La condotta offensiva abituale del docente integra il reato di maltrattamenti

La condotta offensiva abituale del docente integra il reato di maltrattamenti

Sommario: 1. Le circostanze fattuali da cui trae origine la sentenza n. 3459/2021 della Suprema Corte – 2. La decisione della Corte e le motivazioni a sostegno della pronuncia – 3. Conclusioni desumibili dalla sentenza ermellina

 

1. Le circostanze fattuali da cui trae origine la sentenza n. 3459/2021 della Suprema Corte

Con la sentenza 27 gennaio 2021, n. 3459, la Corte di cassazione ha sancito che commette il reato di maltrattamenti e non il reato di abuso di mezzi di correzione, meno grave del predetto, il docente che, con condotta abituale e recidiva, apostrofa con epiteti offensivi e termini discutibili un proprio alunno, in presenza dell’intera classe.

La sentenza in oggetto trae origine dalle descrivende circostanze fattuali.

Il ricorrente T.R.P., mediante il proprio legale di fiducia, impugna, dinnanzi al Giudice di legittimità, la sentenza emessa in data 3 marzo 2020 dalla Corte di Appello di Palermo, che ha confermato la condanna ad esso inflitta in data 29 gennaio 2019 dal Tribunale di Termini Imerese per il presunto reato di maltrattamenti, perpetrati in danno del proprio alunno G.G., il quale, costituitosi parte civile nel procedimento mediante la specifica azione genitoriale, chiedeva il risarcimento dei danni patiti.

In particolare, al ricorrente, docente sessantenne di una scuola media siciliana, veniva contestato di aver qualificato, in maniera alquanto ripetitiva, quale “deficiente” un proprio alunno, il quale, a detta del professore, aveva degli evidenti problemi psicologici, che lo avevano indotto ad instaurare una situazione conflittuale con l’insegnante.

Il professore, attraverso il proprio procuratore, contestando qualunque addebito, presentava ricorso per Cassazione per due particolari doglianze.

La prima afferiva alla esistenza, a suo dire, di vizi di motivazione circa la sussistenza dei fatti contestati. La Corte di Appello di Palermo, dunque, avrebbe valutato erroneamente gli elementi di prova a carico dell’imputato, in quanto non coerenti con la veritiera ricostruzione dei fatti.

In tale frangente, si contestavano, in particolare, la testimonianza dei dirigenti scolastici, i quali confermano, mediante i propri racconti, la problematica situazione psicologica dell’alunno G.G., ma non le presunte vessazioni, di cui il ricorrente T.R.P. veniva accusato.

Le predette vessazioni, negate da taluni alunni della medesima classe, sentiti quali testi, venivano confermate da un ulteriore alunno, registrato, a sua insaputa, durante una conversazione con la madre del G.G., registrazione mai prodotta in giudizio e della cui autenticità vi erano numerosi dubbi.

La seconda doglianza afferiva, a dire del ricorrente, alla qualificazione giuridica dei fatti, che, se integrante reato, non avrebbe potuto ascriversi quale delitto di maltrattamenti, di cui all’art. 572 c.p.1, ma nella più lieve ipotesi criminosa di abuso dei mezzi di correzione e di disciplina, di cui all’art. 571 c.p.2.

Il procuratore generale, assolutamente concorde alle posizioni accusatorie assunte dal Corte di Appello di Palermo, concludeva per l’inammissibilità del ricorso.

2. La decisione della Corte e le motivazioni a sostegno della pronuncia

La Suprema Corte, mediante la pronuncia 27 gennaio 2021, n. 3459, ha dichiarato inammissibili i suddetti motivi di ricorso.

In merito al primo motivo, la Cassazione ritiene che le si richieda un giudizio di fatto, che esula dal suo sindacato, esclusivamente di legittimità. In particolare, così come riportato nei motivi della decisione, «… non rientra nei poteri della Corte di cassazione quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa – per il ricorrente più adeguata – valutazione delle risultanze processuali ( per tutte, Sez. U., 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944)».

In merito al secondo motivo, la Suprema Corte ritiene che il medesimo, afferente l’individuazione dei confini tra gli artt. 571 e 572 c.p., sia certamente privo di qualsivoglia fondamento giuridico. In particolare, ai fini della configurazione del reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, di cui all’art. 571 c.p.3, si richiede l’uso non appropriato di strumenti, metodi o comportamenti educativi, consentiti dalla disciplina generale e di settore, ma considerati non necessari ai fini correttivi e non proporzionati alla violazione commessa dal preposto.

