La corruzione tra privati: riflessioni di fondo sull’esperienza normativa e giurisprudenziale italiana
Sommario: Introduzione – 1. Le condotte caratterizzanti l’illecito corruttivo in ambito societario e la necessità di adottare un codice etico ed organizzativo ispirato a dei modelli di tutela penale – 2. La disciplina italiana dell’art.2635 c.c e l’influsso della normativa sovranazionale: una coesione necessaria – 3. Il regime di procedibilità a seguito della Legge “spazzacorrotti” (L. n. 3/2019): interventi di politica criminale – 4. Brevi riflessioni conclusive de iure condito in ordine sulla sentenza n. 100 del 24.01.2018 Tribunale di Ancona, rispetto alla sentenza n. 952 del 6/6/2013 Tribunale di Udine ed alla luce della Legge n. 3/2019.
Introduzione
L’esigenza di contrastare il fenomeno della corruzione tra privati è, ormai, da tempo al centro del dibattito giuridico italiano[1], essa trae origine da richieste ed impegni governativi sovranazionali già a partire dal 2002. La repressione dei fatti di “infedeltà a seguito della dazione o promessa di utilità “ ora rubricata “corruzione tra privati”, commessa da persona fisica o giuridica operante nel settore privato, è stata introdotta nel nostro ordinamento dall’art. 1 del DLgs n.61/2002, che ha riformato il diritto penale societario, con la previsione, fra l’altro, dell’art. 2635 c.c.[2], che sanziona penalmente i comportamenti corruttivi realizzati nell’ambito dell’attività d’impresa privata. La norma è stata revisionata sia nel 2012, con la legge n.190 del 6/11/2012, in attuazione della Convenzione di Strasburgo del 1999, che nel 2017, con il D.Lgs n.38/2017. Un’altra riforma dell’art. 2635 c.c. è stata operata dalla ormai nota Legge “Spazzacorrotti”, la n. 3 del 9 gennaio 2019 [3], la quale ha statuito la procedibilità del reato non più a querela ma d’ufficio, che in precedenza era prevista solo nel caso in cui la condotta illecita avesse determinato una “distorsione della concorrenza”. Orbene, prima di affrontare la questione della procedibilità e le novità introdotte dal Legislatore, nonchè dalla Giurisprudenza penale, che si è trovata ad affrontare la questio iuris, appare opportuno fornire al lettore una disamina, per quanto possibile, completa della materia, scandendo l’evoluzione del fenomeno normativo e la sua portata pratica. Va subito chiarito che, in generale, la corruzione costituisce un fenomeno delinquenziale articolato e complesso che, nel tempo, ha subito una profonda trasformazione, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, passando da rara manifestazione discontinua, a vero e proprio fenomeno politico-commerciale sistemico. Sotto il profilo quantitativo, tale delitto non è più un fenomeno saltuario, ma tende ad essere di larghissima diffusione, sia a livello statale che locale. Dal punto di vista qualitativo, invece, la corruzione giunge a coinvolgere sia i vertici amministrativi e politici delle istituzioni, e sia i vertici di grandi enti economici e persino delle imprese private, tanto che la sua metamorfosi ha indotto un significativo mutamento anche del disvalore delle condotte criminose e del “bene giuridico” leso. Ad essere meritevole di protezione penale, non è più soltanto il buon andamento e l’imparzialità della “res publica”, ma l’intero comparto socio-economico della Nazione, specie se ad essere coinvolte nei fenomeni corruttivi sono le medio-grandi imprese.
