La Corte costituzionale interviene sulla disciplina dei permessi di soggiorno per motivi umanitari
In seguito ai ricorsi regionali proposti avverso il decreto legge n. 113/2018 (c.d. Decreto Immigrazione e Sicurezza), la Corte costituzionale, con sentenza n. 194/2019, si è pronunciata sulla disciplina dei permessi di soggiorno per motivi umanitari ed ha orientato i giudici al rispetto dei valori costituzionali e degli obblighi internazionali.
Il Decreto Immigrazione e Sicurezza è intervenuto in maniera significativa sul tema della protezione umanitaria la quale ha sempre svolto una funzione di primario rilievo in tutta l’evoluzione legislativa interna del diritto del cittadino straniero al riconoscimento di uno status o di un permesso riconducibile alla protezione internazionale.
La legge n. 388/1993 ha introdotto la protezione umanitaria nell’ ordinamento italiano configurandola come ipotesi di deroga al rigetto (e alla revoca) della domanda di permesso di soggiorno al ricorrere di gravi motivi di carattere umanitario.
Questo originario riferimento alle esigenze di carattere umanitario suscettibili di evitare il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno è stato poi testualmente ripreso dall’art. 5 comma 6 del D.lgs. n. 286/1998 (T.U. immigrazione).
La protezione umanitaria è sempre stata una forma residuale di protezione prevista dalla legislazione italiana per quanti, pur non avendo diritto al riconoscimento dello status di rifugiato né alla protezione sussidiaria, non potevano essere allontanati dal territorio nazionale a causa di oggettive e gravi situazioni personali.
La prassi giurisprudenziale ne ha fatto ampia applicazione precisandone via via i contorni ed assicurando l’effettività del quadro normativo alla luce delle esigenze di tutela dei diritti fondamentali della persona.
In particolare, la giurisprudenza ha sempre affermato che il permesso di soggiorno per motivi umanitari si ricollegasse al diritto di asilo costituzionale di cui all’art. 10 terzo comma Cost, oltre che alla «protezione complementare» che la normativa europea consente di riconoscere, anche per motivi umanitari o caritatevoli, a persone minacciate nei propri diritti fondamentali in caso di rinvio nel Paese d’origine (ex multis, Cass. Sezioni Unite, sentenze n. 32177 e n. 32044 del 2018).
Nella giurisprudenza di legittimità, difatti, i «seri motivi umanitari» sono sempre stati accomunati dallo scopo di tutelare situazioni di vulnerabilità attuali o accertate con giudizio prognostico come conseguenza discendente dal rimpatrio dello straniero, in presenza di un’esigenza concernente la salvaguardia di diritti umani fondamentali protetti a livello costituzionale e internazionale.
Ebbene, il decreto legge n. 113/2018 ha eliminato dall’art. 5 comma 6 T.U. immigrazione il riferimento ai «seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano» e, più in generale, ha espunto dall’ordinamento ogni riferimento al permesso di soggiorno «per motivi umanitari» contenuto in diversi testi normativi.
La relazione introduttiva alla legge di conversione del decreto ha messo in evidenza la ratio dell’intervento normativo: rendere più efficace ed efficiente gestione del fenomeno migratorio, introducendo misure di contrasto alla possibile strumentalizzazione della richiesta di protezione internazionale.
Si è voluto, cioè, stigmatizzare gli effetti negativi che l’istituto della protezione umanitaria avrebbe provocato negli anni a causa dei suoi incerti contorni normativi.
Con la circolare del 4 luglio 2018, del resto, l’allora Ministro dell’Interno in carica aveva indicato vere e proprie linee guida interpretative ispirate ad un modello applicativo dell’istituto maggiormente restrittivo, rivolgendosi alla Commissione nazionale per il Diritto di asilo ed alle Commissioni territoriali per la protezione internazionale.
L’art. 1 del decreto legge n. 113/2018 costituisce il cuore pulsante della riforma: la disposizione ha affiancato ad un contenuto abrogativo della norma generale previgente (art. 5 d.lgs. n. 286/1998), un contenuto innovativo dei titoli di soggiorno già previsti.
Difatti, se da un lato ha soppresso il permesso di soggiorno per motivi umanitari abrogando i riferimenti di cui all’art. 5 comma 6 del citato decreto n. 286/1998, dall’altro, in luogo di tale istituto, ha individuato alcuni speciali permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere umanitario quali: a) permessi di soggiorno per casi speciali; b) permesso di soggiorno per cure mediche; c) permesso di soggiorno per calamità; d) permesso di soggiorno per motivi di particolare valore civile.
In sintesi, il Legislatore è intervenuto sulle qualifiche che danno titolo ai permessi di soggiorno sul territorio nazionale specificando, in un ventaglio di ipotesi nominate, i «seri motivi di carattere umanitario» prima genericamente enunciati dal T.U. immigrazione.
Tanto premesso, le Regioni Umbria, Marche, Emilia Romagna, Toscana e Calabria hanno ritenuto che la ridefinizione dei contorni della protezione umanitaria in senso restrittivo realizzasse una lesione delle competenze regionali tale da legittimare il ricorso alla Corte Costituzionale.
