La crisi del principio di legalità interna: effetti espansivi e limitativi della giurisprudenza della CGUE

La crisi del principio di legalità interna: effetti espansivi e limitativi della giurisprudenza della CGUE

Sommario: Introduzione – 1. Il principio di legalità e di riserva di legge in materia penale – 2. L’incidenza del formante giurisprudenziale europeo: l’incompatibilità della c.d. riserva di diritto – 2.1. Gli effetti espansivi: la “saga Taricco” – 2.2. Gli effetti restrittivi

 

Introduzione

Il principio di legalità costituisce la più elevata garanzia che l’ordinamento elargisce nei confronti dei consociati.

Nell’ordinamento penale esso assume una cogenza più forte che in altri settori, poiché risponde all’esigenza secondo cui nessun individuo può essere perseguito per un fatto che non sia espressamente previsto come reato da una legge dello Stato, entrata in vigore prima del fatto stesso.

Questa definizione, per ciò che concerne il nostro ordinamento, la si trova consacrata nell’art.25 comma 2 Cost., grazie al quale il principio di legalità assurge a diritto fondamentale ed inviolabile dell’uomo, al pari dell’uguaglianza, della libertà personale, della salute e di tutti quei diritti che sono stati compendiati nell’art.2 Cost.

L’art.25 comma 2 Cost. integra l’art.1 c.p., nel quale ugualmente si afferma che nessuno può essere punito se il fatto non sia espressamente previsto dalla legge come reato, né si può infliggere una pena che non sia dalla legge stabilita.

A queste coordinate normative si deve collegare l’art.199 c.p., ove il medesimo principio viene esteso alle misure di sicurezza, in ossequio al diritto di libertà personale degli individui ex art.13 Cost.

Il principio di legalità è altresì enunciato nell’art.7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, promulgata a Roma nel 1950, nonché nell’art.49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, meglio nota come Carta di Nizza, la quale nel 2009 ha acquisito il medesimo rango giuridico dei Trattati per effetto dell’art.6 par.1 del Trattato dell’Unione europea, potendo così esplicare un’efficacia diretta nel nostro ordinamento per tutte quelle materie di competenza dell’Unione.

E’ imprescindibile precisare che il principio di legalità, sia nella CEDU che nella CDFUE, ha assunto un significato in parte diverso rispetto all’omologo italiano, che ha condotto la giurisprudenza interpretativa delle Corti europee a penetrare nel nostro ordinamento, non solo censurando le norme interne contrastanti, ma anche producendo effetti espansivi o in bonam partem e restrittivi o in malam partem sulla portata delle stesse.

Si osservi infatti che nell’art.49 par. 1 CDFUE di parla di “diritto” e non di “legge”, mentre nel par.3 si fa riferimento al principio di proporzionalità, il quale non è richiamato nel nostro art.25 comma 2 Cost., se non sotto la forma di un’interpretazione evolutiva del principio di colpevolezza e rieducazione del reo ex art.27 Cost.

1. Il principio di legalità e di riserva di legge in materia penale

Appurate quali sono le fonti normative del principio di legalità, è possibile comprenderne la ratio, poiché da essa si risale all’individuazione dei suoi corollari, con particolare riferimento al principio di riserva di legge, rispetto al quale se ne possono tratteggiare le differenze.

Come accennato in precedenza, il principio di legalità risponde ad un’esigenza estremamente garantista in favore dell’individuo, il quale, lungi dall’essere esposto agli arbitri del potere giurisdizionale ed esecutivo, deve essere messo in condizione di sapere, attraverso una legge scritta, che quel fatto costituisce un crimine e che quel crimine verrà perseguito in un determinato modo.

È quindi la previa conoscenza della fattispecie criminosa, attraverso una norma scritta rispettosa di certe caratteristiche, a far sì che il soggetto non sia sottoposto a creazioni arbitrarie o abusi da parte di poteri diversi da quello legislativo.

Partendo da tale presupposto, in dottrina si è distinto il principio di legalità in senso formale, da quello in senso sostanziale, allo scopo di individuare quale delle due tipologie rispecchi il nostro sistema.

Per principio di legalità formale si intende quella teoria ispirata al favor libertatis, secondo cui un fatto è antigiuridico solo se  tale è inteso da una legge formale, a prescindere da una valutazione sulla pericolosità sociale della condotta; invero, ai fini della qualificazione in termini di reato si deve guardare solo all’esistenza nell’ordinamento di una previsione scritta, chiara e precisa.

