scelte dell’impresa privata e intervenire laddove essa approfitti del proprio potere.
Dato un così forte potere di condizionamento delle scelte legate ai servizi di rete, è evidente che l’imparzialità dell’ente di regolazione deve essere un suo tratto essenziale, insieme alla sua competenza in materia.
È stato, però, rilevato da attenta dottrina[11] che negli ultimi anni le autorità amministrative indipendenti sono state spesso delegittimate dei loro compiti e delle loro competenze. Si è sostenuto, infatti, che il fatto stesso che le scelte in materia di politica industriale vengano adottate dal ministro e non dal regolatore costituisce un indizio circa il rischio di interferenze tra gli obiettivi politici di breve periodo, e la governance affidata al regolatore.
4. Il settore ferroviario
Il sistema dei trasporti su rotaia ha subito profonde trasformazioni nel corso della stagione delle privatizzazioni.
All’indomani dell’Unità d’Italia, nel 1861, esso si è rivelato nevralgico per i pubblici poteri, che lo gestivano direttamente. La costruzione delle infrastrutture necessarie per collegare il nord con il sud del Paese, infatti, ha tenuto impegnati i governi dell’epoca per molti anni[12]. Il neonato Regno trovò però ben presto a far fronte a serie difficoltà economiche e già nel 1862 sia l’opinione pubblica che la classe politica si resero perfettamente conto che lo Stato centrale non sarebbe più stato in grado di farsi carico direttamente dell’onere finanziario derivante dalla progettazione e dalla costruzione delle infrastrutture ferroviarie. Tale situazione spinse la classe politica ad affidarsi al Regime delle Concessioni Private[13].
Nel 1865, quindi, fu adottata la legge n. 2279 che, oltre a proporsi di riordinare la disciplina giuridica relativa alla costruzione, alle concessioni e alla gestione del servizio ferroviario, spianò la strada per la cessione di cinque società di gestione a soggetti privati.
Fu nel 1885, però, che tale attività venne affidata per intero ad imprenditori privati, i quali detennero la gestione del servizio di rete fino ai primi anni del Novecento, quando si operò una nuova statalizzazione del mercato ferroviario. La gestione della rete ferroviaria italiana da parte delle grandi società private concessionarie, infatti, fu inefficiente e scadente: i disservizi, aumentarono a dismisura, soprattutto a causa dell’obsolescenza delle infrastrutture. Va anche ricordato che il sistema tariffario vigente fu assai elevato rispetto al servizio offerto dalle grosse compagnie ferroviarie[14]. Il settore delle ferrovie, quindi, divenne un monopolio, cui gli imprenditori privati non potevano accedere.
Con il R.d. 9 maggio 1912, n. 1447, recante il “Testo unico delle disposizioni di legge per le ferrovie concesse all’industria privata, le tramvie a trazione meccanica e gli automobili” si dettarono le condizioni per le concessioni del servizio ai privati, prevedendosi una durata predeterminata, gli obblighi del concessionario e i contributi dello Stato per sostenere la gestione.
Al concessionario, per converso, venivano attribuiti poteri simili a quelli di una pubblica amministrazione, come quello di esproprio e di occupazione dei fondi privati.
È proprio in questo periodo che nasce l’“Amministrazione delle Ferrovie dello Stato” che successivamente divenne “Azienda autonoma delle Ferrovie dello Stato”, che, in poco tempo, ottenne la gestione diretta di tutte le attività riguardanti il servizio ferroviario.
Nel 1924, con il R.d.l. 22 maggio 1924, n. 868, il Ministro per le comunicazioni divenne anche presidente del C.d.A. delle Ferrovie, per cui, ancora una volta, era il governo a dettare l’indirizzo generale da seguire nel settore dei trasporti.
Dopo la Seconda guerra mondiale vennero attuate una serie di riforme, che portarono il Ministro dei trasporti a presiedere l’Azienda delle Ferrovie, cui però veniva riconosciuta autonomia di bilancio, finanziaria, contabile e di gestione.
Come accadde per le telecomunicazioni, nel 1985 fu varata una riforma che portò ad una separazione tra le attività legate alla gestione del servizio e quelle correlate alle infrastrutture. La grande novità che portò tale riforma fu quella di far passare nella sfera del diritto privato tutti gli atti relativi alla gestione tecnico amministrativa delle ferrovie, rimanendo limitati gli atti di diritto pubblico solo al rapporto tra lo Stato e l’Ente. Questo, che avrebbe dovuto permettere una gestione maggiormente imprenditoriale dell’erogazione dei servizi pubblici, tesa quantomeno al pareggio di bilancio, non diede, però, i risultati sperati. La preferenza degli utenti verso il trasporto su gomma, infatti, pose le Ferrovie dello Stato in una condizione di perenne crisi, cui si aggiungeva il divieto di aiuto di Stato da parte dell’Unione europea.