1. Le condotte caratterizzanti l’illecito corruttivo in ambito societario e la necessità di adottare un codice etico ed organizzativo ispirato a dei modelli di tutela penale
Negli ultimi decenni, si è diffusa, sempre di più, nella comunità dottrinale l’opinione secondo cui, accanto alle tradizionali condotte ascrivibili al fenomeno della corruzione “pubblica”, anche i comportamenti corruttivi nel settore privato – di tipo societario- siano caratterizzati, da un disvalore tale da giustificare la loro rilevanza penale[4]o, comunque, imporre una rivalutazione critica del modo di fare impresa. Le condotte de quibus, peraltro, pur caratterizzate da notevoli differenze, sono circoscrivibili in due distinte macro-categorie, accomunate dal fatto che esse avvengano nell’ambito di aziende o imprese con finalità commerciali. E’ possibile, dunque, analizzare due profili, o per meglio dire condotte, corruttivi: la corruzione del concorrente[5], che coinvolge i soggetti apicali dei complessi societari ed aziendali e implica la commissione di condotte “infedeli” e produttive di conseguenze pregiudizievoli alla propria impresa da parte dell’intraneus corrotto, il quale, in cambio di un corrispettivo per sé o per altri, agisce a vantaggio di un’azienda concorrente; la corruzione del fornitore[6], che invece coinvolge di regola soggetti non collocati al vertice dell’organigramma dell’ente e/o società, le cui condotte, seppure “infedeli”, non sempre producono effetti economicamente pregiudizievoli al tessuto imprenditoriale coinvolto. Tali episodi corruttivi, a prescindere dall’apicalità o meno rivestita dall’agente, spesso ledono economicamente due ulteriori categorie di soggetti portatori di interessi meritevoli di tutela, e cioè, da un lato, le imprese concorrenti, pregiudicate dall’accordo corruttivo, e, dall’altro, i consumatori, quali destinatari dei prodotti o dei servizi erogati dall’impresa “corrotta”. Dai due profili analizzati, specie per la corruzione del fornitore, emerge, in concreto, che l’azienda potrebbe sopportare tale fenomeno, per evitare l’attenzione del pubblico su fatti interni di mala gestio e, addirittura, traendone vantaggio, potrebbe addirittura favorirlo, sulla base di una consapevole politica d’impresa. In funzione delle riforme, i reati, oggi, sono più facilmente contestabili quanto meno nella fase embrionale del procedimento incardinato, salvo poi non ottenere elementi utili a sostenere una eventuale accusa in giudizio. Da qui però ne deriva la necessità per le aziende di tutelarsi dalla possibilità che il proprio organico – di vertice- ponga in essere comportamenti antigiuridici, di cui alla fattispecie in esame. Forme di tutela sono, senza dubbio, l’adozione di un modello redatto ex D.Lgs n.231/2001, con nomina di un Organismo di Vigilanza, la programmazione di attività formativa dei dipendenti, l’adozione di policy e procedure aziendali ai fini preventivi, dunque, un codice etico aziendale ed un modello organizzativo fondato sulla riduzione del rischio di corruttibilità, orientando l’attività produttiva verso modelli sempre più consapevoli di corporate social responsibility, termine adottato nella comunicazione della Commissione Europea del 25 ottobre 2011 n. 681). Tenuto conto delle caratteristiche del fenomeno de quo, i due principali modelli di tutela penalistica cui si potrebbe ispirare un codice etico ed organizzativo, per orientare la gestione verso comportamenti anti-corruttivi nel settore extra-pubblico, potrebbero essere: il Modello “privatistico”[7], nel quale i beni giuridici protetti sono di natura individuale, tutelati da norme incriminatrici la cui rilevanza penale è incentrata sulla lesione o sulla mera messa in pericolo del patrimonio dell’ente; il Modello “pubblicistico”[8], nel quale i beni giuridici tutelati, invece, appartengono a soggetti esterni alle aziende, in quanto la lesione seppur coinvolge i vertici aziendali, dunque si consuma all’interno dell’azienda, ha un grado di incidenza notevole sulla libera concorrenza del mercato economico.
2. La disciplina italiana dell’art.2635 c.c e l’influsso della normativa sovranazionale: una coesione necessaria
L’Italia, in coerenza con le prescrizioni fornite dall’ Europa ed in attuazione delle misure sovranazionali, ha profuso un particolare impegno per contrastare il fenomeno della corruzione, sia in ambito privatistico che pubblicistico. Invero, il Legislatore Italiano penale ha mostrato dubbi e resistenze verso la corruzione tra privati, sebbene venisse percepita dalle fonti sovranazionali come un grave strumento di alterazione della concorrenza, tant’è che le relative condotte, fino al 2002, erano penalmente irrilevanti. È stato, infatti, il D.lgs. n. 61/2002[9] ad introdurre, seppur in parziale difformità dalle direttive sovranazionali, per la prima volta nel nostro ordinamento un illecito ad hoc, disciplinato dall’art. 2635 c.c., oggetto, peraltro, di successivi interventi legislativi, che hanno determinato l’assetto normativo attuale e che suscita, ancora, molteplici criticità interpretative. Il Legislatore