Secondo la Corte, la violenza, in qualunque forma essa si presenti, non costituisce e non può costituire mezzo di correzione o di disciplina, neppure se a scopo istruttivo od educativo. Gli epiteti offensivi e le parole ingiuriose pronunciate dall’imputato, quali “deficiente”, “fetente”, “coglione”, ed indirizzate ad un proprio alunno, difficilmente possono considerarsi come strumento correttivo od educativo, mancando , inoltre, la proporzionalità, richiesta dall’art. 571 c.p., rispetto violazione eventualmente commessa dal minore.

Per i succitati motivi, la Cassazione ritiene che il fatto, così come verificatosi, integra, indubbiamente, il reato di maltrattamenti, di cui all’art. 572 c.p.4.

3. Conclusioni desumibili dalla sentenza ermellina

Dalla sentenza ermellina n. 3459/2021 si evince che risulta “accertato in fatto”, e, dunque, non può essere contestato in sede di legittimità, che il docente T.R.P., odierno ricorrente, «apostrofasse sistematicamente la vittima durante le lezioni e comunque dinanzi ai compagni di classe, con epiteti dall’indiscutibile valenza ingiuriosa (“fetente”, “deficiente”, “coglione”, “fituso”, che sta per sporco, e “vocca aperta”, nel senso di stolto), ma anche umiliante, considerando la differenza di ruolo, oltre che di età».

Anche qualora si volesse dar valenza alla tesi della difesa dell’imputato, secondo cui tali colorite espressioni siano necessarie a scopi istruttivi e correttivi, è indubbio, a dire della Corte, che il comportamento tenuto dall’autore non fosse minimamente adeguato agli scopi prefissati, essendo venuto meno il necessario requisito della proporzione tra violazione commessa dall’alunno e conseguenziale correzione del docente.

In particolare, l’art. 571, c. 1, c.p. sancisce: «Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito, se dal fatto deriva pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi».

Dal citato disposto normativo si ricava che la condotta tipica consiste negli atti con i quali il soggetto agente ecceda, nei confronti della persona da lui dipendente, nell’uso di mezzi coercitivi o disciplinari, che, se contenuti entro ben determinati limiti, sarebbero del tutto legittimi5. Qualora, però, i mezzi usati siano, per loro stessa natura, illeciti, quali ad esempio le ingiurie, le sevizie o le minacce, non si potrebbe certamente configurare il delitto de quo, ma ci si troverebbe innanzi ad una fattispecie delittuosa più grave, classificabile tra i reati contro la persona6.

L’abuso, quindi, è configurabile qualora vi sia un esercizio illecito di un potere riconosciuto dall’ordinamento. Non si richiede l’abitualità, per cui il delitto può benissimo ritenersi integrato da un unico atto espressivo dell’abuso ovvero da una consecutio di azioni, rientranti nel medesimo disegno criminoso, lesive dell’incolumità fisica o psichica del minore, sebbene l’intento dell’agente fosse disciplinare7.

Per ciò che concerne il potere educativo degli insegnanti, come nel caso che ci compete, l’uso della violenza, fisica o psichica che sia, non può mai ritenersi correttiva, per via dell’importanza che l’ordinamento italiano attribuisce alla dignità della persona, benchè minore, considerato, ad oggi, titolare di diritti e non più semplice soggetto da tutelare.

Venendo meno il fine di correzione o disciplina e non necessitando che dall’azione derivi una malattia nel corpo o nella mente della vittima, la condotta incriminata ed imputata al ricorrente T.R.P. integra il più grave reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi, di cui all’art. 572 c.p., il quale, al c. 1, così sancisce: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni».

La predetta norma si fonda sulla centralità assumente lo stabile vincolo affettivo ed umano, da tutelare contro eventuali azioni di sopraffazione od abuso di autorità, che possono discendere, oltre che da un rapporto di familiarità, anche da un rapporto di autorità, derivante dallo svolgimento di una professione, arte o custodia8. Non è necessaria la convivenza o la coabitazione tra il soggetto agente e la vittima, essendo sufficiente che intercorra tra di loro una relazione abituale, in quanto nel concetto di “famiglia”, citato dalla disposizione normativa, rientra qualsiasi consorzio di persone, tra le quali sia sorto un rapporto di assistenza reciproca9.

