La continuazione tra reati in rapporto alla recidiva, al nesso teleologico e all’art. 131-bis c.p.

La continuazione tra reati in rapporto alla recidiva, al nesso teleologico e all’art. 131-bis c.p.

Disciplinata all’art. 81 c.p., la continuazione fra reati è definita dalla giurisprudenza di legittimità come un istituto “multifocale” per la sua natura, al contempo, unitaria e pluralista.

E’ proprio dalla capacità della continuazione di comporsi, ora, come reato unico, ora, come  plurimi reati autonomi che, rapportata con figure quali la recidiva ex art. 99 c.p., l’aggravante teleologica ex 61, n. 2 c.p. nonché la causa di non punibilità del particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p., la risoluzione del rapporto assumerà curvature differenti in base alla tesi cui si accederà.

Procedendo per gradi, la continuazione fra reati si sostanzia in un particolare concorso materiale di reati con il quid pluris strutturale dell’unicità del disegno criminoso ma, formalmente, veste il regime sanzionatorio del concorso formale di reati.

Per meglio esplicare quanto detto, la continuazione viene a configurarsi allorquando un soggetto, attraverso il compimento di più condotte attive o omissive, esecutive del medesimo progetto delinquenziale, realizza più violazioni della stessa fattispecie legislativa ovvero di plurime disposizioni normative; in tal caso, il reo gioverà, in deroga al regime del cumulo materiale, del trattamento più benevole di cui al comma 1 dell’art. 81 c.p., soggiacendo alla pena irrogata per la violazione più grave aumentata fino ad triplo (cumulo giuridico).

Invero, è proprio nel calcolo della pena che si rinviene il punto di contatto tra l’istituto della continuazione fra reati e il concorso formale di reati che finiscono, poi, per divenire rette parallele viaggianti su binari strutturali e probatori assai distanti: infatti, nel processo, spetterà al giudice qualificare un concorso formale di reati, laddove, si avvede che il soggetto agente abbia con una sola azione o omissione commesso più violazione; diversamente, innanzi alla reiterazione di condotte realizzatrici di più violazioni, per poter usufruire della pena più favorevole, sul reo incomberanno oneri probatori maggiormente pregnanti.

Messa in questi termini la questione, si comprende che tra i tratti strutturali caratterizzanti il reato continuato si ravvisa il compimento di una pluralità di azioni (o omissioni), con la precisazione che una disquisizione puramente dottrinale ammette la configurazione della continuazione anche in presenza di un’unica azione integrante la realizzazione di più eventi di reati, purché  il reo dimostri la sussistenza a monte del progetto criminoso.

Premesso ciò, la disciplina dell’istituto in esame scorge le sue fondamenta nell’architettura del codice Rocco che, con il suo rigore, permetteva il riconoscimento della continuazione solo quando le condotte erano lesiva della stessa disposizione di legge.

Quello che era il reato continuato omogeneo, però, con il passare degli anni, aveva finito per vivere uno stato di fibrillazione applicativa dovuta alla frammentazione normativa: si pensi al caso in cui, diverse condotte integranti fattispecie di reati affini (es. più condotte di falso, in atto pubblico, in certificato), sebbene, avvinte da un’unica ragione giustificativa, finivano per sottostare al regime del cumulo materiale.

Solo con la primavera del 1974, il decreto legge n. 99 diede voce a questa istanza, allargando le maglie applicate della continuazione, ne permise la configurabilità anche in ipotesi di lesione di beni eterogenei, protetti da differenti norme di legge.

Ad oggi, quindi, il contrassegno distintivo della continuazione si scruta attraverso il requisito del medesimo disegno criminoso, quale quid pluris strutturale: è solo comprendendo la consistenza di tale indice che si potrà, fin in fondo, cogliere la ratio di favor perseguita da un legislatore attento ad un diritto penale più umano che, al cospetto di un reo autore di più reati, impone all’organo giudicante di mitigarne la sanzione.