Italiano, solo nel 2017, al fine di evitare una procedura di infrazione, è intervenuto nuovamente sulla disciplina risultante dalla riforma del 2012 a seguito della pubblicazione nella Gazzetta Europea, della relazione dell’Unione Europea sulla lotta alla corruzione – Allegato sull’Italia della Relazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo del 3 febbraio 2014 – che riconosceva la non piena conformità del disposto dell’art. 2635 c.c. agli obblighi stabiliti nella decisione quadro n. 2003/568/GAI[10]. Ad essere mutato, rispetto al passato, è stato principalmente- ma non solo- il cd. doppio passaggio causale, ovvero la dazione di utilità- precedentemente- doveva determinare, nel rapporto causa-effetto, il compimento/omissione dell’atto illecito, in violazione dei doveri, ed a sua volta, quest’ultimo doveva cagionare un nocumento alla società del corrotto (binomio violazione dei doveri-nocumento). Benchè il Legislatore penale del 2017 abbia optato per una scelta organicamente coesa con la normativa sovranazionale, ancora permangono degli aspetti censurabili. Innanzitutto, si rimarca la incomprensibile voglia di continuare a mantenere la fattispecie criminosa, deputata a contrastare la corruzione tra privati, nell’ambito del codice civile (art. 2635 c.c.), anziché procedere all’auspicato spostamento della fattispecie nel codice penale, allineandosi ai recenti orientamenti di politica criminale, seguiti da tanti legislatori europei, verso un’assimilazione tra corruzione privata e corruzione pubblica (cfr. il caso della Germania con l’art. 299 StGb). Al contrario, un aspetto positivo è possibile rinvenirlo, in coerenza con la decisione quadro del 2003, nell’ estensione dell’ambito applicativo del delitto ex art. 2635 c.c., applicato anche ai soggetti operanti all’interno di enti privati diversi dalle società commerciali. Al riguardo si è resa, però, necessaria la riformulazione della disposizione normativa. Tali interventi hanno riguardato principalmente il ruolo svolto dai soggetti attivi, allorquando è stato inserito un ulteriore comma (cfr. il secondo comma nel codice civile) secondo cui, ai soggetti apicali, di cui al primo comma, sono equiparati coloro che esercitano funzioni direttive, diverse da quelle assegnate ai primi. Sembra, però, che vi sia stata un’analogia in malam partem, tanto che in tale categoria, si ritiene di far confluire funzionari direttivi di seconda fascia, diversi da quelli menzionati nel primo comma, e che, nel contempo, non siano figure professionali sottoposte ai poteri di direzione o vigilanza dei dirigenti. Per quanto concerne la fattispecie astratta, risultano più incisive solo le modifiche apportate dalla novella legislativa 2017, poiché si è passati da un delitto di evento, mediante commissione od omissione, da parte del soggetto interno, di un atto infedele a seguito di dazione o promessa, ad un illecito di mera condotta, per il quale autorevole dottrina ha parlato di “doppia anticipazione della rilevanza penale del fatto”[11]. Oltre al mutamento della struttura oggettiva del delitto, innanzi esposta, si rilevano, altresì, alcune importanti modifiche, che avranno effetti sull’applicazione della norma in concreto, tra questi appare utile evidenziare: l’uniformità agli obblighi di fonte internazionale della condotta dell‘intraneus, consistente nel “sollecitare” la corresponsione di denaro o altra utilità; la specificazione che il denaro o altra utilità devono essere non imposti, novità di dubbia utilità, ma importante – forse- per rimarcare la presenza del pactum sceleris perfezionato quale discrimen rispetto alla fattispecie di cui all’art. 2635 bis c.c. Da un processo di coesione necessaria, sono emerse non poche chiavi di lettura della disposizione “civil-penalistica”.
3. Il regime di procedibilità a seguito della Legge “spazzacorrotti” (L. n. 3/2019): interventi di politica criminale
Una novità significativa in materia, si è avuta con la Legge Anticorruzione n. 3 del 9 gennaio 2019 (c.d. “legge spazza-corrotti”)[12], che ha abrogato il comma 5 dell’art.2365 c.c., disciplinante il reato di Corruzione tra privati, che prevedeva la procedibilità a querela di parte, salvo che dal fatto derivasse “una distorsione alla concorrenza nell’acquisizione di beni o servizi” ed ha eliminato, altresì, il comma 3 dell’art. 2365 bis c.c., istigazione alla corruzione tra privati, che pure subordinava la procedibilità a querela della persona offesa. Quindi, la riforma ha introdotto il regime indiscriminato della procedibilità d’ufficio per tutte le ipotesi di corruzione e istigazione alla corruzione tra privati, a prescindere dall’accertamento della “distorsione alla concorrenza”. Invero, data l’indeterminatezza del concetto di distorsione alla concorrenza, sin da subito ne era stata messa in dubbio la concreta applicabilità. Lo scopo della novella, era quello di correggere due aspetti pratici che rendevano complessa sia la realizzazione che l’accertamento della condotta. Infatti, originariamente era previsto che la condotta corruttiva cagionasse nocumento all’impresa cui apparteneva