La Corte di Cassazione sul naufragio della Costa Concordia. Cass. pen., Sez. IV, 12.05.2017, n. 35585

La Corte di Cassazione sul naufragio della Costa Concordia. Cass. pen., Sez. IV, 12.05.2017, n. 35585

La fattispecie

Il 13 gennaio 2012, alle 21:45, la grande nave da crociera Costa Concordia, agli ordini del comandante Francesco Schettino, urtava contro uno scoglio a soli 175 metri dall’Isola del Giglio, cagionando l’apertura di una falla imponente sullo scafo e il suo progressivo affondamento sulla fiancata destra.

Nelle ore successive si verificava una condizione di grave emergenza, che rendeva necessaria l’attivazione delle operazioni volte al salvataggio delle oltre 4.000 persone presenti a bordo della nave e che, tragicamente, causava il decesso di 32 persone tra passeggeri ed equipaggio ed il ferimento di altre 193.

La Quarta Sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 35585 del 12.05.2017, ha esaminato tale nota vicenda e condannato in via definitiva il comandante a 16 anni di reclusione[1].

Nel corso del processo venivano addebitati al comandante della nave e ad alcuni membri dell’equipaggio i delitti di naufragio aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 3 cod. pen., omicidio colposo plurimo e lesioni personali colpose. Al solo comandante veniva poi contestato il delitto di abbandono di nave o di aeromobile in pericolo, previsto dall’art. 1097 cod. nav., nonché il reato di abbandono di persone minori o incapaci, ex art. 591 cod. pen. commesso in danno dei passeggeri.

La pronuncia in esame ha, pertanto, affrontato le questioni giuridiche postesi in ordine a due distinti aspetti riguardanti da un lato la causazione colposa del naufragio della nave da crociera e dall’altro la gestione dell’emergenza cui erano conseguiti i delitti colposi di omicidio e lesioni personali.

I profili soggettivi della condotta: la colpa cosciente.

La Corte ha, in primo luogo, esaminato la questione riguardante l’aggravante della colpa con previsione (art. 61 n. 3 cod. pen.) riconosciuta dalle pronunce di merito con riferimento alla fase della navigazione fino al momento dell’impatto con il fondale e del conseguente naufragio ed esclusa, invece, con riferimento alla fase successiva e, più specificamente, relativamente ai decessi e alle lesioni conseguenti alle modalità di gestione dell’emergenza da parte dell’imputato.

La Quarta Sezione, anzitutto, ripercorre l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità in relazione alle diverse teorie sull’individuazione dei criteri distintivi tra colpa cosciente e dolo eventuale.

La colpa cosciente o colpa con previsione costituisce il contenuto della circostanza aggravante comune disciplinata dall’art 61 n. 3 cod. pen, che prevede un aumento di pena per chi, nei delitti colposi, abbia agito nonostante la previsione dell’evento.

La S.C. ha richiamato in termini adesivi il noto arresto delle Sezioni Unite n. 28343 del 24/4/2014, che ha individuato in modo chiaro l’essenza della colpa cosciente marcando una netta linea di confine con il dolo eventuale, sostenendo che: “nel dolo eventuale l’accettazione da parte dell’agente della concreta possibilità, intesa in termini di elevata probabilità, di realizzazione dell’evento accessorio allo scopo conseguito in via primaria: l’agente, pur non avendo avuto di mira un determinato accadimento, ha tuttavia agito anche a costo di realizzarlo, sicchè lo stesso non può considerarsi non riferibile alla determinazione volitiva. Si versa invece nell’ambito della colpa cosciente quando l’agente abbia posto in essere la condotta nonostante la rappresentazione dell’evento, ma ne abbia escluso la possibilità di realizzazione, non volendo né accettando il rischio che quel risultato si verifichi, nella convinzione o nella ragionevole speranza di poterlo evitare.”

La Quarta sezione ha dunque concluso per cui, sebbene accomunati dalla “previsione dell’evento”, il dolo eventuale e la colpa cosciente sono figure che si pongono su piani ben distinti della soggettività giuridica: “nel dolo eventuale l’agente pone in essere la condotta antidoverosa voluta, non solo nella consapevolezza del rischio della realizzazione di un evento concretamente rientrante nella prevedibilità, ma accetta l’evento medesimo quale ulteriore esito della sua azione od omissione; nella colpa cosciente invece l’autore si rappresenta solo l’astratta previsione di un evento, tra gli esiti possibili della sua condotta attiva od omissiva, ma ne sottostima fino ad escluderle le probabilità di verificazione”. Nella colpa cosciente non è sufficiente la prevedibilità, ma è necessaria la previsione dell’evento ossia la prova che l’agente si sia in concreto rappresentato l’evento quale possibile/probabile conseguenza della sua condotta, pur nel convincimento di evitarlo.