4.1 La liberalizzazione
Come in altri settori, anche per quello ferroviario i processi di privatizzazione e di liberalizzazione sono stati avviati dal legislatore italiano negli anni Novanta, in seguito alla direttiva n. 91/440/CEE. Quest’ultima, infatti, era relativa allo sviluppo delle ferrovie comunitarie e proponeva la separazione tra la gestione dell’infrastruttura e l’esercizio dell’attività di trasporto. In questo modo, infatti, i costi delle infrastrutture, per eccellenza molto elevati, venivano accollati al gestore, lasciando i trasportatori liberi da oneri così importanti. Ulteriore conseguenza era, poi, l’apertura del mercato del trasporto ad una pluralità di operatori, quindi alla libera concorrenza.
Esaminando con maggiore attenzione il contenuto della direttiva, è possibile notare, poi, che quest’ultima promuoveva l’autonomia contabile e finanziaria delle imprese ferroviarie, separandola sotto il profilo organico e funzionale dall’attività di gestione della rete[15]. Gli artt. 4 e 5 della direttiva, infatti, vincolano lo Stato a adottare tutte le misure idonee per ottenere tale risultato.
In questo modo si è imposto alle società ferroviarie di operare secondo i criteri dell’economicità e del pareggio di bilancio, alla stregua di qualunque impresa commerciale. Per ciò che attiene al gestore dell’infrastruttura, le imprese che usufruiscono delle reti sono tenute al pagamento di un corrispettivo calcolato in modo equo, tale da non creare barriere all’entrata del mercato. Tale canone può tenere conto anche dei chilometri percorsi, del numero dei treni, e della frequenza delle corse.
Il richiamo alle condizioni eque e non discriminatorie è particolarmente importante: il legislatore dell’Unione europea sembra essere conscio, infatti, che nelle realtà nazionali il rapporto tra gestori dell’infrastruttura e operatori è verticale, in quanto i primi hanno sicuramente una posizione dominante rispetto ai secondi. Il legislatore comunitario vuole, quindi, evitare abusi e clausole vessatorie da parte del monopolista di fatto.
Spetta, quindi, allo Stato, controllare che vengano rispettate le norme sulla trasparenza, oltre a quelle sulla sicurezza e tutte le misure necessarie alla buona tenuta dell’infrastruttura.
Il ricorso allo strumento della direttiva e non al regolamento, immediatamente vincolante, non è stata casuale: l’Unione europea, infatti, ha voluto dettare uno standard minimo di autonomia nel settore, rimettendo agli Stati membri la scelta relativa ai modelli di liberalizzazione più adeguati al caso concreto.
Il percorso delineato dalla direttiva in esame è stato, poi, ulteriormente completato attraverso l’adozione di altre due direttive: la n. 95/18/CE e la n. 95/19/CE, relative, rispettivamente, alle licenze delle imprese ferroviarie e alla ripartizione delle capacità di infrastruttura.
Quanto alle prime, in particolare, si è sancito che per ottenerle l’impresa deve possedere i requisiti di onorabilità, rispettabilità e capacità finanziaria ma soprattutto un certificato di sicurezza rilasciato dall’organo designato a tale scopo dallo Stato membro in cui si trova l’infrastruttura che attesti il rispetto degli standard atti a garantire un servizio sicuro.
La previsione di questi spazi di valutazione in capo ad organi designati dagli Stati membri, però, rischia di lasciare un ampio margine di discrezionalità in capo alla P.A., riducendo di molto lo spazio assegnato al libero mercato.
5. Conclusioni
È lecito affermare che la strada da percorrere per una completa liberalizzazione del mercato in esame sia ancora lunga e che esso debba considerarsi assoggettato alle norme relative ai c.d. settori speciali[16]. Il problema si pone, in particolare, per ciò che riguarda la gestione dell’infrastruttura. Lo dimostra, tra le altre cose, il fatto che, nel 2013 la Corte del Lussemburgo, sollecitata dalla Commissione europea, ha condannato l’Italia per la mancata indipendenza del gestore dell’infrastruttura, nello specifico Rete Ferroviaria Italiana (R.F.I.)[17], nella determinazione dei pedaggi per l’accesso alla stessa rispetto al Ministero dei trasporti[18]. L’U.R.S.F. seguirebbe le delibere ministeriali in modo troppo stringente, senza la necessaria flessibilità per valutare caso per caso. Di conseguenza, sarebbe il Ministero stesso, che controlla le Ferrovie, ad avere l’ultima parola sui suoi concorrenti. Ferrovie dello Stato, dunque, pur essendosi vista erodere dalla concorrenza il proprio dominio, continua ad agire, sotto molti profili, da monopolista.