il corrotto e che fosse necessaria la querela per la sua procedibilità. La previsione dell’evento di nocumento per la società corrotta limitava la concreta applicazione. Inoltre, la società preferiva esperire rimedi extragiudiziali, privilegiando soluzioni transattive di carattere civilistico, ricorrendo ad es. alle “dimissioni concordate” dell’intraneo, evitandogli il coinvolgimento in un processo penale e, nel contempo, scongiurando danni all’immagine della compagine aziendale. In precedenza, spettava all’organo amministrativo deliberare la proposizione di una querela nei confronti del proprio dipendente “corrotto”, con tempi lunghi e con il rischio di manifestare al pubblico condotte di mala gestio, interne all’azienda. La necessità della querela di parte, per la punizione di episodi di corruzione tra privati, ha da sempre rappresentato uno dei principali vulnera applicativi dell’art. 2635 c.c., proprio perché, tendenzialmente, si evitava di sottoporre all’attenzione dell’autorità inquirente fatti antigiuridici e violazioni avvenuti al proprio interno. Dunque, in presenza di condotte corruttive, realizzate da un soggetto apicale in compagini societarie, la querela raramente veniva presentata, in quanto, seppure il potere di proporla, per conflitto d’interessi, era in capo all’assemblea dei soci e non all’organo di gestione, spesso, il vertice del soggetto da querelare tendeva a soprassedere per motivi di opportunità. Infine, si rileva che la proposizione della querela era ostacolata anche dal termine breve e stringente, di 90 giorni, che era difficile rispettare, dovendo intervenire una delibera dell’organo collegiale, a riunirsi. Le recenti modifiche introdotte alla disciplina della “Corruzione tra privati” hanno inciso molto anche sull’ oggettività giuridica della stessa. La scelta di costruire la fattispecie intorno al sorgere di un accordo corruttivo, finalizzato al compimento o alla omissione di un atto “in violazione dei obblighi inerenti l’ufficio o degli obblighi di fedeltà”, rappresenta una vera e propria svolta, che segna un mutamento anche del paradigma punitivo, in quanto si è passati dal modello esclusivamente “patrimonialistico”, di repressione della corruzione privata, al modello c.d. “lealistico”[13], nel quale l’offesa colpisce la relazione di fiducia, l’intuitu personae, che lega il soggetto “corrotto” alla società o all’ente nel cui ambito svolge la propria attività e non più il solo aspetto economico. La riforma, con la modifica del meccanismo di procedibilità, nonchè con la individuazione del modello penalistico, ha spostato l’oggetto della tutela verso interessi di carattere esterno/concorrenziale. Un passaggio, che è di non poco valore, quanto meno in termini interpretativi e di contenimento del fenomeno.
4. Brevi riflessioni conclusive de iure condito sulla sentenza n. 100 del 24.01.2018 Tribunale di Ancona, rispetto alla sentenza n. 952 del 6/6/2013 Trib. Udine, ed alla luce della Legge n. 3/2019
Balzando con lo sguardo dal “diritto teorico” al “ diritto pratico”, va rilevato come le considerazioni in ordine all’applicazione, in sede giurisprudenziale, delle sanzioni disciplinate dal reato de quo riguardino la disciplina vigente dal 2002 al 2012, quando l’art. 2635 c.c. era rubricato “Infedeltà a seguito della dazione o promessa di utilità”, e al più quella vigente dal 2012 al 2017, periodo nel quale il delitto aveva già assunto l’attuale denominazione di “Corruzione tra privati”. Data la recente introduzione della Legge n. 3/2019, ancora non risultano pubblicati casi oggetto di attenzione. Pur in assenza di notevoli interventi giurisprudenziali sull’illecito di cui all’art. 2635 c.c., nell’intero suo periodo di vigenza e di aggiornamento, va, comunque, osservato, come sia certa, quasi notoria, l’esiguità di sentenze di condanna, emesse per condotte di corruzione tra privati. Da tale argomentazione ne deriva la necessità di analizzare la sentenza n. 100/2018[14], emessa dal Tribunale di Ancona, tenendo conto del precedente giurisprudenziale di merito e rapportandola alla novella legislativa del 2019. L’ampia motivazione, posta alla base dell’atto conclusivo della prima fase dibattimentale, si articola in più ‘sezioni’, attesa la moltitudine di profili giuridici analizzati. Al di là dei mutamenti normativi, quello che preme evidenziare è la ricostruzione fattuale che il Giudice di merito realizza al fine di ritenere integrata la condotta delittuosa e i suoi elementi costitutivi, al di là di ogni ragionevole dubbio. Ciò, ha permesso agli operatori del diritto di recuperare il gap temporale, rispetto al primo caso affrontato dalla giurisprudenza, che risale a ben dieci anni dall’ introduzione dell’art. 2635 c.c. (cfr. Trib. Udine, sent. n. 952 del 6/6/2013)[15], e di saggiarne così le peculiarità. Il collegio evidenziava che, in virtù della versione vigente all’epoca dei fatti (2009/2010 e inizio 2012 momento in cui risaliva la commissione del fatto nei due capi d’imputazione) riconoscendo il principio della lex mitior, si sarebbe dovuto applicare al caso de quo la