Poste tali premesse il collegio ha ritenuto che la pronuncia della Corte d’appello di Firenze impugnata abbia correttamente applicato gli enunciati principi giurisprudenziali ravvisando in un’ipotesi delittuosa (omicidi e lesioni) la colpa semplice e nell’altra (naufragio) la colpa con previsione.

Con riferimento al primo aspetto, infatti, con un giudizio ritenuto logicamente e giuridicamente corretto i giudici di merito non hanno ravvisato nella condotta dell’imputato elementi di natura sintomatica da cui dedurre in maniera certa che l’evento fosse stato da lui effettivamente previsto, dovendosi escludere che il quid pluris connotante la colpa cosciente potesse essere costituito dalla sola gravità delle violazioni compiute, e che potessero in tal senso assumere rilievo la gravità della falla e il carattere catastrofico delle prime informazioni, le dimensioni della nave ed il numero dei passeggeri nonché le numerosissime inosservanze delle procedure poste a tutela della vita e della salute delle persone a bordo. Tali elementi, sebbene idonei a dimostrare che un agente modello avrebbe previsto il pericolo di decessi o lesioni, in ragione di quella situazione astratta complessiva (rappresentazione astratta dell’evento), non dimostravano che l’imputato, in concreto, si fosse effettivamente rappresentato quella situazione.

Per altro verso, sono stati esclusi profili di contraddittorietà della decisione impugnata nella parte in cui l’aggravante in esame è stata ritenuta con specifico riferimento al reato di naufragio colposo, in quanto il comandante della nave, pur consapevole della presenza di bassi fondali e di scogli in prossimità dell’isola del Giglio, aveva ordinato di modificare la rotta programmata per transitare a distanza ravvicinata dalla costa e fino all’ultimo non aveva receduto da tale decisione, confidando nelle proprie capacità marinaresche e ritenendo di essere in grado di evitare il concretizzarsi del rischio di impatto.

Le condotte di abbandono. 

Dopo aver analizzato i profili soggettivi delle condotte attribuite all’imputato con riferimento al reato di naufragio, la Corte ha approfondito la tematica relativa ai reati di cui agli artt. 591 cod. pen. e 1097 cod. nav. essendo altresì contestato al comandante della nave Costa Concordia di non aver lasciato per ultimo l’imbarcazione durante la fase del naufragio e di avere abbandonato in una situazione di grave pericolo sia i passeggeri che i membri dell’equipaggio.

Nella pronuncia risulta esaminato, in particolare, il significato da attribuire alla condotta di abbandono imputabile al comandante di nave sotto tre distinti profili.

Il primo profilo, in ordine al reato di cui all’art. 1097 cod. nav., riguarda la nozione di abbandono in termini generali. Il collegio ha preso in considerazione gli arresti giurisprudenziali ed i contributi di dottrina relativi al diverso reato di abbandono di persone minori o incapaci, previsto dall’art. 591 cod. pen., osservando come la condotta delineata dalla norma possa consistere in qualsivoglia azione od omissione che comporti il distacco o l’allontanamento del soggetto attivo dal luogo, dalla persona o dalla cosa abbandonate e sottoposte alla sua cura e alle sue funzioni di garanzia, in modo tale da non esercitarvi il controllo, la cura, la custodia, o comunque da non svolgere le attività doverose nell’ambito del rapporto intercorrente fra il detto soggetto attivo e la cosa, la persona o il luogo abbandonati. Rilevata, inoltre, la natura permanente dei reati di abbandono la Corte ha nondimeno considerato che essa è, però, collegata non alla definitività dell’abbandono, ma al fatto che la condotta si protragga per il tempo dell’abbandono medesimo e che persista la coscienza e volontà di abbandonare, da parte del soggetto attivo. La nozione di abbandono è dunque configurabile anche nel caso in cui l’abbandono non sia assoluto e definitivo, ma soltanto relativo e temporaneo, sempreché dalla condizione di abbandono consegua l’impossibilità per le vittime di fronteggiare la necessità di assistenza emergente dalla situazione concreta.

