La Corte EDU condanna la Russia per violazione dell’art. 3 Convenzione

La Corte EDU condanna la Russia per violazione dell’art. 3 Convenzione

Il caso Kurkish ed altri contro Russia

Il presente contributo tratta del ricorso n. 62003/ 20008 presentato contro la Federazione Russa dal sig. KURSISH e da altri cinque cittadini russi, le cui istanze venivano esaminate insieme alla principale ai sensi dell’art. 34 della Convenzione Europea per i Diritti Umani

In fatto

– Il caso principale riguardava l’arresto del sig. Kursish a Lermontov la sera del 25 luglio 2007 ad opera della polizia stradale russa, con l’accusa di guida in stato di ebbrezza.

L’istante lamentava che due agenti di polizia avessero usato violenza fisica durante le attività di controllo, storcendogli le braccia e picchiandolo dietro la schiena, sbattendolo contro l’automobile ed usando manovre di strangolamento.

Tutte queste lesioni venivano certificate il giorno successivo mediante visita medica, ma gli ufficiali di polizia, nelle proprie relazioni di servizio, scrivevano che il fermato aveva colpito un agente durante i controlli, per cui erano stati costretti ad impiegare forza contenitiva ed ammanettarlo nell’operare l’arresto.

L’indagine interna della polizia confermava la legittimità dell’operazione e nonostante il ricorrente avesse denunciato quanto subito, la procura aveva archiviato il caso.

Il Tribunale competente, adito dal Kursish in data 3 ottobre 2007, ordinava alla Procura di aprire di nuovo l’indagine e nel contempo, dopo aver valutato la versione difensiva fornita dagli agenti, assolveva dall’accusa di maltrattamenti la polizia russa, condannava il ricorrente per violenza e resistenza a pubblico ufficiale e guida in stato di ebbrezza, nel contempo giudicando proporzionale la forza usata dagli agenti durante l’arresto.

La corte di appello confermava la condanna e nel 2013 il fascicolo processuale veniva distrutto come per legge.

– La Corte UE esamina congiuntamente al principale anche il caso CHALENKO c. RUSSIA, n. 27965/10.

Il ricorso si riferisce ad eventi del 6 settembre 2008, allorquando a Voronezh agenti di polizia russa arrestavano il ricorrente con l’accusa di lesioni personali, conducendolo in commissariato, laddove l’individuo firmava la propria confessione.

La denuncia menzionava la permanenza del ricorrente nell’ufficio di polizia per circa due o tre ore, durante le quali sarebbe stato picchiato e preso a calci su varie parti del corpo, nonché torturato con corrente elettrica alle manette, alle orecchie, al collo e all’inguine, per il detenuto cui si vedeva costretto a rilasciare dichiarazioni auto incriminanti.

Nei giorni successivi il Chalenko veniva sottoposto a visite mediche e mentre la prima riscontrava solo un’abrasione sulla coscia destra ed una contusione sulla natica destra, il secondo il referto medico legale dell’8 settembre 2008, certificava contusioni alla spalla destra, al torace, al regione lombare, sulla coscia destra ed abrasioni sull’avambraccio sinistro, ipoteticamente causate con un oggetto contundente duro.

Il Chalenko sporgeva denuncia, ma la Procura subito archiviava così da costringerlo ad adire il tribunale competente e nelle more della decisione, il procuratore capo decideva di riaprire l’indagine.

La relazione di servizio della polizia datata 6 ottobre 2008 confutava la responsabilità degli ufficiali nel lamentato maltrattamento del ricorrente perché le dichiarazioni testimoniali erano contraddittorie. Il ricorrente di nuovo faceva richiesta di indagine nel novembre 2008 contro le accuse di resistenza a pubblico ufficiale, ma la Procura concludeva che le lesioni erano state inflitte durante l’arresto con un uso della forza fisica da parte degli agenti giustificato e legittimo, senza parlare però di proporzionalità.

Il ricorrente quindi impugnava la decisione e veniva condannato il 6 agosto 2009 dal tribunale distrettuale che rigettava la sua istanza. Il 4 febbraio 2014 il fascicolo processuale veniva distrutto per decorrenza dei termini di conservazione.