fattispecie di «infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità», dunque ante riforma del 2012, in quanto in favor rei, poichè non era previsto un minimo edittale di pena, mentre nelle due successive versioni – a parità di limite massimo a tre anni di reclusione – si prevedeva un minimo di un anno. Oltre tale aspetto, merita attenzione il passaggio motivazionale secondo cui è importante:«aggiungere anche il fatto che, nella formulazione vigente (introdotta dal d.lgs. 37/2017, ndr), dalla fattispecie di reato viene eliminato l’evento quale elemento della tipicità (nocumento) ed arretrata la consumazione alla mera condotta. Viene, quindi, ampliata ed anticipata l’area della rilevanza penale del fatto, in sicuro sfavore del reo» (cfr. pag. 16 della sentenza). Ancora più rilevante, per meglio comprendere l’importanza della riforma attuale, è la motivazione circa il rigetto di un’eccezione di improcedibilità, con cui la difesa di uno degli imputati individuava quale dies a quo per la proposizione della querela, il momento in cui emergevano presunte irregolarità societarie, piuttosto che il momento in cui la società aveva avuto una conoscenza «seria, dettagliata e certa del fatto» ossia, nel caso di specie, al momento del deposito della relazione di audit predisposto dall’istituto di credito. Querelle di non poco conto, poichè qualora fosse stata accolta la tesi difensiva, ciò avrebbe determinato l’emissione di una sentenza di non doversi procedere per difetto di querela. Orbene, oltre alla trasformazione del reato di evento a reato di mera condotta (cfr. paragrafo 2), ad essere cambiato in melius, rispetto a quanto accertato all’esito del dibattimento, è il regime di procedibilità. Infatti, il legislatore anti-corruzione, con buona pace della dottrina, ha eliminato l’annoso problema dell’istanza punitiva, questione che invece aveva aggrovigliato non poco il collegio giudicante Marchigiano, costretto a rendere ordinanza di rigetto della questione preliminare. Precedentemente, per dimostrare una effettiva condotta corruttiva ex art. 2635 c.c., una volta accertata la lesione alla libera concorrenza, occorreva anche la prova non di un concreto danno patrimoniale, come previsto nell’art. 2634 c.c., ma di un generico nocumento, inteso quale pregiudizio apprezzabile (cfr. pag. 151 della sentenza). Sarebbe stato, perciò, di facile ricostruzione, in sede giurisdizionale, la causazione di un effetto distorsivo macro-economico quale esito di un singolo episodio corruttivo, attesa la genericità del concetto di nocumento. Una siffatta condizione avrebbe determinato il rischio di esasperare l’accertamento penale, anche nel caso di mero danno di immagine o reputazione commerciale della società, quale effetto della condotta corruttiva. Nella formulazione attuale (cfr. riforma del 2017) se da un lato è venuta meno la necessità di dimostrare il concetto di nocumento non convince, comunque, la vaghezza contenutistica della condotta e degli obblighi di fedeltà facenti capo all’intraneus, specie negli enti ove non è obbligatoria l’adozione di un modello organizzativo ed etico. Allora sarebbe lecito chiedersi, se una disposizione di tal genere potrebbe ritenersi sufficientemente adeguata ad arginare il dilagante fenomeno corruttivo. A fronte dell’attuale quadro normativo, non spetta certo all’interprete, men che meno attraverso un’analisi teorica, far fronte alla disfunzione applicativa e dimostrativa del reato, tuttavia una linea di riforma da seguire sarebbe, quanto meno, auspicabile: Un’ulteriore modifica della disciplina normativa di cui all’art. 2635 c.c. improntata verso una maggiore specificazione della condotta di cui al primo comma, un inasprimento – senza iperboliche distorsioni punitive– delle pene attuali di cui al primo comma, trasformazione in reato autonomo dell’ipotesi di corruzione di società quotate di cui al comma 3, scindendo così le fattispecie e diversificando l’entità del danno in base al ruolo economico della società coinvolta, “rinvigorire” le sanzioni accessorie di cui all’art. 2635 ter c.c. eliminando l’applicazione in via subordinata della sanzione de qua solo a coloro che sono stati già condannati per il medesimo reato, estensione del modello organizzativo e del codice di condotta (etico) a tutte le imprese e gli enti privati cui fa riferimento la norma[16] .
[1] Per un dibattito completo ed un percorso storico del fenomeno corruttivo privato si rimanda alla lettura del quaderno pubblicato dalle Camere penali Italiane dal titolo “CORRUZIONE TRA PRIVATI: NUOVI PROFILI DI RISCHIO A LIVELLO INTRA ORGANIZZATIVO” a cura di Vittore D’Acquarone, Avvocato del foro di Verona e Solicitor UK Stefano Rossi, Consulente in Modelli organizzativi per l’etica d’impresa. Gli autori nel loro quaderno, trattando la tematica in chiave comparata, consentono un’ampio spazio riflessivo ed affrontano il delicato problema della responsabilità della persona giuridica in relazione alle riforme del 2017, concentrandosi sull’etica d’impresa, o per meglio dire sulla necessitò di adottare un codice etico da rispettare.