Infatti, non è mancato chi in dottrina ha intravisto un’intima contraddizione nel richiedere un’aggiunta di un elemento di struttura all’atipico concorso materiale di reati, il medesimo disegno criminoso, che, al contempo, è capace di giustificare l’attenuazione della risposta sanzionatoria.

Invero, la presenza del requisito in parola sarebbe sintomatico di un giudizio di minor riprovevolezza che può muoversi nei confronti del soggetto agente, colpevole di aver ceduto, una e una sola volta, alla passione delinquenziale e, spinto da un unico motivo a delinquere, riprendendo il pensiero di autorevole dottrina, sarebbe agevolato nel percorrere una strada già percorsa.

Compresa l’importanza rivestita dall’unicità del progetto criminoso, diverse dottrine hanno cercato di chiarirne l’essenza contenutistica.

E’ da ritenersi, certamente, superata quella parte della dottrina che riteneva sussistere la medesimezza del disegno delinquenziale ogniqualvolta vi fosse una pluralità di violazioni omogenee.

Con la riforma del 1974, come accennato in precedenza, la continuazione tra reati ha una natura anfibia, configurandosi sia quando la lesione è omogenea, sia quando la lesione è eterogena.

Allora, su un diverso fronte si è schierato l’orientamento secondo il quale la mera rappresentazione della pluralità dei fatti di reato da parte dell’agente sarebbe requisito sufficiente al delinearsi di un medesimo disegno.

Sulla scorta di questa tesi, ben si potrebbe sostenere che il giudice possa ritenere in continuazione  ipotesi di reati aggravati da colpa cosciente, in cui vi è una rappresentazione, sebbene probabile, dell’evento di reato.

In realtà, la dottrina maggioritaria ritiene necessario ma non sufficiente il solo requisito della rappresentazione per definire la medesimezza del disegno criminoso che deve sorreggersi su un intento già prefissato, unico e voluto, tale da poter giustificare un impoverimento della sanzione.

Ecco che, allora, si comprende che l’ambito applicativo della continuazione esclude dalla sua portata le ipotesi di delitti e contravvenzioni colpose, essendo la violazione di regole di prudenza, negligenza o imperizia, privi della volontà e della coscienza alla base della costruzione dell’intento unico criminoso.

Sulla scia di queste precisazioni, l’orientamento prevalente ritiene che il requisito in questione venga a configurarsi quando, oltre la rappresentazione dei fatti di reato ed il momento deliberativo, in cui il reo dà voce alle sue istanze volitive, lo stesso agirà legato ad un unico filo di Arianna, il cd. nesso di finalizzazione: in tal senso, le azioni premeditate e volute dall’agente, ognuna retta da un proprio coefficiente psicologico, troveranno un minimo comune denominatore nello scopo che lo ha spinto a porsi contro i precetti dell’ordinamento penale, facilitandogli il compimento di ulteriori reati.

Sebbene, si è potuto evidenziare l’importanza del requisito strutturale del medesimo disegno criminoso, deve darsi atto che nell’ordinamento sono presenti ipotesi in cui si prescinde dalla valutazione dello stesso: si pensi al caso della continuazione dichiarata in tema di responsabilità penale degli enti ovvero al caso della continuazione fallimentare di cui all’art. 219, comma 2, lett. 1 L. Fall., salvo che non si voglia, in quest’ultimo caso, ritenere il medesimo fallimento quale progetto criminoso in senso figurato.

Dopo aver delineato i tratti essenziali della figura della continuazione, analizzata la ratio giustificativa e scomposti gli elementi strutturali che la compongono, resta da vagliare il punto cruciale su cui, tutt’oggi, dottrina e giurisprudenza continuano a scontrarsi, anche a causa di un legislatore che con le recenti riforme sembra averne alimentato le dispute: è il problema circa la natura giuridica della fattispecie continuata.

Si discute se la continuazione deve essere configura come reato unico ovvero come una sommatoria di plurimi reati, ognuno con una propria autonomia ontologica: lungi dall’essere una mera disquisizione dogmatica, la risoluzione del problema ha importanti risvolti sul piano pratico.