I due citati delitti risultano spesso difficilmente distinguibili, a causa della sovrapponibilità tra soggetti attivi e passivi e delle similari condotte tipiche, la cui linea di demarcazione, secondo dottrina e giurisprudenza prevalenti, si rinviene nel c.d. animus corrigendi, inteso quale intrinseca volontà del soggetto agente di correggere la persona a sé “subordinata”, purché l’esercizio della funzione educativa non sia caratterizzata da modalità afflittive della personalità. In particolare, «Il delitto di abuso di mezzi di correzione e di disciplina presuppone un uso consentito e legittimo dei mezzi educativi, che, senza attingere a forme di violenza, trasmodi in abuso a causa dell’eccesso, arbitrarietà o intempestività della misura. Ove, invece, la persona offesa sia vittima di continui episodi di prevaricazione e violenza, tali da rendere intollerabili le condizioni di vita, ricorre il più grave reato di maltrattamenti in famiglia10».

Come già stabilito da una precedente sentenza della Suprema corte11, ai fini della distinzione tra il delitto di maltrattamenti, ex art. 572 c.p., ed il delitto di abuso di mezzi di correzione, ex art. 571 c.p., non rileva certamente la finalità che il reo volesse conseguire mediante l’incriminata condotta, sebbene, a suo dire, posta in essere per esclusivi fini istruttivi od educativi. Ciò che rileva è, invece, la natura, oggettivamente considerata, della condotta, da cui ne discende che non sia integrabile il meno grave reato di cui all’art. 571 c.p. qualora i mezzi e gli strumenti adoperati siano del tutto incompatibili con l’attività educativa prefissata. Infatti, «l’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore, anche lì dove fosse sostenuto da animus corrigendi, non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso di mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti12».

In conclusione, laddove volesse ritenersi configurato il meno grave reato di cui all’art. 571 c.p., a fronte del più grave reato di cui all’art. 572 c.p., dovrà sussistere un’evidente sproporzione tra finalità educativa ascritta e condotta concretamente realizzata dall’agente, che escluda, incontrovertibilmente, la sussistenza di lesioni all’incolumità fisica o morale del minore affidato all’autorità del preposto.

 

 

 

 


1Punito, salvo le ipotesi aggravata di cui all’art. 572, commi 2, 3 e 5, c.p., con la reclusione da tre a sette anni.

2Punito, salvo l’ipotesi aggravata di cui all’art. 571, comma 2, c.p., con la reclusione fino a sei mesi.

3Articolo collocato all’interno del Titolo XI del Libro II del Codice penale, titolo dedicato ai delitti contro la famiglia ed, in particolare, nel Capo IV, intitolato “dei delitti contro l’assistenza familiare”.

4La collocazione della norma, medesima dell’art. 571 c.p., a detta di parte della dottrina, è poco corretta poiché il reato ex art. 572 c.p. si realizza mediante una consecutio di atti che determinano la lesione della libertà e dell’incolumità individuale, con la conseguenza che sarebbe auspicabile la sua collocazione nell’ambito dei delitti contro la persona. A perer di altra parte della dottrina, la predetta collocazione è impropria poiché non rispecchia il reale campo tutelato dalla norma, esteso alla tutela dell’integrità fisica o morale di vittime che, pur non facenti parte di una “famiglia”, intesa in senso tradizionale, siano soggette all’autorità ed alla supremazia del soggetto agente (Vedasi F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2020, p. 497).

5PIOSELLI, Abuso dei mezzi di correzione o disciplina, in Enciclopedia del diritto, Vol. I, Varese, 1958, 170 ss.

6FERRARO, Distinzione tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e disciplina e il reato di maltrattamenti in famiglia: l’evoluzione giurisprudenziale, in Riv. Pen., 2008, p. 668 ss.

7Corte di cassazione, Sez. VI penale, sentenza 16 febbraio 2010, n. 18289.

8ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, I, Giuffrè, 2020, p. 510.

9ANCONA, Maestra d’asilo violenta: è reato di maltrattamenti in famiglia, 2017, www.studiolegalepalmisano.it.

10Corte di cassazione, Sez. VI penale, sentenza 12 settembre 2007, n. 34460.

11Corte di cassazione, Sez. VI penale, sentenza 13 marzo 2017, n. 11956.

12Estratto della sentenza 11956/2017 della Suprema corte.

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Saverio Patti

Dottore Magistrale in Giurisprudenza e Praticante Avvocato

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