– La Corte Edu esaminava anche il caso ZAYTSEVA c. RUSSIA, n. 4878/15 che attiene a fatti del 15 settembre 2012, allorquando la ricorrente aveva modo di partecipare ad una manifestazione non autorizzata a Nizhniy Novgorod, durante la quale, secondo la sua versione, in reazione al suo tentativo di togliergli il casco, veniva colpita con un manganello da un agente di polizia e cadeva a terra, perdendo conoscenza.

Secondo il referto medico dell’ospedale ove veniva trasportata, la ricorrente aveva subito una lesione craniocerebrale chiusa con commozione cerebrale ed un livido dei tessuti molli sul cuoio capelluto.

Nonostante la denuncia del 15 settembre 2012 il procedimento veniva archiviato e la procura rifiutava di riaprirlo in almeno tre occasioni.

Il 24 marzo 2013 la procura rifiutava ancora una volta di riavviare le indagini, basandosi sulle dichiarazioni degli agenti di polizia e di testimoni oculari, secondo cui i manifestanti stavano cercando di ostacolare l’arresto di un loro amico e l’agente aveva reagito con un colpo di manganello sull’avambraccio della ricorrente, ma non in testa.

L’indagine interna della polizia concludeva che l’uso dello strumento sfollagente era stato legittimo senza operare però una valutazione della proporzionalità dell’uso della forza da parte dell’ufficiale contro la ricorrente.

Il rifiuto della procura veniva dunque impugnato davanti al tribunale distrettuale di Nizhegorodskiy che rigettava il ricorso, che veniva ripresentato dinanzi al tribunale regionale di Nizhniy Novgorod. Nel frattempo, il 14 novembre 2013 il rifiuto di riapertura delle indagini veniva annullato in sede di autotutela, ma dopo una ennesima archiviazione il Tribunale distrettuale in data 24 settembre 2014 accoglieva il ricorso e veniva avviata una nuova indagine preliminare ancora in corso al momento del ricorso alla CEDU.

– Il quarto ricorso esaminato unitamente agli altri sopra è quello di GRECHIN c. RUSSIA, 32572/16 e si riferisce a fatti del 23 maggio 2015, quando agenti di polizia stradale russa, in presenza di due testimoni, arrestavano il ricorrente a Perm con l’accusa di guida in stato di ebbrezza, conducendolo in un commissariato.

Il sig. Grechin denunciava che lungo il tragitto verso la stazione di polizia era stato colpito in faccia ed una volta arrivati gli veniva più volte sbattuta la testa contro il muro nel corridoio. Dalla visita medica del centro traumatologico al quale aveva fatto ricorso, venivano accertati lividi e edema di entrambi i polsi causati dalle manette.

Gli operanti trasmettevano una relazione al loro superiore scrivendo che il ricorrente era ubriaco e li aveva insultati, per cui avevano dovuto ammanettarlo per impedirgli di fuggire. Il 23 maggio 2015 il ricorrente sporgeva denuncia per gli asseriti maltrattamenti subiti e subito veniva sottoposto a consulenza tecnica d’ufficio, mediante la quale si stabiliva una contusione all’occhio sinistro ed abrasioni multiple agli arti superiori e sul torace causate con oggetti contundenti rigidi.

Nel giugno 2015 gli inquirenti archiviavano il caso affermando che secondo gli ufficiali e due testimoni oculari, il fermato aveva rifiutato di sottoporsi ad etilometro e mentre uno degli agenti stava redigendo il verbale, lo stesso aveva aggredito la polizia con grida ed insulti, ovvero colpendo il telefono cellulare nelle mani di un agente, per cui era stato ammanettato.

Sulla base delle dichiarazioni di non aver usato forza fisica e della video registrazione dell’arresto, la procura chiudeva il caso, senza occuparsi però dell’origine delle lesioni riscontrate sul richiedente.

Il tribunale distrettuale di Permskiy respingeva l’atto del ricorrente avverso l’archiviazione e nel 2015 il tribunale regionale di Perm confermava la decisione, mentre nel contempo il sig. Grechin veniva condannato per violenza e resistenza contro pubblico ufficiale, essendo stato provato tramite testimoni che il ricorrente durante il controllo di polizia aveva insultato gli agenti ed aveva colpito la mano di uno degli operanti mentre stava videoregistrando con il cellulare il suo arresto, prendendo infine a calci un altro poliziotto.