[2] Appare opportuno, al fine di una migliore comprensione della norma in oggetto, riportare un raffronto tra le due fattispecie di cui all’art.2635 c.c. Al fine di dare piena attuazione al fenomeno della successione normativa riporto per intero, mediante utilizzo del codice civile, gli articoli di riferimento indicando tra parentesi le ultime due revisioni. Il DLgs 11 aprile 2002, n. 61 disponeva: Gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci, i liquidatori e i responsabili della revisione, i quali, a seguito della dazione o della promessa di utilità, compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio, cagionando nocumento alla società, sono puniti con la reclusione sino a tre anni. La stessa pena si applica a chi dà o promette utilità. La pena è raddoppiata se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell’art. 116 del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58. Si procede a querela della persona offesa.” Il D.Lgs 15 marzo 2017, n. 38 disponeva: Salvo che il fatto costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, di società o enti privati che, anche per interposta persona, sollecitano o ricevono, per sé o per altri, denaro o altra utilità non dovuti, o ne accettano la promessa, per compiere o per omettere un atto in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, sono puniti con la reclusione da uno a tre anni. Si applica la stessa pena se il fatto è commesso da chi nell’ambito organizzativo della società o dell’ente privato esercita funzioni direttive diverse da quelle proprie dei soggetti di cui al precedente periodo. Si applica la pena della reclusione fino a un anno e sei mesi se il fatto è commesso da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al primo comma. Chi, anche per interposta persona, offre, promette o dà denaro o altra utilità non dovuti alle persone indicate nel primo e nel secondo comma, è punito con le pene ivi previste. Le pene stabilite nei commi precedenti sono raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell’articolo 116 del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni. Si procede a querela della persona offesa, salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi (oggetto di revisione con la Legge spazzacorrotti che ne ha disposto l’abrogazione). Fermo quanto previsto dall’articolo 2641, la misura della confisca per valore equivalente non può essere inferiore al valore delle utilità date, promesse o offerte (oggetto di revisione).
[3] Sulla Gazzetta Ufficiale n. 13 del 16 gennaio 2019 è stata pubblicata la Legge anticorruzione intitolata “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici” Come si desume dalla intitolazione della Legge l’intentio legis è chiara, tuttavia focalizzando l’attenzione sul testo è possibile rinvenire – almeno ictu oculi- tre temi interessati: la lotta alla corruzione della Pa, la riforma della prescrizione, la trasparenza di partiti e movimenti politici e relativi finanziamenti. Non è dato sapere se spiegherà l’efficacia special-preventiva e repressiva auspicata dall’ala riformista del governo, tuttavia segna un punto di inizio i cui risultati,positivi o negativi che siano, dovranno essere valutati più a lungo.
[4] L’ipotesi di introdurre nel sistema penalistico nazionale una fattispecie generale di corruzione tra privati, era stata caldeggiata da GROSSO, Il delitto di corruzione tra realtà interpretativa e prospettiva di riforma, in La riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, a cura di A. Stile, Napoli, 1987, p. 358 e ss; tuttavia anche in G. MARINUCCI. E M. ROMANO, Tecniche normative nella repressione penale di abusi degli amministratori di società per azioni, in Il diritto penale delle società commerciali, a cura di P. Nuvolose, Milano, 1971, p. 114; è possibile notare l’idea di estendere lo studio del fenomeno corruttivo anche al settore privato. Confrontando tali perplessità con l’attuale aumento esponenziale del fenomeno corruttivo, forse si sarebbe potuto agire.
[5] Per la distinzione tra corruzione del concorrente e corruzione del fornitore è utile lo studio del testo di R. BARTOLI, Corruzione tra privati, in AA.VV. (a cura di B. Mattarella e M. Pellissero), La legge anti corruzione. Prevenzione e repressione della corruzione, Torino, 2013, p. 435 ss.; M. BELLACOSA, Obblighi di fedeltà dell’amministratore di società e sanzioni penali, Milano, 2006, p. 259. R. BARTOLI, Corruzione tra privati. Per un’esaustiva spiegazione, sopratutto pratica, si rimanda anche alla lettura dell’articolo del prof. Francesco Macrì presente sulla rivista Criminalia del 01.04.2019 il quale spiega magistralmente tali distinzioni, ancorandole al dato normativo.
[6] R. BARTOLI, Corruzione tra privati, cit., p. 436 e ss. dove spiega l’istituto della corruzione del fornitore e soprattutto il vantaggio che l’azienda potrebbe trarne dal patto corruttivo. Si ritiene che il vantaggio, inscindibilmente connesso alla flessione del dato economico, possa rilevare anche in termini di acquisizione – ingiusta- della predominanza aziendale rispetto alle altre realtà operanti nel medesimo settore.