Infatti, si pensi in tema del computo della pena, di circostanza, di prescrizione, di cause di esclusione della pena e del reato.

La prevalente opzione ermeneutica propende per assegnare all’istituto una natura “multifocale” per cui i reati avvinti dalla continuazione sono da considerarsi come unico ovvero mantengono la propria autonomia in base agli effetti favorevoli che possono esplicare, in modo da far beneficiare il reo del trattamento più benevolo della continuazione, salvo che il legislatore non preveda disposizioni esplicite in merito.

Certamente, il reato continuato sarà considerato una unificazione di reati ai fini del computo della pena principale che, come si desume dalla lettera della norma, si infliggerà la violazione (in astratto) più grave aumentata, attraverso una moltiplicazione progressiva, sino al triplo.

Alla stessa unicità di reato si potrà giungere, ad esempio, anche in tema di sospensione condizionale della pena; diversamente, i reati avvinti dal vincolo continuativo saranno considerati nella loro pluralità ai fini dell’applicazione dei provvedimenti dell’amnistia impropria e dell’indulto nonché in tema di circostanze, in cui l’elemento circostanziale andrà ad aggravare o attenuate il singolo reato cui accede.

Proprio in tema di circostanze, la giurisprudenza e la dottrina hanno dialogato in merito alla possibile compatibilità tra la continuazione fra reati e recidiva ex art. 99 c.p.

Ritenuto superato l’orientamento antecedente alla riforma del 1974, sulla scia del quale la recidiva era un mero status del soggetto, oggi, come si desume anche dalla lettura degli artt. 70 c.p. e 69 c.p., si configura come  circostanza di natura soggettiva che prevede un aggravamento della pena fino ad un terzo per il reo, già condannato con sentenza passata in giudicato, il quale ricade nel compimento di un nuovo delitto non colposo.

Ribadita a più riprese dalla giurisprudenza di legittimità e dalla Corte Costituzionale, la facoltatività della recidiva, così come novellata dalla L. n. 251 del 2005, il giudice gode di un’ampia discrezionalità nel ritenerla e applicarla, dopo aver accertato la sussistenza dei precedenti penali di cui il reo deve avere conoscenza o conoscibilità e dopo aver valutato che la commissione di un nuovo delitto non colposo sia indice di maggiore colpevolezza e pericolosità sociale del reo, tale da giustificarne un aumento in chiave sanzionatoria.

E’ proprio partendo dalla ratio di sfavore della recidiva che una prima opzione ermeneutica riteneva una sorta di incompatibilità logica con la minor riprovevolezza dei reati compiuti in continuazione, in cui il reo gode di una trattamento di maggior favore.

Invero, questa parabola ricostruttiva, secondo l’orientamento più moderno, sarebbe frutto di una influenza ancora forte che continua a delineare la recidiva come uno status del soggetto agente.

Sulla scorta di questa critica, la tesi prevalente, partendo dall’aderire alla giurisprudenza maggioritaria che ritiene la continuazione quale sommatoria di plurimi reati avvinti dal vincolo continuativo e, sottolineando la natura circostanziale della recidiva, non trovano ostacoli di incompatibilità tra la previsione dell’aumento della recidiva e la pena più attenuata della continuazione.

Infatti, come accade in tema di circostanza, la recidiva andrà ad aggravare il singolo reato cui accede, salvo poi procede per l’irrogazione della pena complessiva dei reati avvinti dalla continuazione con il cumulo giuridico.

In realtà, una parte della dottrina aveva suggerito come indice sintomatico della compatibilità tra i due istituti in esame, il nuovo comma 4 dell’art.81 c.p., introdotto dalla L. Cirielli, il quale prevede un aumento fisso non inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave, qualora i reati in esecuzione del medesimo disegno criminoso siano commessi da un soggetto dichiarato recidivo reiterato ex art. 99, comma 4, c.p.

Ebbene, leggendo attentamente il dato normativo, non sarebbe ausiliare nel risolvere i rapporti intercorrenti tra recidiva e continuazione, in quanto porta in serbo una ipotesi in cui il soggetto è già stato dichiarato recidivo, non essendo risolutore nel caso in cui la recidiva deve essere applicata nello stesso processo in cui deve essere ritenuta la continuazione.