Il ricorrente rifiutava l’addebito asserendo che gli ufficiali avevano usato una forza fisica sproporzionata contro di lui e gli avevano imposto inutilmente le manette, ma il tribunale lo condannava a due anni di reclusione.

– Il quinto caso esaminato dalla Corte è denominato V. ZHUKOV c. RUSSIA, n.

6809/18 e riguarda fatti del 5 novembre 2016, quando due agenti di polizia arrestavano il ricorrente nel suo appartamento di Ivanovo e lo conducevano in una stazione di polizia. Secondo il sig. Zhukov, entrati nel suo appartamento, gli agenti lo avevano colpito alle costole, poi lo avevano fatto cadere a terra, continuando a picchiarlo.

Verso mezzanotte del 6 novembre 2016 infatti veniva chiamata un’ambulanza su richiesta del ricorrente che era trasportato in ospedale e subiva un intervento chirurgico per un pneumotorace causato da una costola fratturata.

Il 22 novembre 2016 il ricorrente presentava una denuncia per quanto subito e nell’allegata perizia medico legale erano diagnosticate abrasioni al torace e una frattura della sesta costola sinistra con lacerazione polmonare e perdita d’aria nello spazio pleurico sinistro, inflitta da un colpo con un oggetto contundente duro non più di dodici ore prima del ricovero in ospedale.

Il 4 maggio 2017 la procura archiviava il procedimento penale richiamando la versione fornita dagli agenti che avevano entrambi affermavano di essere intervenuti a casa del ricorrente dietro chiamata della moglie che lamentava di essere vittima di violenza domestica. Il ricorrente risultava ubriaco, si era comportato in modo aggressivo e aveva insultato gli ufficiali, tentando di spingerli fuori dall’appartamento e poi colpendone uno alla testa, per cui l’altro era stato costretto ad applicare un metodo di contenzione, tirandogli le braccia dietro la schiena ed ammanettandolo.

In difetto di altri testimoni la procura concludeva che le ferite riportate dal ricorrente erano da ricondurre ad un uso “ragionevole” della forza da parte degli agenti.

Il 31 maggio 2017 il tribunale distrettuale di Frunzenskiy a Ivanovo respingeva il ricorso avverso la menzionata archiviazione ed Il tribunale regionale di Ivanovo confermava la decisione, mentre nel maggio 2017 il tribunale distrettuale condannava a 4 anni e sei mesi di reclusione il ricorrente per il reato di violenza e resistenza contro pubblico ufficiale, basandosi sulle relazioni di servizio secondo cui lo stesso aveva colpito un poliziotto in testa, cagionandogli una lesione craniocerebrale e una commozione cerebrale.

Il ricorrente presentava appello, sostenendo che erano stati gli agenti ad infliggergli lesioni picchiandolo e che lo stato si era rifiutato di indagare, tuttavia il tribunale confermava la decisione.

– Infine la Corte si è occupata del sesto ricorso, denominato SM c. RUSSIA, n. 35015/18, relativo a fatti del 26 e 27 gennaio 2016, allorquando agenti di polizia russa prelevavano la ricorrente e suo marito poiché rinvenuti in stato di ubriachezza molesta e li conducevano in una stazione di polizia a Magnitogorsk, nella regione di Chelyabinsk.

Secondo la ricorrente, un poliziotto l’aveva trascinata fuori di casa, spingendola più volte contro il furgone della polizia e gettandola per terra, continuando a trascinarla anche una volta arrivati in caserma, toccandola nella parte posteriore e sul seno contro una griglia metallica. Inoltre la ricorrente lamentava di essere stata toccata in modo inappropriato, denunciando anche un tentativo di violenza sessuale.

Nel gennaio 2016 la ricorrente presentava denuncia per quanto subito, allegando un referto medico legale nel quale erano stati riscontrate contusioni multiple sulla spalla destra, avambraccio sinistro, e scapola destra, nella regione iliaca destra e lombare sinistra, su entrambe le cosce e nella fossa del ginocchio sinistro.