[7] E. LA ROSA, La repressione penale della “corruzione privata”. Punti fermi e questioni aperte, Messina, 2011 ISBN: 88-96116-06-6. Orbene, da una lettura del testo, l’autore a pagg 19 e ss. spiega il modello di corruzione privatistico e la sua funzione, trattando anche la necessità di individuare un modello di repressione penale valido. Infatti, nell’analizzare il modello corruttivo di tipo privatistico, rispetto al dato normativo acquisito, lo fonde con il modello “lealistico” e lo struttura in una duplice accezione: oggettiva e soggettiva. Con la prima accezione ad essere violato è il dovere del lavoratore di perseguire il migliore interesse del datore di lavoro; con la seconda accezione, invece, ad essere violata è la conformità alle indicazioni di correttezza impartite del datore di lavoro. Così anche il testo “Corruzione privata e diritto penale. Uno studio sulla concorrenza come bene giuridico” ed. Giappichelli, 2018, sempre curato da E. LA ROSA, cui si rimanda per un’approfondita disamina, sopratutto per comprendere la corretta definizione, in termini penalistici, della concorrenza quale bene giuridico da tutelare alla luce del modello privatistico.
[8] A. SPENA, La corruzione privata e la riforma dell’art. 2635 c.c., in Riv. it. dir. e proc. pen., 2013, , rispetto al modello “pubblicistico”, evidenziato nel lavoro testè riportato, si evidenzia come ad essere tutelato in chiave economica, e non solo, è l’efficienza della concorrenza e dunque del mercato globale. Sostanzialmente la ricaduta dell’evento corruttivo non è mai circoscritta, ma anzi scatena un circolo vizioso sovente incontrollabile.
[9] Dopo importanti valutazioni di ordine socio-economiche si giunge al D. lgs 61/2002, rubricato “Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le societa’ commerciali, a norma dell’articolo 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366” e consultabile in Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2002, che apporta importanti modifiche in particolare al reato di falso in bilancio e alla bancarotta societaria e introduce nuove fattispecie rispetto a quelle già esistenti nella disciplina codicistica, nonchè la previsione organica dell’art. 2635 c.c. Importante è l’art. 4 del decreto prevede la riformulazione delle norme sui reati fallimentari che richiamano reati societari e delle responsabilità in ordine alle persone giuridiche. Dunque, a parere di chi scrive, tale atto normativo delegato, ex art. 76 della Costituzione, segna un importante punto di inizio da parte del legislatore nazionale verso il delicato problema del settore privato, fino a quel momento lontano da ogni controllo.
[10] Il dato normativo è consultabile dal sito eur lex Europa sia in lingua nazionale che europea. Orbene dando ampia attuazione ai principi Costituzionali, l’Italia recepì la decisione del 2003 – ovvero l’atto giuridico ai sensi dell’art. 34 del Trattato sull’ Unione Europea finalizzato all’ uniformità in materia legislativa ed amministrativa- con cui veniva prevista una disciplina della corruzione anche nel settore privato. Rappresentava un passo importante, di indubbia ricaduta politica-economica. Ecco perchè si è ritenuto quanto mai utile parlare di coesione necessaria al modello Europeo, tuttavia una condivisione normativa che deve pur sempre essere rispettosa delle esigenze degli Stati membri.
[11] Tale valutazione dottrinale, relativa alla doppia anticipazione della rilevanza penale, è possibile individuarla, tra l’altro, nello scritto dal titolo: Il volto attuale della corruzione e le strategie di contrasto Di Bartoli e Papa, pag. 109 e ss. Il lavoro editoriale trae origine dagli atti del convegno svoltosi a Firenze nel marzo 2018, nonchè da una serie di esperienze culturali di vari illustri esponenti del mondo accademico e della Magistratura (introduzione del Dott. Pignatone). Ebbene la parte che ha suscitato interesse redazionale e riflessivo è quella redatta dal Prof. Alessandro Spena dal titolo “Oltre il modello mercantile? Velleità e inettitudine dell’ennesima riforma della corruzione privata” paragrafo 2 del testo. Nel ripercorrere le tappe normative utilizza il termine doppia anticipazione della rilevanza penale, stigmatizzando di fatto il modello dogmatico che ne derivava. Sostanzialmente, ammettendo un siffatto doppio rapporto causale si finirebbe per creare una inconsueta struttura presupposto-causa che si limiterebbe a far capire lo scenario ideale in cui dovrebbe avvenire l’azione, senza però di fatto delinearla.