Proprio il comma 4, dell’art. 99 c.p. ha suscitato accesi dibatti in seno alla giurisprudenza di legittimità, allorquando la recidiva veniva ritenuta e applicata dal giudice ma, in seguito al giudizio di bilanciamento, finiva per essere equivalente alle circostanze attenuanti, non potendo produrre l’effetto primario dell’aumento della pena.

Sul punto, si è discusso se, in tal caso, essendo stata la recidiva ritenuta e applicata dal giudice, potesse comunque produrre gli ulteriori effetti secondari ad essa riconnessi, tra cui l’aumento fisso previsto dall’art. 81, comma 4.

La questione ha fatto sorgere molteplici orientamenti dalle visione estremamente opposte ma, sulla scorta dell’insegnamento della sentenza “Calibè”, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha ribadito che la recidiva riconosciuta dal giudice ma ritenuta equivalente alle attenuanti, ha forza cogente di esplicare gli altri effetti, tra cui l’aumento di pena previsto dall’art. 81, comma 4.

Un discorso speculare a quello appena condotto, può farsi in tema di rapporto tra aggravante teleologica ex art. 61, n.2 c.p. e continuazione.

La circostanza del nesso teleologico prevede un aggravamento della pena quando un soggetto, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, commette un reato per eseguirne o per occultarne un altro; nella seconda parte del n. 2 dell’art. 61 c.p. è disciplinato il nesso conseguenziale attraverso il quale il reo commette un reato al fine di conseguire l’impunità o il profitto e, in questo caso, la presenza dell’unicità del disegno criminoso è del tutto eventuale.

Se si osserva la struttura del nesso teleologico, si nota una architettura del tutto simmetrica alla costruzione della continuazione, con l’unico discrimen del differente ruolo giocato dal medesimo disegno criminoso: nel primo caso (nesso teleologico), è sintomatico di maggior colpevolezza del reo tale da aggravare la cornice edittale del reato; nel secondo caso, il disegno criminoso dei reati eseguiti in continuazione ha forza pregnante di depauperare la sanzione.

Sulla scorta di questa ricostruzione, parte degli studiosi intravedeva un concorso apparente di norme tra l’art. 81 c.p. e l’art. 61, n.2 c.p., in quanto apparentemente conducevano a disciplinare un medesimo fatto, prevedendo conseguenze opposte.

Per questo motivo, si è suggerito di risolvere i rapporti di compatibilità tra i due istituti in esame, ricorrendo al criterio di specialità ex art 15 c.p.: proseguendo in tal senso, alcuni hanno ritenuto speciale l’art. 61, n.2 c.p. rispetto all’art.81 c.p., stante la maggiore portata applicativa; altri hanno, invece sostenuto che l’art. 81 c.p. sarebbe speciale rispetto all’art. 61, n.2 c.p. perché introdotto successivamente ne avrebbe comportato una tacita disapplicazione.

Ebbene, ancora una volta la soluzione del problema di compatibilità tra continuazione e nesso teleologico si dovrà risolvere senza chiamare in causa il criterio di specialità e il concorso apparente di norme ma accedendo alla tesi della pluralità autonoma dei reati avvinti dal vincolo continuativo, al contempo, evidenziando la natura circostanziale dell’aggravante teleologica nonché del nesso conseguenziale (qualora sia presente il medesimo disegno criminoso).

Pertanto, si procederà all’aumento del singolo reato in cui la circostanza aggravante del nesso teleologico viene a configurarsi e, solo dopo, si procederà con il calcolo della pena per la violazione più grave aumentata fino al triplo.

Resta, infine, da vagliare la compatibilità tra la continuazione tra reati e la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p., inserito nel tessuto normativo del codice dalla novella legislativa n. 28 del 2015.

