La Consulta sul rifiuto di cure e diritto alla morte dignitosa
“Mi sento più leggero, mi sono svuotato di tutta la tensione accumulata in questi anni”.
Parole che colpiscono, pregne di significato, che racchiudono la sofferenza di chi già soffre e “denunciano” l’estrema importanza di un tema, quello del c.d. suicidio assistito, tristemente portato all’attenzione, anche dell’opinione pubblica, da tragiche vicende.
L’autore del predetto commento è un ragazzo tetraplegico di 43 anni, che, paralizzato dalle spalle ai piedi da 11 anni a causa di un incidente stradale, è il primo malato ad aver ottenuto il via libera al suicidio medicalmente assistito in Italia, dopo aver portato avanti una lunga battaglia giudiziaria, che, tristemente, va ad aggiungersi al calvario fisico e psicologico dovuto alla sua condizione. Ciò è stato possibile a seguito della sentenza n. 242/2019, con cui la Corte Costituzionale ha aperto la strada al suicidio assistito, sia pure fissando dei paletti molto rigorosi.
Il fatto di cronaca che ha condotto al giudizio della Consulta è la nota e triste vicenda di Dj Fabo, anch’egli tetraplegico in seguito ad un incidente stradale. Fabiano Antoniani ha deciso di morire con il suicidio assistito in una clinica svizzera, trasportato in auto da Marco Cappato, che il giorno successivo si è autodenunciato. Accusato di aiuto al suicidio, ha avuto inizio per lui un processo culminato poi con l’assoluzione “perché il fatto non sussiste”, proprio grazie alla pronuncia della Corte costituzionale, che, atteso invano il richiesto intervento del Parlamento per colmare un vuoto legislativo, è stata costretta a decidere.
Come in molte legislazioni degli stati membri del Consiglio Europeo, l’aiuto al suicidio è penalmente sanzionato nel nostro ordinamento giuridico. L’art. 580 cod. pen., riproponendo il divieto già presente nel codice previgente ed estendendone la rilevanza anche al tentativo di suicidio (laddove ne siano derivate lesioni personali gravi o gravissime), prevede uno stesso regime giuridico per le diverse condotte di determinazione, di rafforzamento del proposito e di agevolazione dell’esecuzione. Il nostro legislatore, dunque, non riconosce un diritto al suicidio, ma, seppure disapprovandolo e, sino a che sia possibile, scongiurandolo, lo tollera, preoccupandosi, in particolar modo, che la scelta sia frutto della volontà, scevra da ogni condizionamento, di chi lo compie. Le persone più deboli, depresse o comunque psicologicamente più fragili, le persone anziane e sole, potrebbero essere facilmente indotte a compiere questo passo estremo e irreparabile, laddove l’ordinamento consentisse a chiunque di collaborare anche solo all’attuazione di una loro scelta suicida, magari per interessi personali.
Proprio sottolineando questo scopo della norma, che la Corte costituzionale, rigettando la questione di legittimità nei termini posti dal giudice rimettente, dichiara la piena legittimità dell’incriminazione dell’aiuto, in quanto funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili.
Se l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può ritenersi in via generale incompatibile con la Costituzione, la Corte ritiene che si debba giungere a diversa conclusione in situazioni specifiche, come quella sottoposta alla sua attenzione, in cui tale incriminazione si traduce in una negazione, per il malato, dell’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto della dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, co. 2, Cost.
In altri termini la Consulta affronta l’interrogativo se sia legittimo che l’aiuto rilevi sempre e comunque.
In presenza di particolari condizioni (persona affetta da malattia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che trova intollerabili, tenuta in vita mediante trattamenti di sostegno vitale, ma ancora capace di decisioni consapevoli), il malato, grazie alle innovazioni intervenute nel nostro ordinamento con la l. 219/2017, può decidere di lasciarsi morire, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, chiedendo l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua.
Tuttavia, ci sono pazienti cui l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale con contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua conduce a una morte rapida e pazienti che si trovano, con il medesimo intervento, a subire un processo più lento e più carico di sofferenze, anche per le persone che gli sono care, tanto da non poter parlare, per questi malati, di morte dignitosa. Se il valore della vita, afferma la Corte, conduce a rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari, anche quando ciò richieda una condotta attiva da parte di terzi, quale lo spegnimento di un macchinario, non si comprende perché il medesimo valore debba ostacolare l’accoglimento da parte del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento, quale strada più aderente, in tale situazione, ad una morte dignitosa. In altri termini, la Corte rileva che, pur condividendo l’esigenza di proteggere le persone più vulnerabili, si crea una disparità di trattamento atteso che l’ordinamento, da un lato, ritiene chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza mediante l’interruzione di tale trattamento, viceversa, dall’altro lato, ritiene il medesimo soggetto bisognoso di una forte protezione contro la propria volontà a fronte della decisione di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri, quale soluzione maggiormente dignitosa rispetto alla predetta interruzione.
Sulla base di tali argomentazioni, la Corte conclude che, nelle predette situazioni, il divieto assoluto di aiuto al suicidio si traduce nella limitazione della libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, incluse quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, co. 2, Cost., con conseguente lesione del principio di dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive.
La Corte ritiene dovuta l’assistenza al suicidio ai malati che versino nelle condizioni sopra indicate sulla base di un giudizio di uguaglianza fra due categorie di pazienti che la legge tratta in maniera irragionevolmente differenziata. Invero, sul punto, giova precisare che la legge 219/2017 non pecca affatto di ragionevolezza, in quanto, stante l’importante differenza tra rifiuto delle cure ed eutanasia, ha inteso garantire pienamente il primo e rifiutare la seconda. Pertanto, riconoscendo come irragionevole la mancata previsione dell’aiuto al suicidio nei casi sopra ricordati, la Corte stravolge l’impostazione della normativa, varcando quella soglia che separa il rifiuto delle cure dall’eutanasia, che il legislatore aveva scelto di non varcare.