In tal senso, corollario necessario della legalità formale è il principio di riserva di legge, del quale al momento ci si limita ad affermare che è quel principio secondo cui solo la legge dello Stato, espressione della volontà popolare, può qualificare un fatto come reato.

Accanto ad esso si pone il principio di tassatività, nelle sue declinazioni di precisione, intesa come intelleggibilità letterale della formula e prevedibilità, intesa come idoneità della norma ad essere dimostrata in sede processuale.

Dalla legalità, oltre alla riserva di legge, alla determinatezza e alla precisione, discendono i corollari della colpevolezza e dell’irretroattività della norma penale sfavorevole, che trovano fondamento nell’art.25 comma 2 cost. e 2 c.p., e di retroattività della norma favorevole, quest’ultimo espressione del principio di uguaglianza di cui all’art.3 cost.

Più precisamente, dietro magistrale insegnamento della Corte Costituzionale avutosi con la sentenza n.364/88, si può apprezzare il filo conduttore che lega il principio madre ai suoi corollari, ovvero l’esigenza secondo cui una norma non chiara è una norma che impedisce al cittadino di conoscere le conseguenze della sua condotta, forte, in tal senso, della capacità di autodeterminarsi.

Da ciò discende, da un lato, il monito al legislatore di produrre, nell’ambito della sua riserva, fattispecie precise e determinate, dall’altro l’esigenza di evitare che il cittadino subisca l’applicazione retroattiva di una norma a lui incolpevolmente incomprensibile in fase di condotta, difettando così il requisito della colpevolezza.

In altre parole, si può osservare che la mancanza di prevedibilità è equiparata alla retroazione sfavorevole.

Quest’ultimo precetto impone invero che nessuno può essere punito per un fatto che non era considerato reato al tempo in cui fu commesso, talché la norma entrata in vigore successivamente al fatto non potrà retroagire, bensì produrre effetti solo pro futuro.

Del pari, l’entrata in vigore di una norma più di favore, rispetto a quella vigente al tempo della “condotta” (rectius non dell’evento), dovrà trovare applicazione retroattiva in ossequio al favor rei, così come delineato nell’art.2 comma 4 c.p. in materia di successione di norme penali.

A tale teoria formale si contrappone quella della legalità sostanziale, certamente meno rigorosa dal punto di vista della forma, ma incline a qualificare come reato qualunque comportamento che dia luogo ad una condotta percepita come pericolosa e antisociale.

In questo caso, non è tanto la norma scritta a stabilire cosa debba considerarsi reato, quanto la coscienza sociale di un determinato momento storico, tale per cui, ciò che in passato veniva percepito come antigiuridico potrebbe non esserlo  attualmente, o anche ciò che è percepito come pericoloso per alcuni non lo è per altri.

È evidente, in senso critico, che la legalità sostanziale sia soggetta alla variabilità e alla mutevolezza dei tempi e non consente di determinare i contorni delle fattispecie criminose in maniera univoca e universale.

Parte della dottrina ritiene dunque preferibile optare per un modello misto di legalità sia formale che sostanziale, secondo cui, fermo restando il rispetto del precetto formale, il legislatore nel creare la fattispecie penale si deve attenere a determinati requisiti stabiliti dalla Costituzione.

In particolare il fatto incriminato deve rispondere al principio di materialità, ove esso, lungi dal rimaner confinato nella mente dell’autore, deve concretizzarsi materialmente nel mondo esterno. Il fatto deve essere altresì dotato di offensività, ovvero di attitudine a ledere un bene giuridico protetto dall’ordinamento e essere colpevole, ossia riconducibile psicologicamente e causalmente ad un individuo, ex art.27 cost.

Il medesimo discorso vale per la sanzione penale, anche essa soggetta al principio di legalità ex art.1 c.p. e 27 Cost. la quale, oltre ad avere una funzione rieducativa del reo, deve essere improntata al principio di proporzionalità, sulla base, in astratto, del bene giuridico leso e in concreto della personalità del reo.

Così appurato il concetto di legalità si può ora passare all’analisi del suo corollario, la riserva di legge, la cui fonte è ancora una volta rinvenibile nell’art.25 comma 2 cost. e nell’art.1 c.p., ove il riferimento al termine “legge” è costante.

Il principio di riserva di legge non coincide concettualmente con quello di legalità, ma ne costituisce un elemento di rinforzo poiché impone che la norma incriminatrice deve essere emanata da una legge dello Stato, espressione di quel giusto compendio dialettico tra maggioranza e minoranza parlamentare in cui vengono individuate le maggiori problematiche sociali.

