La Corte di Cassazione demonizza la sindrome da alienazione parentale
Cos’è la sindrome da alienazione parentale e perché la Cassazione la demonizza
Lo statunitense Richard Gardner negli anni ’80 definisce la Parental Alienation Syndrome o PAS come un disturbo che insorge nel contesto di controversie fra genitori per la custodia dei figli minori, come una sorta di “programmazione” dei figli da parte di un genitore patologico (cd alienante) che condizionerebbe negativamente i minori nel giudizio nei confronti dell’altro genitore.
Ciò avverrebbe attraverso l’uso di espressioni disprezzanti riferite all’altro genitore, false accuse di trascuratezza o violenze.
Quanto sopra non dovrebbe, però, trovare giustificazione in reali mancanze del genitore cd alienato.
Gardner delinea i criteri e gli elementi da considerare per giungere alla diagnosi di PAS.
Tali teorie sono da sempre state oggetto di critica sia dal punto di vista della loro valenza legale che da quello strettamente clinico, tant’è che non vengono nemmeno menzionate nel “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali” né considerate dall’APA (American Psychological Association).
Con la recentissima ordinanza n. 286 sez. del 24.03.22 la Corte di Cassazione ha escluso la caratteristica di scientificità della PAS, sia in termini assoluti che come strumento probatorio nei giudizi in ordine all’affido dei minori di coniugi separati o divorziati.
La Suprema Corte ha evidenziato la preminenza dell’interesse del minore, rispetto all’esigenza del genitore di vedersi riconosciuto l’affido invocando aprioristicamente il principio di bigenitorialità.
Così si legge nell’ordinanza: “il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale e ad ogni suo, più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario, non può dirsi legittimo, costituendo il fondamento pseudoscientifico di provvedimenti gravemente incisivi sulla vita dei minori (…)” .
Già in passato, tra il 2019 ed il 2021, la Suprema Corte aveva stabilito che l’affido esclusivo di un minore ad un genitore non potesse fondarsi solo sulla diagnosi di sindrome da alienazione parentale.
Per contro, negli anni, la CEDU ha sancito che si determina una violazione dell’art. 8 della Convenzione qualora un genitore attui dinamiche alienanti nei confronti dell’altro, impedendo a quest’ultimo ed al proprio figlio di esercitare liberamente il diritto di visita (CEDU sent. 9.01.07 ric. 26634/03).
L’ordinanza della Corte di Cassazione del 24.03.2022 trae le mosse dalla verifica se il decreto della Corte d’Appello oggetto di impugnazione abbia fatto buon governo delle norme in ordine alla finalità di realizzare il diritto del figlio alla bigenitorialità e dunque il miglior interesse dello stesso, costituente la ratio sottesa ad ogni statuizione sull’affidamento dei minori e se la legittima realizzazione della bigenitorialità possa o meno incontrare un limite nell’esigenza di evitare un trauma allo sviluppo fisico e cognitivo del minore.
Il provvedimento del Supremo Collegio richiama la precedente giurisprudenza, secondo la quale “in tema di affidamento di figli minori qualora un genitore denunci comportamenti dell’altro, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una sindrome di alienazione parentale (PAS), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità del fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità od invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità ed alla crescita equilibrata e serena” (Cass. n. 6919/16; n. 7041/13).
Nella recente ordinanza si dà particolare rilievo all’ascolto dei minori nei procedimenti, come quello in esame, che li riguardano e ciò con modalità e forme adeguate, senza pregiudizi di sorta, anche al fine di un esame obiettivo delle capacità di autodeterminazione degli stessi, intese come “competenze specifiche” dei minori legate alle capacità cognitive e relazionali, a prescindere da eventuali condizionamenti.
La Corte, in definitiva, è critica nei confronti della valenza scientifica dell’accertamento della sussistenza della PAS e valorizza, per contro, altri elementi, primo fra tutti un adeguato ascolto dei soggetti che, seppur minori, sono i protagonisti indifesi dei giudizi tanto delicati quanto, talvolta, aprioristicamente condizionati.
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Avv. Federica Severino
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