La condizione giuridica del lavoratore straniero in Italia
La Costituzione italiana dichiara che la presenza dello straniero in Italia è disciplinata dalla legge in conformità alle norme e ai trattati internazionali. In base a questa previsione della costituzione, allo straniero che è presente nel territorio dello Stato Italiano sono garantiti i diritti fondamentali della persona umana, anche se la presenza del soggetto è irregolare.
Il cittadino straniero che intenda eseguire qualsiasi tipo di attività lavorativa in Italia deve ottenere all’ingresso un’autorizzazione amministrativa che si chiama “visto”. Il visto permette l’ingresso regolare del cittadino straniero nel territorio dello Stato e questa autorizzazione, in linea di massima, non si può mai tralasciare, qualunque sia il motivo del soggiorno. Soltanto nel caso di ingresso per motivi di turismo i cittadini di alcuni Paesi, in via del tutto eccezionale, possono fare ingresso nel territorio dello Stato sprovvisti di visto, in base a quanto previsto da trattati o accordi internazionali, ma non è permesso loro svolgere alcun tipo di attività lavorativa.
Il principio della parità di trattamento tra lavoratore straniero e lavoratore italiano è un principio base della disciplina della condizione giuridica del lavoratore migrante sancito dal Testo Unico sull’Immigrazione, in omaggio a quanto stabilito espressamente dalla Convenzione O.I.L. (Organizzazione Internazionale del Lavoro) n.143 del 1975, ratificata con la Legge 10 Aprile 1981, n. 158.
Nella Convenzione si evince che è compito dell’O.I.L. “difendere gli interessi dei lavoratori occupati all’estero” e che la “convenzione sui lavoratori migranti […] chiede, ad ogni Membro che l’abbia ratificata, di applicare agli immigrati che si trovino legalmente nei confini del proprio territorio un trattamento non meno favorevole di quello applicato ai propri nazionali, per quanto attiene a varie materie in essa elencate, nella misura in cui tali questioni siano disciplinate dalla legislazione o dipendano dalle autorità amministrative“. Interessante osservare poi l’art.10 della Convenzione secondo cui: “Ogni Membro per il quale la convenzione sia in vigore s’impegna a formulare e ad attuare una politica nazionale diretta a promuovere e garantire, con metodi adatti alle circostanze ed agli usi nazionali, la parità di opportunità e di trattamento in materia di occupazione […] per le persone che, in quanto lavoratori migranti o familiari degli stessi, si trovino legalmente sul suo territorio“.
La “parità di trattamento” si riferisce, dunque, all’obbligo di garantire le medesime condizioni di lavoro a lavoratori che si trovano in una identica condizione, quindi, per esempio, avere il diritto alla medesima retribuzione; invece il concetto di “parità di opportunità” comprende il diritto ad uguali possibilità di avviamento e di accesso al lavoro, sia subordinato che autonomo.
Il principio della parità di opportunità e di trattamento include il divieto di qualsiasi forma di discriminazione che lo pongano in una posizione svantaggiata rispetto al lavoratore italiano, infatti non può essere sottoposto a limitazioni o restrizioni che possano differenziare la sua posizione da quella del lavoratore nazionale. Questo principio è stato più volte avvalorato anche dalla Corte Costituzionale che ha ritenuto legittime solo le restrizioni eventualmente poste all’ingresso dei lavoratori non comunitari e legate alla programmazione (cfr. sentenza della Corte Costituzionale n.454/1998: <<…Una volta che i lavoratori extracomunitari siano autorizzati al lavoro subordinato stabile in Italia, godendo di un permesso di soggiorno rilasciato a tale scopo o di altro titolo che consenta di accedere al lavoro subordinato nel nostro paese, e siano posti a tal fine in condizioni di parità con i cittadini italiani, e così siano iscritti o possano iscriversi nelle ordinarie liste di collocamento […], essi godono di tutti i diritti riconosciuti ai lavoratori italiani. Nè perdono tali diritti per il fatto di rimanere disoccupati…>>).
Per menzionare un esempio pratico di applicazione di questo principio, sono particolarmente rilevanti le pronunce della giurisprudenza che riguardano il diritto dei lavoratori stranieri, divenuti invalidi, ad accedere al collocamento obbligatorio e alle garanzie che esso prevede. Infatti, per molti anni, il Ministero del Lavoro non ha permesso l’iscrizione alle liste del collocamento dei disabili perché riteneva speciale la disciplina che regola questa materia.
Ma il principio della parità di trattamento si amplia anche alla flessibilità nel campo del lavoro ed alle varie tipizzazioni del contratto previste dalla Riforma Biagi, che disciplina molteplici forme di lavoro temporaneo prese in considerazione da istituti contrattuali flessibili (somministrazione di lavoro, collaborazioni a progetto, etc.) che possono essere attuate anche per i lavoratori stranieri, in omaggio al principio in esame.
La direttiva 2011/98/UE, approvata dall’Unione Europea il 13 dicembre 2011, ha introdotto in tutti gli Stati membri una procedura comune che prevede la domanda per il rilascio di un permesso unico che permette ai cittadini di Paesi terzi di poter soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro, congiuntamente a un insieme di diritti per i lavoratori di Paesi terzi che soggiornano in maniera regolare in uno Stato membro.
Accanto a questa semplificazione procedurale, la direttiva garantisce un insieme comune di diritti ai lavoratori stranieri che soggiornano in uno Stato membro identici a quelli dei lavoratori nazionali in tutti gli ambiti associati all’occupazione (condizioni di lavoro, istruzione e formazione professionale, sicurezza sociale, etc.).
In base a questa direttiva, gli Stati membri hanno dunque l’obbligo di specificare nel permesso di soggiorno, se il cittadino straniero è autorizzato a lavorare, anche nell’ipotesi in cui il permesso di soggiorno sia stato rilasciato per un motivo diverso (ad esempio per motivi familiari).
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Agnese Di Guardo
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