Il legislatore, ispirato ad intenti deflattivi e in ossequio ad una visione di un sistema penale maggiormente attento ai canoni di offensività, proporzionalità e sussidiarietà, attraverso l’art. 131-bis c.p., permette al giudice di pronunciare sentenza di proscioglimento, quando innanzi ad un fatto tipico, colpevole e antigiuridico, l’offesa è di particolare tenuità da non ritenersi necessaria l’irrogazione della pena prevista.

Tra i limiti ostativi al riconoscimento della causa di non punibilità, il terzo comma dell’art. 131-bis c.p. esclude i reati che hanno ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterale.

Sulla scorta di questo dato normativo, un primo approccio giurisprudenziale ha avanzato l’ipotesi che il reato continuato dovesse rientrare in un caso di condotte abituali e, pertanto, sarebbe preclusa l’applicazione della causa di non punibilità di cui si sta discutendo.

La tesi in parola, come evidenziato da un secondo orientamento, nasconde al suo interno una intima criticità, concedendo al reo, da un lato, di beneficiare del trattamento favorevole dell’art.81 c.p. ma, dall’altro, di non godere dell’applicabilità dell’art. 131-bis, in netta contrapposizione alle ragioni di politica criminale che hanno ispirato l’introduzione della norma.

Per questa ragioni, l’evoluzione degli approcci giurisprudenziali è incline a ritenere il pronunciamento di una sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto anche ad un soggetto che ha compiuto reati avvinti dal vincolo continuativo, purché se ne valuti la compatibilità nel caso concreto.

A fare da mediatore tra le due tesi, è intervenuto un altro orientamento dei giudici di legittimità che propendere per la configurazione dell’art. 131-bis c.p. ai reati in continuazione, se compiuti in un arco temporale assai ristretto da elidere l’abitualità della condotta e, aggiungono, se rivolti a ledere il medesimo bene protetto.

Invero, si potrebbe ritenere di escludere aprioristicamente la possibilità di dichiarare la particolare tenuità del fatto ad un reato continuato, qualora si acceda alla natura unitaria di un unico reato composto da condotte plurime.

La tesi in parola potrebbe trovare larghi spazi applicativi, specie in seguito alla recente riforma in materia di prescrizione, la L. n. 3/2019, che, aderendo alla natura unica del reato continuato, fa decorrere il tempo utile per la prescrizione del reato solo al compimento dell’ultimo reato avvinto dal vincolo continuativo.

Come si nota, in dottrina e in giurisprudenza non vi è ancora un indirizzo unitario e stabile che conduce a chiarire in modo definito il rapporto intercorrente tra la continuazione e l’art. 131-bis c.p.

Infatti, leggendo il comma 3 dell’art. 131-bis, il quale esclude l’applicazione della causa di non punibilità quando il soggetto ha compiuto reati della stessa indole, una dottrina più attenta ha ritenuto che, innanzi ad un reato continuato omogeneo, in cui le violazioni sono lesive di una stessa disposizione legislativa, si ricadrebbe nel divieto di cui al comma 3; diversamente, nulla osterebbe, invece, all’applicazione del 131-bis ad un reato continuato eterogeneo, il cui le lesioni sono eterogenee.

Anche questa visione dottrinale sembra, però, tralasciare il dato testuale dell’art. 101 c.p. che nel definire “reati della stessa indole”, include non solo quelli che violano una medesima norma legislativa ma anche le violazioni leggi che, nei casi concreti, presentano caratteri comuni sia per la natura dei fatti che per i motivi che li determinato, potendo, quindi, includersi nel divieto di cui al comma 3, art. 131-bis anche casi di reati continuati eterogenei che per le modalità dell’azione e dell’omogeneità concreta dell’azione ledono gli stessi beni giuridici.

Qualora, invece, si volesse abbracciare la tesi maggiormente appoggiata in giurisprudenza che, come più volte ribadito, suggerisce di considerare la continuazione fra reati come singoli reati, ogni volta che da questa valutazione pluralista il reo potrebbe trarne effetti benefici, si potrebbe considerare che l’applicabilità dell’art.131-bis va valutata per ogni singolo reato compiuto in continuazione.


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