La Corte costituzionale lima l’articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354
Sommario: 1. Premessa – 2. La vicenda – 3. Corte costituzionale 22 maggio 2020, n. 97
1. Premessa
Con la sentenza n. 97 del 22 maggio 2020 la Corte costituzionale è tornata ad occuparsi dell’art. 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà).
Il 41 bis esce dalla logica della detenzione ordinaria e dalle normali regole contenitive e costrittive delineate per tutti i detenuti dalla legge n.354/1975 e, preso atto delle insufficienze della stessa o delle stesse ad arginare pericolosissime forme di criminalità organizzata, impone regole o limitazioni di vita personale, fortemente invasive e penalizzanti, con il dichiarato scopo di garantire o tentare di garantire, l’impermeabilità del carcere rispetto all’esterno, in un’ottica orientata prevalentemente alla neutralizzazione[1] della pericolosità e con essa dell’uomo che ne è portatore.
Le ipotesi in presenza delle quali si applica l’art. 41 bis, sono due.
La prima ipotesi, è disciplinata dal primo comma e concerne i casi eccezionali di rivolta o altre gravi situazioni di emergenza.
In tal caso il Ministro della giustizia ha la facoltà di sospendere l’applicazione delle regole ordinarie di trattamento dei detenuti in tutto l’istituto carcerario o in una parte; la sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento di tale finalità.
Invece, la seconda ipotesi è disciplinata dal comma 2 dell’articolo di cui trattasi, comma aggiunto dal D.L. 8 giugno del 1992, n. 306, a seguito della strage di Capaci.
Orbene tale disposizione prevede la deroga alle regole ordinarie di trattamento se ricorrono gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica e il destinatario ha commesso determinate fattispecie di reato.
Nello specifico, possono essere destinatari del provvedimento i detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1, dell’articolo 4 bis o comunque per un delitto commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva.
In tal caso il Ministro della giustizia, anche su richiesta del Ministro dell’interno, ha la facoltà di sospendere in tutto o in parte l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previste dalla legge sull’ordinamento penitenziario che in concreto possono porsi in contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza.
Il provvedimento de quo ha durata pari a quattro anni ed è prorogabile, per successivi periodi ciascuno di due anni, se risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva, non è venuta meno.
2. La vicenda
La Corte di Cassazione, sezione prima penale, con due ordinanze di analogo tenore, rispettivamente iscritte ai numeri 222 e 223 del registro ordinanze 2019, ha sollevato in riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 41 bis, comma 2 quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354, “nella parte in cui prevede che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata l’assoluta impossibilità di scambiare oggetti per i detenuti in regime differenziato appartenenti al medesimo gruppo di socialità”.
Nel giudizio iscritto al r.o. n. 222 del 2019, la Corte rimettente riferisce che la vicenda sottoposta al vaglio di legittimità costituzionale scaturisce dal reclamo al Magistrato di Sorveglianza di Spoleto proposto da G.G., detenuto sottoposto al regime differenziato di cui all’art. 41 bis ordin. penit. avverso l’ordine di servizio del 15 marzo 2015 con cui la direzione dell’istituto penitenziario ha comunicato il divieto di scambiare oggetti di qualunque genere, quand’anche realizzato fra detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità, a seguito delle innovazioni apportate al citato regime differenziato dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica).
Il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto ha dichiarato il reclamo presentato ai sensi dell’art. 35 bis ordin. penit. inammissibile.
Tale provvedimento di inammissibilità è stato, quindi, oggetto di reclamo, accolto, dinnanzi al Tribunale di sorveglianza di Perugia che con ordinanza ha disposto la disapplicazione dell’ordine di servizio della direzione della casa di reclusione, oggetto dell’originaria impugnazione.
Contro questa ordinanza ha poi proposto ricorso per cassazione il Ministero della giustizia.
Ciò premesso in punto di fatto, il Collegio rimettente aderisce all’interpretazione che è fornita in ordine alla disposizione di cui trattasi dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui “tenendo conto del significato e della connessione fra le parole e dei segni grafici utilizzati, nonché del senso logico del testo”, “la necessità di assicurare l’assoluta impossibilità dello scambio di oggetti riguarda tutti gli scambi fra i detenuti, e non è limitato ai soli scambi fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità” ( è citata in particolare la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima penale, 8 febbraio 2017, n. 5977).
Ricostruito il contenuto normativo della disposizione censurata, il collegio rimettente lo ritiene in contrasto con il dettato costituzionale ed in particolare con gli articoli 3 e 27 della Costituzione.