Invero, la massima garanzia per il cittadino è data non solo dalla formalità, determinatezza, precisione e prevedibilità della norma incriminatrice, ma anche dal fatto che questa sia il frutto di una ponderata e lenta elaborazione del principale organo rappresentativo, solo idoneo a definire quali condotte possano considerarsi antigiuridiche e quali no.

Non è tale invece del potere esecutivo, espressione della sola maggioranza, né le fonti secondarie poiché esse non sono in grado di garantire gli equilibri sovrani di uno stato democratico.

Per tale ragione il diritto penale deve trovare la sua fonte primaria in una legge del Parlamento, ovvero in quelle fonti ad essa equiparate che sono i decreti legislativi delegati e i decreti legge ex artt. 76-77 Cost., entrambi suscettibili di sindacato costituzionale ai sensi dell’art. 134 comma 1 Cost.

Si discute tuttavia circa l’assolutezza ovvero la relatività della riserva in questione.

Per riserva di legge assoluta si intende che la sola norma primaria può stabilire il precetto penale, essendo preclusa a qualunque altra fonte minore la possibilità di intervenire in materia; diversamente per riserva di legge relativa si fa riferimento a quella tecnica legislativa secondo cui, accanto alla legge primaria, possono intervenire anche fonti di rango inferiore al fine di delineare la disciplina di dettaglio, quali ad esempio i regolamenti.

In realtà, esclusa nel diritto penale la possibilità di una riserva relativa, parte della dottrina preferisce parlare di riserva di legge “tendenzialmente assoluta”, una tecnica secondo cui il legislatore è tenuto a definire compiutamente il precetto in tutti i suoi elementi, compresa la sanzione, potendo le fonti minori limitarsi a integrare aspetti esasperatamente tecnici, che nulla vanno ad aggiungere ad una fattispecie già chiusa dal punto di vista degli elementi costitutivi.

Tale tecnica si rivela utile in tutti quei casi ove il legislatore non è in grado da solo di stare al passo con i tempi, né possiede le competenze tecniche richieste in materia, come accade per il fenomeno delle norme in bianco o dei provvedimenti amministrativi che operano all’interno della fattispecie.

Per fare alcuni esempi si richiama l’art.650 c.p. che sanziona la disobbedienza ad un provvedimento dell’autorità legalmente dato, norma in bianco per eccellenza di carattere sussidiario già oggetto di positivo sindacato di costituzionalità nel 1971, oppure l’art.44 dpr 380/2001 in materia di abusivismo edilizio, ove il provvedimento autorizzativo è l’elemento negativo della fattispecie criminosa.

Tutti questi casi sono stati più volte posti al vaglio della giurisprudenza, anche per ciò che concerne il potere di sindacato e disapplicazione da parte del giudice penale del provvedimento amministrativo che ne costituisce un elemento essenziale.

In disparte il dibattito circa il sindacato del giudice, composto con le pronunce a Sezioni Unite “Giordano” e “Borgia”, si può in definitiva affermare che l’integrazione del precetto penale da parte di una fonte minore è stato considerato legittimo, purché il giudice sia messo in condizione di poter individuare con sufficiente determinatezza la fonte di rango primario da cui scaturisce l’atto integrativo della fattispecie.

In definitiva, i principi di legalità e di riserva di legge, così come concepiti nel nostro ordinamento, fanno riferimento ad una legalità di carattere nomologico che si discosta da quella riserva di diritto tanto cara alle Corti europee e ai sistemi di common law, stante il fatto che quest’ultima è atta a ricomprendere nelle sue maglie anche l’interpretazione giurisprudenziale.

È indubbio che il principio di legalità interno imponga che la fattispecie penale deve trovare la sua fonte solo in una legge dello Stato dotata di certi requisiti e che questo assunto rappresenti, non a caso, un contro-limite del nostro sistema costituzionale.

2.  L’incidenza del formante giurisprudenziale europeo: l’incompatibilità della c.d. riserva di diritto

Così delineate le caratteristiche essenziali dei principi, è possibile passare all’analisi della progressiva europeizzazione del sistema penale, onde verificare come le fonti sovranazionali siano andate ad incidere sulla portata interna del principio di legalità e di riserva di legge.

Si deve innanzi tutto stabilire il tipo di competenza che l’Unione Europea ha in materia penale.

Dal punto di vista normativo, si esclude l’idoneità delle istituzioni europee a creare nuove fattispecie incriminatrici.