Acclarata, nei termini esposti, l’incostituzionalità della normativa in materia di fine vita, la Corte ritiene di non potervi porre rimedio semplicemente limitandosi a sottrarre dalla sua area applicativa i casi di aiuto a soggetti che si trovassero nelle situazioni indicate, perché il vuoto normativo che ne sarebbe seguito avrebbe esposto ad abusi, in quanto chiunque avrebbe potuto in qualsiasi momento offrire assistenza al suicidio, senza alcun controllo sulla concreta irreversibilità della patologia o sulla reale capacità di autodeterminazione del malato. Pertanto, la Corte sceglie di sollecitare il legislatore a varare, entro un certo lasso di tempo, una disciplina ad hoc.
Decorso invano il predetto termine, in forza dei diritti fondamentali dei malati e dello stesso imputato a non subire una pena sulla base di una norma incostituzionale, la Consulta ha proceduto a dichiarare la parziale illegittimità dell’art. 580 cod. pen., provvedendo direttamente essa stessa alla verifica, nel caso di specie, delle condizioni che consentono l’accesso all’aiuto al suicidio.
Con la sentenza 242/2019, la Corte ha rinnovato l’invito al Parlamento ad apportare al più presto le dovute modifiche alla normativa vigente. Ferme le condotte di determinazione e di rafforzamento del proposito, il rigore dell’art. 580 cod. pen. va attenuato con riguardo all’agevolazione dell’esecuzione, nelle situazioni descritte sopra. Non si può punire un comportamento che, assolutamente disinteressato e gratuitamente altruistico, non impedisca o anche aiuti il malato ad attuare di sua propria mano la sua ferma volontà.
“Di sua propria mano”, è questo il punto che segna la differenza tra l’azione ultima e decisiva propria della persona malata e l’azione, invece, di soggetti terzi, medici o altri, che non si limiti a prestare aiuto al gesto di chi lo richieda, ma provochi essa stessa la morte. In altre parole ben ferma è la distinzione tra aiuto al suicidio e omicidio del consenziente. Il valore della vita umana eleva il non uccidere a principio fondamentale della nostra civiltà.
Nel delineare i tratti di un possibile intervento normativo, tuttavia, la Corte lamenta che la nostra normativa non consente al medico che ne sia richiesto di mettere a disposizione del paziente trattamenti diretti a determinarne la morte. Parlando di “somministrazione da parte del medico di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte” e, auspicandone la previsione in sede di modifica legislativa, la Corte, pur rimanendo formalmente entro il confine dell’aiuto al suicidio, sembra accomunarvi la diversa e distinta fattispecie dell’omicidio del consenziente.
Ecco che, sebbene auspicabile un intervento normativo in materia, il compito del legislatore appare estremamente delicato, non dovendo superare il confine “dell’agevolazione dell’esecuzione del suicidio” per precipitare in quello della “diretta causazione della morte ad opera di un terzo” ovvero “dell’omicidio del consenziente”. Il rifiuto o la richiesta di sospendere definitivamente un trattamento salvavita, come anche l’aiuto, da parte di un terzo, a concretizzare la volontà consapevole e fortemente perseguita del malato di porre fine alla propria esistenza, è senza dubbio cosa ben diversa dalla richiesta di ricevere direttamente la morte per mano di altri.
In conclusione, dalla disamina fatta emerge, dunque, che l’art. 580 cod. pen. conserva una precisa e fondamentale funzione: tutelare la vita umana, in particolare la vita delle persone più vulnerabili e deboli. Se, però, i divieti di istigazione e di rafforzamento del proposito di suicidio rimangono ben saldi, la figura dell’agevolazione della materiale esecuzione va inevitabilmente vista alla luce dell’intervento della Corte costituzionale.
Pur se il nostro ordinamento continua a vedere il suicidio non come un diritto soggettivo, ma una mera libertà di fatto e comunque un evento da scongiurare, dovendo adoperarsi, fin dove possibile, per superare o quantomeno attenuare le sofferenze fisiche e psichiche del malato che lo portano talvolta a desiderare un tale esito nefasto, non può accettarsi l’inflizione di una pena per qualsiasi aiuto o assistenza al suicidio, laddove questo sia voluto dal malato, la cui capacità di decisione sia accertata, e ostinatamente perseguito fino all’ultimo istante di vita.
Il legislatore, dunque, come sollecitato dalla Corte costituzionale, è chiamato a rivedere l’art. 580 cod. pen., cosicché non sia punibile un aiuto assolutamente disinteressato e gratuito a chi insista a voler porre fine anzitempo alle proprie sofferenze, previa certificazione medica della irreversibilità della patologia e delle condizioni fisiche e mentali del paziente. Tutto ciò ribadendo con forza la netta distinzione tra aiuto al suicidio e omicidio del consenziente, inteso quale causazione immediata della morte da parte del medico o di altri mediante la diretta somministrazione al soggetto malato di un farmaco o in altro modo.
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Francesca Di Mezza
Laureata in Giurisprudenza presso l’Università “Federico II” di Napoli con votazione 110/110, discutendo una tesi in procedura penale dal titolo “L’uso processuale dell’interrogatorio dell’indagato”. Ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Napoli e ha conseguito il titolo di avvocato. Ha frequentato corsi di approfondimento post lauream.
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