Era emerso nel contempo che le ferite fossero state inflitte con oggetti contundenti duri e la successiva visita ginecologica accertava lesioni anche nell’area ano genitale della ricorrente, sebbene non vi fossero tracce biologiche.

Nel maggio 2016 la procura archiviava il caso per insufficienza di prove sulla commissione del reato, perché la testimonianza del marito della ricorrente non poteva considerarsi del tutto attendibile a causa del legame familiare.

Di contro gli agenti e i vicini di casa avevano dichiarato che nessuno aveva usato violenza sulla ricorrente e sul coniuge e che durante il trasporto in commissariato la ricorrente era caduta a terra perché molto ubriaca.

L’archiviazione veniva annullata per incompletezza delle indagini, poi nel luglio 2017 le stesse venivano chiuse.

Il tribunale distrettuale di Magnitogorsk esaminava il ricorso della signora SM, ma rigettava la domanda di risarcimento dei danni, con decisione confermata dal tribunale regionale di Chelyabinsk nel grado successivo.

Successivamente, nell’aprile 2018 il tribunale distrettuale di Leninskiy condannava la ricorrente per aver accusato falsamente gli ufficiali di lesioni e tentato stupro e nel giugno 2018 la condanna diveniva definitiva.

In diritto

Oltre alle pertinenti disposizioni di diritto interno russo riprese dalla sentenza Lyapin c. Russia, n. 46956/09, §§ 96-102 del 24 luglio 2014, va richiamato il principio più volte sancito dalla giurisprudenza della Corte EDU secondo cui le violenze subite durante operazioni di polizia integrano un “maltrattamento”, in quanto tale rientrante nel divieto di trattamenti inumani e degradanti previsto dall’art. 3 della Convenzione EDU.

La Corte evidenzia altresì che l’articolo 3 della Convenzione sancisce uno dei valori fondamentali della società democratica.

Vieta in termini assoluti la tortura, i trattamenti o le pene disumane o degradanti, indipendentemente dalle circostanze e dal comportamento della vittima (caso Kudła c. Polonia [GC], 26 ottobre 2000, n. 30210/96).

Quando un individuo rilascia una dichiarazione credibile in cui afferma di aver subito un trattamento in violazione dell’articolo 3) da parte della polizia o da appartenenti dello Stato, tale disposizione, letta in combinato disposto con il dovere generale dello Stato ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione di “garantire a tutti, all’interno della propria giurisdizione, i diritti e le libertà definiti nella Convenzione”, impone sempre di svolgere un’efficace indagine statale, in grado di portare all’identificazione ed alla punizione di eventuali responsabili (caso Labita c. Italia [GC], 6 aprile 2000, n. 26772/95).

Le accuse di maltrattamenti contrarie all’articolo 3 della Convenzione devono invero essere supportate da prove adeguate, ma per decidere i fatti la Corte Edu prescriveil raggiungimento della prova “oltre ogni ragionevole dubbio” (caso Irlanda c. Regno Unito, 18 gennaio 1978, n. 5310/71), prova che può derivare dalla coesistenza di elementi indiziari sufficientemente dotati dei consueti caratteri della gravità, precisione e concordanza o di analoghe evidenze probatorie, non superabili mediante presunzioni di fatto (caso Salman c. Turchia [GC], 27 giugno 2000, n. 21986/93).

Quanto all’ulteriore violazione procedurale dell’art. 13 della Convenzione, riscontrata nei caso in esame, i giudici di Strasburgo tradizionalmente affermano che il mero svolgimento di un’attività pre-investigativa, non seguita da un’indagine preliminare ufficialmente condotta, si rivela insufficiente affinché possa dirsi rispettato da parte delle autorità il requisito dell’accertamento efficace a fronte di accuse credibili di maltrattamenti da parte della polizia, sempre ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione (caso Lyapin c. Russia, 24 luglio 2014, n. 46956/09; più recentemente, caso Samesov c. Russia, 20 novembre 2018, n. 57269/14).

Pertanto, valutato che non fosse stata avviata una seria e credibile indagine al fine di escludere la credibilità delle accuse dei ricorrenti di essere stata esposti a violenze durante gli arresti, comporta che dette modalità vengano accertate dalla stessa Corte (caso Olisov e altri c. Russia, 2 maggio 2017, n. 10825/09).