In merito al secondo profilo, attinente alla correlazione fra la condotta di abbandono ex art. 1097 cod. nav. e i doveri (e la posizione di garanzia) del comandante, la Suprema corte ha individuato la fonte della posizione di garanzia che grava sul comandante di nave nell’ordinamento della navigazione marittima di cui al codice della navigazione, in base al quale egli ha l’obbligo di sovraintendere a tutte le funzioni che attengono alla salvaguardia della incolumità collettiva delle persone imbarcate e della nave, ivi comprese le operazioni di salvataggio dei passeggeri e di evacuazione (si richiamano in particolare gli artt. da 292 a 315 del codice della navigazione nonché le ulteriori disposizioni di cui agli artt. 186 e ss., e l’art. 409, riguardante la responsabilità del vettore per i danni alle persone in caso di sinistri durante la navigazione). La Corte ha dunque affermato il principio secondo cui “in tema di reato di abbandono della nave in pericolo (art. 1097 cod. nav.), l’obbligo del comandante di abbandonare la nave per ultimo e di mantenere il comando nel pericolo, previsto dall’art. 303, comma secondo, cod. nav., gli impone di restare a bordo dell’unità in pericolo per coordinare tutte le procedure finalizzate al salvataggio dei passeggeri e dell’equipaggio fino a quando l’esercizio del comando abbia una concreta utilità”. La norma in esame esige quindi che il comandante della nave, quale primo garante della nave e delle persone e delle cose imbarcate, resti a bordo dell’unità in pericolo per coordinare tutte le procedure finalizzate al salvataggio dei passeggeri e dell’equipaggio, essendo l’effettività della posizione di garanzia da lui ricoperta a giustificare il dovere impostogli dalla disposizione in esame. Alla luce di tale principio è stata conseguentemente ritenuta esente da censure la sentenza di merito che aveva affermato la responsabilità del comandante della nave che si era allontanato dalla plancia dei comandi senza strumenti di comunicazione e aveva abbandonato definitivamente l’unità navale che stava progressivamente affondando, nonostante la segnalata presenza di passeggeri ancora a bordo.

Quanto infine all’ultimo profilo, concernente i rapporti tra il delitto di cui all’art. 591 cod. pen. e quello di cui all’art. 1097 cod. nav., la Corte ha ritenuto che le due fattispecie possano concorrere fra loro e che non sia configurabile alcun concorso apparente di norme, né alcun rapporto di specialità tra le due disposizioni incriminatrici. Il reato di abbandono di persone minori o incapaci, invero, a differenza dell’ipotesi delittuosa di cui all’art. 1097 cod. nav., che punisce la condotta del comandante che non scenda per ultimo dalla nave che versi già in condizioni di pericolo, richiede che la situazione di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l’incolumità del soggetto passivo sia diretta conseguenza della violazione di uno specifico dovere giuridico di cura o di custodia, che incombe su determinate persone o categorie di persone e presenta una differente oggettività giuridica, costituita dal valore etico-sociale della sicurezza della singola persona fisica abbandonata contro determinate situazioni di pericolo, a fronte della incolumità collettiva delle persone a bordo e della salvezza della nave tutelate dalla seconda fattispecie. Ne discende, conclusivamente, la correttezza e la condivisibilità delle decisioni di merito che avevano affermato la responsabilità dell’imputato essendosi accertato che egli aveva abbandonato la nave nella consapevolezza che a bordo vi erano ancora persone presenti essendosi allontanato dalla plancia senza neppure prendere con sé una radio con cui comunicare con il resto dell’equipaggio ed avendo quindi egli voluto, quanto meno in termini di dolo eventuale, abbandonare la nave e le persone a bordo della stessa.


[1] Di cui 5 anni per il naufragio colposo previsto dall’art. 449, comma 2, c.p., in riferimento all’art. 428 c.p. (4 anni di pena base, aumentati di un anno per effetto dell’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 3, c.p.); ulteriori 10 anni per i delitti colposi plurimi di omicidio e lesioni personali, aggravati dalla violazione della normativa per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (5 anni di pena base per la morte della più piccola delle vittime, di quasi sei anni di età, raddoppiati per gli altri 31 morti e i 193 feriti); infine, 1 anno aggiuntivo di reclusione per l’allontanamento dalla nave (8 mesi per il reato di abbandono di persone incapaci ex art. 591, comma 1, c.p., lievitati ad 1 anno per effetto del concorso formale con il reato di abbandono di nave in pericolo da parte del comandante ai sensi dell’art. 1097 cod. navig.).


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Martina Mazzei

Dottoressa in giurisprudenza con 110 e lode presso l’Università degli Studi di Roma Tre. Ha svolto un periodo di ricerca tesi all’estero, in Francia, presso la “Bibliothèque nationale de France” ai fini della redazione della tesi sperimentale in procedura civile dal titolo “Il potere del giudice di interpretazione della domanda giudiziale”, relatore Prof. Antonio Carratta. Durante il periodo universitario ha collaborato tre anni con l’Ufficio legale e contenzioso dell’Università degli studi di Roma Tre. Svolge la pratica forense, a Roma, presso lo studio legale “Cuggiani, Necci e associati”. Tirocinante ex. art. 73 l. 69/2013 presso Procura Generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Roma. Si occupa prevalentemente di diritto civile e procedura civile ed è autrice di alcuni articoli e approfondimenti in Procedura civile.

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