[1] «Nell’ordinamento post costituzionale l’intervento pubblico nell’economia si è sviluppato, nel tempo, attraverso diverse forme sempre più modellate su esperienze del sistema economico privato: si è passati dalle aziende pubbliche (statali e municipalizzate), agli enti pubblici economici, alle società di capitali. Anche l’appartenenza all’UE ha favorito e accelerato la liberalizzazione in Italia di importanti settori economico-produttivi e dei servizi pubblici di maggior rilievo (elettricità, energia, chimica, assicurazioni, trasporto aereo, meccanica avanzata, grande distribuzione commerciale, ristorazione, impiantistica civile e industriale, telecomunicazioni, ferrovie, poste, autostrade). L’Unione Europea non ha imposto, per la verità, anche la privatizzazione delle aziende pubbliche ma solo l’armonizzazione del mercato. In Italia, alla liberalizzazione si è accompagnata come scelta nazionale sull’esempio olandese una forte accelerazione del processo di privatizzazione, che non ha riscontri nelle esperienze francese e tedesca». Così, testualmente, S. CASSESE in Lo stato dell’amministrazione pubblica a vent’anni dal Rapporto Giannini, in Giorn. dir. amm., 2000.
[2] Dal 1990 in poi si apre un periodo caratterizzato da un lento ma inesorabile processo di privatizzazione degli enti pubblici, tutti trasformati in società per azioni. Il primo intervento legislativo in questo senso è costituito dal d. l. 5 dicembre 1991, n. 38660, ma è il d. l. 33361/1992 ad avviare il processo in esame, privatizzando IRI, INA, ENI ed ENEL.
[3] G. Scarchillo, Privatizzazioni e settori strategici: L’equilibrio tra interessi statali e investimenti stranieri nel diritto comparato, Torino, 2018.
[4] A. Mazzoni, Privatizzazioni e diritto antitrust: il caso italiano, in riv. soc., 1996, p. 34.
[5] Così F. Trimarchi Banfi, Lezioni di diritto pubblico dell’economia, Torino, 2016.
[6] Sul tema, ex plurimis V. E. Ferrari, I servizi a rete in Europa, Milano, 2000; E. Ferrari, La disciplina dei servizi a rete e la dissoluzione della figura dei servizi pubblici, in E. Ferrari (a cura di), I servizi a rete in Europa, Milano, 2000, p. 86; E. Cardi, La nozione di rete. Seminario reti europee, in Servizi pubblici e appalti, 2005, p. 17; F. Vetrò, Il servizio pubblico a rete. Il caso paradigmatico dell’energia elettrica, Torino, 2005.
[7] A. Predieri, M. Morisi (a cura di), L’Europa delle reti, Torino, 2001.
[8] M. Sebastiani, (a cura di), Infrastrutture e servizi a rete tra regolazione e concorrenza (bozza provvisoria), in www.astrid-online.it, giugno 2008.
[9] R. Rotigliano, Beni pubblici, reti e la dottrina delle essential facilities, in Dir. Amm., 4/2006, pp. 953 ss.
[10] E. Bruti Liberati, La regolazione pro-concorrenziale dei servizi pubblici a rete. Il caso dell’energia elettrica e del gas naturale, Milano, 2006, p. 1.
[11] M. Grillo, Infrastrutture a rete e liberalizzazione delle public utilities, in ASTRID, Le virtù della concorrenza. Regolazione e mercato nei servizi di pubblica utilità, (a cura di) Claudio De Vincenti e Adriana Vigneri, Bologna, 2006.
[12] Per un approfondimento si veda V. Guadagno, Ferrovia ed economia nell’ottocento post-unitario, Roma, Edizioni CAFI, 1996.
[13] Vedi L. Jannattoni, Il Treno in Italia, Roma, Editalia, 1975, pp. ; sull’argomento si veda anche C. Forghieri, “Storia delle Ferrovie in Italia. 1° Puntata: 1839-1905″, Amico Treno, Anno 6, n° 6, luglio 1997, pp. 16.
[14] C. Forghieri, “Storia delle Ferrovie in Italia“, seconda puntata: 1905-1950, Amico Treno, Anno 6, n° 7, agosto-settembre 1997, pp. 30; sullo stesso argomento Cfr. anche A. Giuntini, “Ferrovie italiane dalla nazionalizzazione alla nascita del Ministero delle Comunicazioni 1905-1924“, in AA. VV., Milano, Edizioni Unicopli, 1994, pp. 18.
[15] Cfr. art. 6 della direttiva.
[16] Il riferimento è alla normativa dettata dalla direttiva 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, già contemplata nella direttiva 2004/17/CE poi trasposta nel Codice dei contratti pubblici, emanato con d.lgs. 50/2016.
[17] Azienda pubblica in forma di società per azioni partecipata al 100% da Ferrovie dello Stato Italiane con funzioni di gestore dell’infrastruttura ferroviaria nazionale.
[18] Corte di Giustizia UE, Prima Sezione, sentenza 3 ottobre 2013, causa C–369/11. In particolare: «La Corte rileva che la normativa italiana prevede che la determinazione dei diritti, fissata di concerto con il Ministro, vincoli il gestore. Sebbene il Ministro eserciti un mero controllo di legittimità, detto controllo dovrebbe tuttavia spettare all’organismo di regolamentazione, nel caso di specie all’URSF. La Corte ne trae la conclusione che la legge italiana non consente di assicurare l’indipendenza del gestore dell’infrastruttura».
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