Ulteriore principio di diritto invocabile nei ricorsi cui sopra sancisce la violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti cui l’art. 3 della Convenzione EDU, nonchè, sotto il profilo procedurale, la violazione dell’art 13 Convenzione EDU per mancato avvio di un’indagine preliminare effettiva a seguito delle accuse di maltrattamenti nel corso di un arresto, dovendosi considerare “superficiale ed inefficace” una mera indagine interna.

Riferimenti giurisprudenziali

Corte e.d.u. Kudła c. Polonia [GC], 26 ottobre 2000; Corte e.d.u. Labita c. Italia [GC], 6 aprile 2000; Corte e.d.u. Assenov ed altri c. Bulgaria, 28 ottobre 1998; Corte e.d.u. Salman c. Turchia [GC], 27 giugno 2000; Corte e.d.u. Söderman c. Svezia [GC], 12 novembre 2013; Corte e.d.u. Gutsanovi c. Bulgaria, 15 ottobre 2013; Corte e.d.u. Lyapin c. Russia, 24 luglio 2014; Corte e.d.u. Samesov c. Russia, 20 novembre 2018; Corte e.d.u. Olisov e altri c. Russia, 2 maggio 2017

Domande delle parti

La Corte ha ritenuto opportuno esaminare insieme i ricorsi perché connessi dal punto di vista oggettivo, trattandosi di condotte analoghe asseritamente tenute in violazione degli stessi articoli della convenzione.

Tutti i ricorrenti eccepivano la violazione degli artt 3 e 13 della convenzione lamentando di essere stati vittime di violenza da parte di funzionari statali e che non c’era stata alcuna indagine effettiva a seguito delle loro denunce alle pubbliche autorità.

Nell’adire la Corte di Strasburgo, basandosi in particolare sull’articolo 3 (divieto di trattamenti disumani o degradanti) e sull’articolo 13 (diritto ad un efficace rimedio) della Convenzione europea, tutti i ricorrenti eccepivano che le procedure di controllo e gli arresti fossero stati eseguiti con violenza inutile e non proporzionata e che fosse stato loro negato il diritto ad un’indagine pre-investigativa su quanto avevano denunciato, avendo le autorità pubbliche assunto un approccio superficiale e inadeguato.

Motivi della decisione della Corte

Le questioni preliminari in punto di ammissibilità dei ricorsi venivano risolte dalla Corte come segue.

Per quanto riguardava i casi Chalenko e S.M. sulle presunte torture con scariche elettriche e le accuse di aggressioni sessuali, le accuse non risultavano supportate da alcuna prova medica certa che consentisse di ritenere prima facie la loro verosimiglianza.

Ne conseguiva una dichiarazione in parte qua di manifesta infondatezza dei ricorsi ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convenzione.

Le restanti doglianze invece venivano considerate non manifestamente infondate ed ammissibili per cui la Corte acquisiva le prove sulle presunte accuse di maltrattamenti da parte di funzionari statali, in specie la documentazione medica, le testimonianze coerenti e dettagliate e le richieste mediante le quali i ricorrenti tentavano di indurre le autorità nazionali ad indagare su quando denunciato.

Nel merito, la Corte osservava che in tutti i casi, ad eccezione del ricorso di S .M., le autorità risultavano renitenti nello svolgimento delle indagini, rifiutando di condurre i procedimenti penali, e che la sola fase preistruttoria si rivelava incompatibile con le tutele imposte dall’articolo 3 della Convenzione.

Per quanto riguardava il caso della sig.ra S.M., il procedimento penale veniva aperto con un ritardo di oltre due mesi e mezzo, per poi essere successivamente chiuso e riaperto ancora, ma alla sua conclusione non era stato in grado di chiarire la causa delle lesioni sofferte dalla ricorrente.