Infatti il giudice a quo muove dal presupposto che secondo la giurisprudenza costituzionale, la funzione della sospensione del regime penitenziario ordinario prevista dall’articolo 41 bis ordin. penit. sarebbe quella di “rescindere i collegamenti ancora attuali sia fra detenuti che appartengono a determinate organizzazioni criminali, sia fra gli stessi e gli altri componenti del sodalizio che si trovano in libertà” (sono citate le pronunce n. 122 del 2017, n. 143 del 2013, n. 417 del 2004).
Tuttavia, quella medesima giurisprudenza costituzionale ha imposto dei limiti al regime differenziato.
Mentre il primo discende dall’articolo 3 Cost. e attiene alla “congruità della misura applicata rispetto allo scopo che essa persegue”, invece il secondo deriva dai principi di cui all’articolo 27 Cost in forza dei quali le restrizioni disposte ai sensi dell’art. 41 bis, comma 2, ordin. penit. non potrebbero mai essere tali da “vanificare completamente la necessaria finalità rieducativa della pena e di violare il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità” (sentenze n. 149 del 2018, n. 351 del 1996 e n. 349 del 1993).
Ad avviso del giudice a quo, mentre il divieto di comunicare fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità “appare effettivamente funzionale a garantire gli obiettivi di prevenzione della misura”, l’ulteriore disposizione, concernente il divieto di scambio di oggetti, in quanto riferito a tutti i detenuti in regime differenziato, ancorché appartenenti al medesimo gruppo di socialità, non potrebbe invece ritenersi funzionale a fronteggiare alcun pericolo per la sicurezza pubblica, assumendo una portata meramente afflittiva.
Secondo il collegio rimettente, infatti, solo lo scambio di oggetti fra soggetti assegnati a differenti gruppi di socialità potrebbe consentire di veicolare informazioni fra detenuti che l’amministrazione penitenziaria ha ritenuto di non potere ammettere ad alcun tipo di comunicazione fra di loro, “proprio per interrompere ogni forma di relazione ed ovviare il pericolo della circolazione di determinate conoscenze”. Fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, viceversa, tale “essenziale esigenza” sarebbe, “per definizione, inesistente, dal momento che proprio la comune appartenenza al medesimo gruppo consentirebbe, a monte, lo scambio di qualunque contenuto informativo; e ciò senza dover ricorrere, appunto, allo scambio di oggetti”.
Inoltre, ad avviso del giudice a quo, il divieto di scambio di oggetti fra gli appartenenti allo stesso gruppo di socialità, non può giustificarsi neppure alla luce della necessità di impedire che taluno in ragione di tale scambio acquista una posizione di supremazia nel contesto penitenziario.
A sostegno di tale assunto, la Cassazione adduce che il manifestarsi di forme di potere dei detenuti più forti o più facoltosi, in ambito carcerario, deve essere impedito attraverso l’applicazione rigorosa ed imparziale delle regole del trattamento carcerario.
Per tali ragioni, ad avviso del Collegio rimettente, il divieto in esame si pone in contrasto sia con l’articolo 3 Costituzione, in quanto configurerebbe “una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai ristretti in regime ordinario e una irragionevole limitazione dal significato inutilmente vessatorio” sia con il principio del finalismo rieducativo della pena di cui all’articolo 27 Costituzione, oltre ad integrare una limitazione al regime penitenziario ordinario contraria al senso di umanità.
Anche rispetto al giudizio iscritto al r.o. n. 223 del 2019, il giudice a quo ha censurato la stessa disposizione ed evocato gli stessi parametri costituzionali.
3. Corte costituzionale 22 maggio 2020, n. 97
La Corte Costituzionale, nella sentenza del 22 maggio 2020, n. 97, richiama la legge 15 maggio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) che ha profondamente inciso sulla disciplina contenuta nell’art. 41 bis ordin. penit.
In particolare,in ordine al comma 2-quater lettera f) dell’art. 41 bis, disposizione che viene in rilievo nel caso di specie, viene eliminata ogni discrezionalità nell’applicazione delle condizioni detentive speciali, come è fatto palese dal tenore letterale della disposizione, secondo cui il provvedimento ministeriale di sospensione delle regole di trattamento carcerario “prevede”, e non più “può prevedere”, le misure dettagliate alle lettere successive.
Prosegue la Consulta, la novella elenca una serie di misure specifiche che costituiscono il contenuto tipico e necessario del regime speciale. Tali misure, frutto di una valutazione svolta ex ante dal legislatore devono perciò essere obbligatoriamente applicate a tutti i detenuti sottoposti a tale regime.
La disposizione oggetto del presente giudizio di legittimità costituzionale ha l’obiettivo essenziale di mantenere gli incontri intramurari all’interno di determinati “gruppi di socialità” e di converso di evitare contatti fra detenuti facenti parte di diversi gruppi.