[12] Un’importante modifica apportata dalle legge n 3/2019 i reati di Corruzione tra privati (art 2635, c.c.) e di Istigazione alla corruzione tra privati (art 2635 bis, c.c.) che prima della novella erano procedibili solamente a querela di parte (tranne nell’ipotesi dell’art. 2635, c.c., dove il pubblico ministero poteva procedere d’ufficio se dal fatto fosse derivata una distorsione della concorrenza nell’acquisizione di beni o servizi). Il nuovo atto normativo, abolendo il comma quinto dell’art. 2635, c.c. e il comma terzo dell’art. 2635 bis, c.c. ha reso anche tali reati procedibili d’ufficio, eliminando in questo modo l’impasse della volontà punitiva del privato che, di fatto, aveva fin da subito impedito l’applicazione giudiziaria dei due delitti de quo.
[13] E. LA ROSA nell’articolo pubblicato su diritto penale contemporaneo del 23 dicembre 2016, affrontando il reato di corruzione tra privati dal titolo: “verso una nuova riforma della “corruzione tra privati” ed a pag. 322 del testo “Corruzione privata e diritto penale“: spiega bene il mutamento dal modello “patrimonialistico” a quello “lealistico” e dunque la differenza tra i modelli corruttivi, evidenziandone peculiarità di notevole risvolto applicativo, anche mediante l’analisi della normativa sovranazionale. Con il primo modello è possibile incentrare il disvalore della condotta e dunque la necessità della sanzione limitatamente all’aspetto economico. Invece, con il secondo modello, ad essere oggetto di repressione penale è la scarsa lealtà dell’agente, creando così una torsione del bene giuridico da tutelare.
[14] La sentenza in oggetto rappresenta, ad avviso sommesso di chi scrive, un baluardo interpretativo e giurisprudenziale di notevole pregio, sia per le scarse risorse Giurisprudenziali e sia perchè nella parte argomentativa il Tribunale in composizione collegiale spiega ogni singolo elemento della fattispecie – la condotta tipica, il significato di nocumento che deve essere cagionato mediante l’accordo corruttivo(anche se oggi eliminato dalla nuova formulazione del reato), l’elemento soggettivo etc. – e fornisce contemporaneamente una interessante risposta sulle criticità derivanti dal regime delle successioni delle leggi nel tempo, che hanno inciso sul reato, recentemente oggetto – peraltro – di un nuovo, come direbbero gli inglesi, touch -up da parte del legislatore (operato con il D.lgs. 37/2017), in particolar modo sulla condizone di procedibilità.
[15] La sentenza emessa dal Tribunale di Udine offre l’occasione di soffermare l’attenzione sulla fattispecie delittuosa prevista e disciplinata dall’art. 2635 c.c., ora rubricata «corruzione tra privati», in origine «infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità» utile non soltanto per avere un quadro nitido dell’approccio Giurisprudenziale di merito, ma soprattutto al fine di individuare la differenza delle fattispecie ante e post riforma normativa.
[16] Il Modello Organizzativo (MOG) è un documento che, sulla base dell’analisi complessiva del rischio aziendale, definisce le procedure da adottare al fine di prevenire alcuni reati, specificatamente individuati dal Decreto Legislativo 231/2001, e che potrebbero essere commessi nell’ interesse o a vantaggio dell’Ente. L’atto di delega legislativa introduce in Italia la responsabilità impropriamente definita amministrativa, ma di fatto penale) dell’Ente (ovvero delle società, associazioni, persone giuridiche ma anche imprese individuali). L’Ente, dunque, risponde degli illeciti commessi da propri dipendenti con sanzioni che possono andare dal pagamento di una somma di denaro alla chiusura dell’attività, a seconda dell’entità del reato commesso. Il legislatore, tuttavia, ha previsto che l’Ente, possa andare esente da responsabilità per colpa organizzativa qualora viene adottato e concretamente attuato un Modello Organizzativo idoneo a prevenire la commissione di reati. L’importanza dell’adozione del Modello Organizzativo e l’impatto che il rispetto delle regole in esso contenuto potrebbe avere in sede giurisdizionale è rimarcato in diverse sentenze di legittimità. Così in Cass., V sez. penale, sent. n.4677 del 30 gennaio 2014, Impregilo S.p.A. Per autorevoli commenti si vedano tra gli altri, BARTOLOMUCCI, S., “ribadita dalla S.C. la centralità dell’art. 6, d.lgs. n. 231/2001 nella valutazione giudiziale della idoneità ed effettività del modello, in Resp. amm. soc. ed enti, 2014, n. 2”; COLACURCI, M., “L’idoneità del modello nel sistema 231, tra difficoltà operative e possibili correttivi” in Diritto Penale Contemporaneo n. 2/2016, ed ancora Corte cass., SS.UU. pen, sent. n.38343 del 18 settembre 2014, ThyssenKrupp.
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Raffaele Iannone
Luarea in Giurisprudenza conseguita in quattro anni e una sessione, anno accademico 2016/2017 con Tesi di Ricerca in Criminologia dal titolo : L'evoluzione del Terrorismo : dalle Brigate Rosse all' Isis. Votazione 107/110 e merito semplice.
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