Le autorità inquirenti inoltre avevano ritenuto credibili le sole versioni fornite dalla polizia coinvolta e nei casi Kursish, Chalenko, Zaytseva e Zhukov, quelle secondo cui le lesioni riportate dalle vittime erano da ricondursi all’uso legittimo della forza da parte degli ufficiali, senza valutare se l’uso di quella forza fosse in concreto necessario e proporzionato (vedi il precedente: Kuchta e Mętel c. Polonia, n. 76813/16, § 88, 2 settembre 2021).

In definitiva non era stata svolta un’indagine efficace come statuito dall’articolo 3 della Convenzione sulle accuse dei ricorrenti di maltrattamenti da parte di funzionari statali, violando i principi di diritto della convenzione così come enucleati nella sentenza Bouyid c. Belgio [GC], n. 23380/09, §§ 81-90, CEDU 2015, e Selmouni c. Francia [GC], n. 25803/94, § 87, CEDU 1999-V. 77.

Il governo russo d’altro canto non aveva neppure contestato l’autenticità dei certificati medici prodotti come prove dai ricorrenti , né aveva sostenuto che le lesioni fossero da ricondurre a prima dell’intervento della polizia (si veda, invece, Makhashevy c. Russia, n. 20546/07, § 125, 31 luglio 2012 domanda della Sig.ra S.M. (n. 35015/18), limitandosi a negare la ricorrenza di qualsivoglia violenza fisica.

In proposito, le risultanze dei periti medico legali riconducevano le ferite dei ricorrenti all’uso di oggetti contundenti duri, mentre le autorità di polizia non avevano neppure fornito una spiegazione ipotetica o alternativa a predette lesioni, limitandosi a dichiarare, con modalità vaghe e imprecise, che non potevano essere attribuite alle condotte degli agenti di polizia.

La Corte quindi prescindeva dalle versioni delle autorità perché insoddisfacenti e non convincenti e traeva di contro elementi di prova dal comportamento processuale del governo russo che ometteva di adempiere all’onere della prova, se non altro per contraddire sugli eventi, come supportati dalle prove mediche (vedi Bouyid, sopra citato, § 83, e Olisov e altri c. Russia, nn. 10825/09 e 2 altri, §§ 83-85, 2 maggio 2017).

Peraltro, nei casi Kursish (n. 62003/08) Chalenko (n. 27965/10), Zaytseva (n. 4878/15) Grechin (n. 32572/16) e Zhukov (n. 6809/18) la Russia neppure negava l’uso della forza fisica e dei metodi di contenzione utilizzati, ma li dichiarava leciti e proporzionati, considerato che gli stessi ricorrenti si erano comportati in modo aggressivo e violento, affermando che il Kursish, il Grechin e lo Zhukov avevano insultato ed aggredito la polizia, mentre per le vicende Chalenko e Zaytseva si riportavano solo alle indagini interne, dalle quali risultava che i ricorrenti avevano resistito al loro arresto.

Circostanza invero che la Corte non metteva in discussione, senza tuttavia poter prescindere dal giudicare se le lesioni subite dagli stessi fossero il risultato di una forza strettamente necessaria e proporzionata, e richiamando in sentenza la consolidata giurisprudenza secondo cui l’uso della forza da parte della polizia nel corso delle sue operazioni è legittima solo se indispensabile e non eccessiva, ovvero infine che l’onere di dimostrare questi due presupposti spetta sempre alle autorità di governo (vedi Ksenz e altri c. Russia, nn. 45044/06 e altri 5, § 94, 12 dicembre 2017, e Kuchta e Mętel, sopra citato, § 70).

Da un lato quindi Corte prendeva atto delle lesioni riportate e certificate dai ricorrenti, dall’altro dell’inerzia investigativa delle procure e dei tribunali nazionali che avevano fatto esclusivo riferimento alla presunta resistenza dei ricorrenti e non avevano valutato la proporzionalità della reazione degli agenti al comportamento dei ricorrenti, giudicando se l’uso della forza in quella misura fosse strettamente necessario in ogni contesto esaminato.

In ultima analisi non era stato stabilito dalle procure russe stabilito se un tale uso della forza fosse indispensabile e non eccessivo, avendo immotivatamente rifiutato di aprire un procedimento penale e facendo affidamento solo sulle dichiarazioni del funzionari implicati (vedi Ksenz e altri, sopra citata, §§ 94 e 103, e Sergey Ryabov c. Russia, n. 2674/07, § 47, 17 luglio 2018).