Quindi i gruppi di socialità rappresentano la modalità prescelta dal legislatore per conciliare, da una parte, la finalità essenziale del regime differenziato (evitare che i più pericolosi possano mantenere vivi i loro collegamenti con le organizzazioni criminali di riferimento) e, dall’altra, l’esigenza di garantire le forme indispensabili di socialità.
La Corte Costituzionale, procede a valutare la legittimità della disposizione censurata alla luce dei parametri costituzionali richiamati dal collegio rimettente.
In ordine all’articolo 3 della Carta Costituzionale, la Consulta afferma che in violazione dello stesso, il divieto di scambiare oggetti, nella parte in cui si applica anche ai detenuti inseriti nel medesimo gruppo di socialità, non risulta né funzionale né congruo rispetto alla finalità tipica ed essenziale del provvedimento di sottoposizione del singolo detenuto al regime differenziato, consistente nell’impedire le sue comunicazioni con l’esterno.
In queste condizioni non è giustificata la deroga, da tale divieto disposta alla regola valida ordinariamente per i detenuti, che possono scambiare fra di loro oggetti di modico valore (art. 15, comma 2, D.P.R. n. 230 del 2000), e la proibizione in parola finisce per assumere un significato meramente afflittivo, in violazione anche dell’articolo 27, comma 3 Cost.
A sostegno del proprio ragionamento la Consulta adduce il fatto che i detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità hanno diverse occasioni di comunicare qualsiasi messaggio fra di loro in forma orale, senza essere ascoltati. Ciò in special modo accade nelle due ore giornaliere d’aria, nei cosiddetti “cortili passaggio” nonché laddove predisposte nelle “salette” adibite a biblioteca, palestra e sala hobby, per l’attività in comune di tipo culturale, ricreativo e sportivo, possibile per un’ora al giorno.
Pertanto, potendo i detenuti già agevolmente comunicare in varie occasioni, non hanno di regola la necessità di ricorrere a forme nascoste o criptiche di comunicazione, come lo scambio di oggetti cui sia convenzionalmente assegnato un certo valore.
La valutazione non muta neanche laddove la ratio dell’applicazione del divieto all’interno del medesimo gruppo di socialità è ravvisata nel fine di impedire che taluno dei appartenenti al gruppo, possa acquisire attraverso lo scambio di oggetti, una posizione di supremazia nel contesto penitenziario.
A riguardo la Corte rimarca come abbia già in altre occasioni affermato che, il manifestarsi all’interno del carcere di forme di potere dei detenuti più forti i facoltosi, deve essere impedito “attraverso la definizione e l’applicazione rigorosa ed imparziale delle regole del trattamento carcerario” e “non potrebbe, per converso, considerarsi legittimo, a questo scopo, l’impiego di misure più restrittive nei confronti dei singoli detenuti in funzione di semplice discriminazione negativa, non altrimenti giustificata, rispetto alle regole e ai diritti valevoli per tutti” (sentenza n. 186 del 2018).
Infine, la Corte evidenzia come a costituire misura sproporzionata è la previsione ex lege del divieto assoluto di scambiare oggetti.
Invero, sia cuocere cibi sia scambiare oggetti sono facoltà dell’individuo anche se posto in detenzione che fanno parte di quei “piccoli gesti di normalità quotidiana” (sentenza n. 186/2018) tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la libertà del detenuto stesso (sentenza n. 349 del 1993, seguita dalle sentenze n. 20 e 122 del 2017).
Ragione per cui secondo la Corte la compressione della possibilità di scambiare oggetti con gli altri detenuti del medesimo gruppo, potrebbe giustificarsi non in via generale e astratta ma solo se, nelle condizioni date, sussiste la necessità di garantire la sicurezza dei cittadini.
In ogni caso, anche dopo la sentenza in commento, resterà consentito all’amministrazione penitenziaria di disciplinare le modalità di effettuazione degli scambi fra detenuti facenti parte del medesimo gruppo nonché predeterminare le condizioni per introdurre eventuali limitazioni che dovrebbero risultare giustificate da specifiche esigenze espressamente motivate, di volta in volta sindacabili dal Magistrato di Sorveglianza.
Per le ragioni suesposte la Consulta dichiara illegittimo l’art. 41 bis, comma 2 quater, lettera f), ordin. penit. nella parte in cui prevede l’adozione delle necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata «la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti» anziché «la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità».
[1] A.DELLA BELLA Il “Carcere duro” tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali – presente e futuro del regime detentivo speciale ex art.41 bis O.P. cit.,375
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