Ad avviso delle ricorrenti, l’intervento del Legislatore nei termini innanzi descritti aveva comportato un complessivo restringimento dell’ambito di operatività della protezione umanitaria ed una riduzione della platea dei beneficiari dei servizi di integrazione e assistenza resi dagli enti territoriali.
L’eliminazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, cioè, aveva inevitabilmente inciso sulle competenze concorrenti e residuali delle Regioni in materia di assistenza sociale, sanitaria, formazione e politiche attive del lavoro, istruzione ed edilizia residenziale pubblica.
Le Regioni, inoltre, hanno invocato parametri ricompresi tra i principi fondamentali della Carta costituzionale, prevalentemente utilizzati per censurare la violazione costituzionale asseritamente dovuta all’art. 1 del c.d. decreto sicurezza e alla trasformazione dell’istituto della protezione umanitaria ivi prodotta, ritenuta in contrasto con gli artt. 2,3,10 co. 3,11 della Costituzione.
È dunque emerso ab origine che nella decisione della Consulta avrebbe rivestito un ruolo centrale il tema della “ridondanza” (o lesione di competenza indiretta), cioè della legittimazione delle regioni ad invocare – nel giudizio di legittimità costituzionale in via principale – norme costituzionali estranee al riparto di competenza.
Malgrado tale prospettazione, i ricorsi non hanno superato il vaglio di ammissibilità ma ciò non ha impedito alla Corte di esporre principi di forte impatto, soprattutto in relazione ai presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria.
Con sentenza del 20 giugno 2019 n. 194, difatti, sono state consegnate all’interprete ed al Legislatore indicazioni non eludibili in relazione alla definizione della protezione umanitaria nel contesto costituzionale ed internazionale.
Il giudizio conclusivo di inammissibilità delle questioni opposte dalle Regioni all’art. 1 del d.l. n. 113/2018 si è fondato sul “carattere ipotetico e meramente eventuale” delle lesioni lamentate, le quali hanno dato per certo che per effetto di quelle disposizioni si sarebbe verificata una riduzione della quota dei destinatari delle competenze amministrative regionali in materia di assistenza sociale e sanitaria, formazione e governo del territorio.
A ben vedere, secondo il Giudice delle leggi tale effetto non può essere presunto dal testo della legge statale impugnata, ma va verificato alla luce della applicazione da parte dei giudici e delle pubbliche amministrazioni.
Pertanto, da un lato la Corte ha riferito che i ricorsi sono privi di motivazione argomentata quanto alla violazione indiretta del criterio di riparto competenziale, dall’altro ha ribadito che restano fermi gli obblighi di carattere costituzionale ed internazionale dello Stato, pur se non espressamente richiamati dal testo normativo.
Del resto la stessa relazione illustrativa del disegno di legge di conversione, richiamata dalla Consulta, conferma che l’intervento legislativo censurato si muove nel solco tracciato dagli obblighi costituzionali e internazionali della Repubblica.
Ne consegue che, anche in assenza di una norma scritta che ne specifichi le basi costituzionali, le esigenze umanitarie risultano tuttora garantite.
In relazione all’argomentazione addotta dalle ricorrenti secondo cui la nuova normativa avrebbe comportato l’effetto di escludere una parte delle persone che in precedenza avrebbe avuto diritto al permesso umanitario dal godimento dei nuovi permessi speciali, la Corte ha aggiunto che le Regioni possono ugualmente continuare ad offrire le medesime prestazioni in precedenza loro assicurate nell’esercizio delle proprie competenze legislative concorrenti o residuali.
La Consulta, invero, ha precisato che le Regioni possono erogare prestazioni anche a favore di stranieri in posizione di irregolarità senza che ciò interferisca in alcun modo con le regole per il rilascio del permesso di soggiorno, regole che rimangono nella disponibilità del legislatore nazionale, poiché ricomprese nell’alveo della competenza relativa alla materia dell’immigrazione e del diritto di asilo.
In conclusione, il senso della decisione di inammissibilità è nella complessiva tenuta di un sistema che ha come unico riferimento il quadro dei principi costituzionali e che traccia confini inequivocabili, riconoscendo nell’interpretazione giurisprudenziale la fondamentale garanzia di costituzionalità delle norme in materia di immigrazione e di diritto di asilo.
Si potrebbe affermare che il riconoscimento dell’interpretazione come essenza della funzione giurisdizionale e garanzia di costituzionalità delle leggi è quasi più di un monito che la Corte rivolge al Legislatore: l’auspicio è quello di un’applicazione costituzionalmente e internazionalmente orientata dell’art. 1 d.l. 113/2018.
Giova ricordare, infine, che il Presidente della Repubblica, con messaggio inviato al Presidente del Consiglio, ha ritenuto doveroso sottolineare che l’eliminazione all’espresso riferimento agli obblighi costituzionali o internazionali cui l’Italia è tenuta nel riconoscere la possibilità di soggiorno regolare di una persona straniera, non elide certamente quei medesimi obblighi che, dunque, permangono intatti in capo alla pubblica amministrazione ovvero nella possibilità di riconoscimento a seguito di apposita domanda giudiziaria.
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Claudia Cea
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