La Corte si soffermava da ultimo anche sulla considerazione che gli scenari in cui le condotte erano state adottate si rivelavano casuali e non preordinati, per cui i ricorrenti erano disarmati e in numero minore rispetto agli agenti di polizia operanti. Di conseguenza, in ogni confronto si mostravano più vulnerabili, ma il Governo russo neppure al riguardo aveva avanzato alcuna argomentazione così da fornire elementi di giudizio alla Corte (vedi Dzwonkowski c. Polonia, n. 46702/99, § 55, 12 aprile 2007).

Secondo la Corte, il ricorso alla forza fisica nei confronti di un individuo affrontato da agenti delle forze dell’ordine deve essere strettamente necessario dal comportamento della persona, altrimenti lede la dignità umana ed è in linea di principio una violazione del diritto cui all’articolo 3 della Convenzione (vedi Bouyid, sopra citata, §§ 88 e 100, e Ksenz e altri, sopra citato, § 94).

In considerazione delle lesioni riportate dai ricorrenti e confermate dal medico in funzione di prove, la Corte riteneva che i funzionari statali avessero sottoposto i ricorrenti a trattamento inumano e degradante ed avendo accertato il vulnus all’art. 3 del Convenzione, si rendeva di conseguenza superfluo valutare anche la violazione dell’articolo 13 della Convenzione (si veda Lyapin, sopra citata, § 144).

Da ultimo, nel caso Chalenko (n. 27965/10) si era eccepito, ai sensi dell’articolo 6 §§ 1 e 3 (c) della Convenzione, che le dichiarazioni confessorie del ricorrente fossero state utilizzate indebitamente per condannarlo, ma la Corte osservava che non ci fossero prove al riguardo e che lo stesso, debitamente rappresentato dal suo avvocato, si fosse sufficientemente difeso innanzi ai Tribunali Distrettuali o Regionali, respingendo la domanda in parte qua ai sensi dell’articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione per il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne.

Tutte le ulteriori istanze dei ricorrenti, alla luce del materiale probatorio dedotto e per quanto di competenza della corte, venivano respinte perché non soddisfacevano i criteri di ammissibilità cui agli artt. 34 e 35 della Convenzione o non rivelavano alcuna parvenza di violazione dei diritti e delle libertà tutelate.

Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione, la Corte, avendo rilevato la violazione della Convenzione o dei Protocolli e posto che il risarcimento fosse consentito dal diritto interno russo, provvedeva alla liquidazione dei danni alle parti lese, come da allegato alla sentenza, comprensiva di danni materiali, morali e spese.

Conclusioni

La sentenza esaminata conferma l’orientamento oramai consolidato della Corte EDU che mettendo in risalto i diritti umani dei consociati anche nei confronti delle autorità, qualifica queste ultime come soggetti deputati in prima istanza al rispetto della legalità e soprattutto alla tutela ed alla protezione delle posizioni individuali deboli.

Anche in occasione di operazioni di polizia o comunque espressive di esercizio di un potere istituzionale, le autorità dovranno sempre comportarsi secondo la legge, rispettando l’integrità psicofisica degli individui e senza mai far ricorso a vis fisica, a meno che non sia strettamente necessario e proporzionato al contesto in cui si agisce.

D’altro canto, la Corte torna a confermare il dovere degli organi di giustizia di assicurare le pretese processuali della collettività, garantendo l’effettività della risposta investigativa, se non altro attraverso l’espletamento delle dovute indagini del caso concreto.

Invero, il richiamo all’art 13 della convenzione ben potrebbe affiancare il disposto dell’art 8 medesima fonte convenzionale, laddove si proclama in capo a ciascun individuo, a prescindere da qualsivoglia nazionalità, il diritto al un giusto processo.

Trattasi di concetto ermeneutico all’interno del quale potrebbero confluire svariate riflessioni giuridiche anche di tipo comparativo, che potrebbero portare alla luce la preoccupante durata dei procedimenti giudiziari in ciascun stato membro unitamente alla flebile effettività che spesso, purtroppo, il sistema giustizia di alcuni paesi evidentemente assicura.


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