La contenzione non è atto medico. Cassazione sul sequestro di persona
La contenzione fisica del paziente psichiatrico non è un atto medico, non può quindi essere invocata la scriminante dell’articolo 32 della Costituzione.
Lo dice con chiarezza la Corte di Cassazione (sent. 5049/2018), nelle motivazioni con cui conferma la condanna per sequestro di persona nei confronti di medici e infermieri che ebbero in cura, nell’ospedale di Vallo della Lucania (in provincia di Salerno), il maestro elementare Franco Mastrogiovanni.
Il suo è un caso simbolo, portato alla ribalta nazionale dalla diffusione dei video di una contenzione durata 83 ore e conclusasi con la morte del paziente. Era il 2009, Franco Mastrogiovanni aveva 58 anni. Rimase immobilizzato al letto nonostante le richieste di aiuto, eppure le sentenze di merito hanno ricostruito che quando fu legato (poco dopo il ricovero in Tso) non era non era aggressivo, non si agitava e nemmeno aveva rifiutato la terapia. Fu legato – ribadisce la Cassazione – per consentire ai carabinieri un prelievo di urina di cui la sentenza sancisce l’illegittimità, e lì fu lasciato per quasi quattro giorni senza un monitoraggio delle sue condizioni.
Per la Corte non vi è alcun dubbio che quella condotta abbia configurato un sequestro di persona (art. 605 c.p.) e nelle motivazioni spiega, tra l’altro, perché non è condivisibile la tesi degli imputati, i quali hanno invocato la scriminante costituzionale dell’art. 32 Cost. attribuendo alla contenzione una finalità di tutela della salute e dell’incolumità fisica del paziente.
Il sequestro di persona. “L’atto medico – spiega la Corte – gode di una diretta copertura costituzionale non perché semplicemente frutto della decisione di un medico, ma in quanto caratterizzato da una finalità terapeutica”.
Invece l’uso della contenzione meccanica non ha né una finalità curativa né produce l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente, “svolgendo una mera funzione di tipo cautelare, essendo diretto a salvaguardare l’integrità fisica del paziente, o di coloro che vengono a contatto con quest’ultimo, allorquando ricorra una situazione di concreto pericolo per l’incolumità dei medesimi”.
Prima ancora della legge Basaglia (l. 180/78) , osservano i giudici, c’era già un regio decreto del 16 agosto 1909 (regolamento sui manicomi) a imporre che la contenzione fosse adottata solo come extrema ratio e in casi “assolutamente eccezionali”.
Agli imputati, che in linea di principio rivendicavano come sempre lecito l’uso della contenzione in quanto funzionale al trattamento, la Corte replica con un’impostazione che ritiene lecito l’uso della contenzione meccanica solo al ricorrere delle condizioni di cui all’art. 54 c.p., “allorquando sussista una concreta situazione di pericolo attuale di grave danno alla persona (del paziente o di coloro che con lui interagiscono durante la degenza), non altrimenti evitabile e rispondente al criterio di proporzionalità”.
La sentenza ricorda inoltre che “ai fini dell’integrazione dell’esimente dello stato di necessità, occorre che il pericolo di un grave danno sia attuale ed imminente o, comunque, idoneo a far sorgere nell’autore del fatto la ragionevole opinione di trovarsi in siffatto stato, non essendo all’uopo sufficiente un pericolo eventuale, futuro, meramente probabile o temuto. Si deve trattare di un pericolo non altrimenti evitabile sulla base di fatti oggettivamente riscontrati e non accertati solo in via presuntiva. Dunque – si aggiunge – occorre, in primo luogo, che la situazione di pericolo sia attuale. Questo vuoi dire che non è assolutamente ammissibile l’applicazione della contenzione in via “precauzionale” sulla base della astratta possibilità o anche mera probabilità di un danno grave alla persona, occorrendo che l’attualità del pregiudizio risulti in concreto dal riscontro di elementi obiettivi che il sanitario deve avere cura di indicare in modo puntuale e dettagliato”.
La Corte sottolinea che la valutazione dell’attualità del pericolo richiede un costante monitoraggio del paziente (non solo al momento dell’applicazione della contenzione ma anche ai fini del suo mantenimento), e rileva che nel caso di specie non solo questo monitoraggio non ci fu, ma la contenzione non fu nemmeno annotata in cartella clinica. La si scoprì solo dopo la morte del paziente, quando i familiari di Mastrogiovanni presentarono denuncia e l’autorità giudiziaria visionò i filmati delle telecamere collocate in reparto. Le risultanze processuali hanno poi consentito di affermare che, lungi dall’essere adottato come extrema ratio, il ricorso alla contenzione era nel reparto psichiatrico di Vallo della Lucania “quasi un automatico complemento del ricovero in psichiatria, costituendo una sorta di protocollo tacito applicato in maniera indistinta”. Da qui la pronuncia di condanna, in quanto “il medico ed il personale sanitario che applicano la contenzione prescindendo dalla rigorosa osservanza dei presupposti richiesti dall’art. 54 cod. pen. sottopongono il paziente ad una illegittima privazione della libertà personale, così integrando gli estremi del delitto di cui all’art. 605 c.p.”.
Le esigenze investigative. Altro spunto di riflessione la sentenza lo offre sulle cosiddette esigenze investigative. Le fascette di contenzione ai quattro arti furono applicate al paziente Mastrogiovanni mentre dormiva, per applicargli un catetere urinario allo scopo di soddisfare la richiesta dei carabinieri di sottoporlo a un prelievo con cui verificare se si fosse messo alla guida sotto l’effetto di stupefacenti.
Ebbene, oltre a confutare la tesi secondo cui la contenzione fu poi mantenuta perché il paziente era agitato (i movimenti inconsulti furono in realtà tentativi di liberarsi dalla costrizione e dalle sofferenze che ne derivavano) i giudici della Corte di Cassazione sottolineano pure come fu la stessa genesi del provvedimento ad essere illegittima.
Il medico, si legge in sentenza, “ha disposto che fosse sacrificata la libertà personale del paziente allo scopo di assecondare una esigenza investigativa che non trova alcuna tutela nel nostro ordinamento. Il prelievo presuppone sempre il consenso del paziente. Ad esempio, la normativa in tema di alcool-test prevede che un soggetto possa rifiutarsi di sottoporsi all’esame del tasso alcoolemico, pur derivando da tale rifiuto una specifica ipotesi di reato (art. 186, comma 7° Codice della Strada), non potendosi, invece, procedere coattivamente nei confronti del soggetto che si oppone all’accertamento.
Del resto, anche la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 238 del 1996, ha ritenuto illegittimi i prelievi coattivi invasivi, così discostandosi dal proprio precedente (sentenza n. 54/1986), in cui aveva giudicato costituzionalmente legittimi gli stessi accertamenti coattivi ove la restrizione della libertà fosse finalizzata all’attuazione della giustizia penale. Né può giustificarsi una diversa disciplina – anzi a maggior ragione il prelievo si appalesa illegittimo – solo perché il Mastrogiovanni, trovandosi in una situazione di incapacità, non era in grado di prestare consapevolmente il proprio consenso”.
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Clementina De Maio
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