Sebbene il “terzo pilastro” dell’Unione abbia previsto a suo tempo la cooperazione in materia di giustizia penale, in nessuna disposizione del Trattato è possibile rinvenire un appiglio normativo che giustifichi detto potere, nemmeno con riguardo all’art.261 TFUE, il quale nel prevedere un potere sanzionatorio, farebbe riferimento ai soli illeciti amministrativi.

L’unico indizio rilevante in materia è dato dall’art.83 TFUE, che attribuisce al Parlamento e al Consiglio un potere indiretto di creazione della fattispecie penale, da esercitarsi mediante lo strumento della “direttiva”.

Essa, nel prefissare l’obiettivo che lo Stato membro dovrà perseguire, è l’unico mezzo idoneo a dare un imput propulsivo alla creazione di nuove fattispecie penali, che andranno ad incidere su quelle materie particolarmente sensibili elencate nel par.2, o su altre sfere di criminalità che presentano carattere transnazionale.

A fronte di questa incompetenza normativa dell’Unione in materia penale si è avviata un’intensa opera di elaborazione della Corte di Giustizia, la cui prassi ha inciso in maniera indiretta nel nostro ordinamento mediante orientamenti sia espansivi che restrittivi.

2.1. Gli effetti espansivi: la “saga Taricco”

Con il termine “effetti espansivi” si è inteso, in particolare, far riferimento a quelle situazioni ove l’intervento della C.G. ha ampliato la portata della fattispecie interna avente ad oggetto materie unionali particolarmente significative.

In tal senso uno dei fatti più noti è sicuramente il caso “Taricco”, il quale ha dato vita ad una lunga dialettica tra giurisprudenza interna e comunitaria sull’istituto della prescrizione, oltre a incidere sul concetto di prevedibilità.

Per ciò che interessa in questa sede, il valore della saga Taricco è stato quello di lasciar trasparire l’intento della Corte europea di imporre un modello di legalità, improntato alla riserva di diritto, tale per cui si possa disapplicare una norma interna contrastante di favore.

Il caso di specie, avente ad oggetto una serie di frodi in materia di IVA, ha visto la C.G. censurare la normativa italiana sulla prescrizione di cui agli artt.160-161 c.p., laddove prevede che, a seguito dell’interruzione, la prescrizione non inizia a decorrere di nuovo, ma si esaurisce entro termine massimo ivi stabilito.

Osserva la Corte, nella sentenza 8 settembre 2015, la norma interna di carattere sostanziale in materia di prescrizione lascerebbe impuniti “un numero considerevole di casi di frode grave”, ponendosi in frizione con l’art.325 TFUE.

La norma de qua, dalla forza super primaria, ha come scopo quello abbattere l’evasione fiscale negli Stati membri, imponendo che gli stessi prevedano una legislazione repressiva a tutela dell’IVA non inferiore a quella che riservano ai reati fiscali nazionali.

Orbene, l’aspetto che la C.G. mette in risalto in Taricco 1 concerne l’obbligo da parte dei giudici nazionali di disapplicare la norma interna in materia di prescrizione tutte le volte in cui questa viola l’art.325 TFUE, il quale troverebbe in conseguenza diretta applicazione in quanto norma primaria. La Corte impone dunque una disapplicazione in malam partem di un istituto ibrido, quale la prescrizione, ma essenzialmente sostanziale e, come tale, soggetto al principio di legalità interna e ai suoi corollari, che ne verrebbero irrimediabilmente pregiudicati.

La Corte Costituzionale intervenuta con sentenza n.24/2017 è stata quindi chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’istituto de quo che, ribadiamo, è improntato al favor rei, appartiene al diritto penale sostanziale e, soggiacendo al principio di legalità, non può ammettere una fonte che non sia legale e tassativa, sub specie determinata e prevedibile.

Talché la Corte, in maniera apparentemente diplomatica, si è limitata a rimettere in via pregiudiziale la questione alla C.G., onde ottenere una pronuncia interpretativa sulla conformità della summenzionata regola Taricco a un istituto interno di carattere sostanziale, nonché sulla conferma che la stessa abbia una base legale sufficientemente determinata.

Orbene, il principio di prevedibilità richiamato dalla Corte Costituzionale è in effetti quello europeo desumibile dall’art.49 CDFUE, il quale impone che le conseguenze criminose, anche di elaborazione giurisprudenziale stante la riserva di diritto, debbano essere chiare, precise e quindi prevedibili al tempo della condotta, pena la retroazione sfavorevole.

La risposta data dalla C.G. con la pronuncia successiva del 5 dicembre 2017, caso M.A.S. “Taricco 2”, in via altrettanto diplomatica, ha affermato la libertà di ciascuno Stato di attribuire ad un determinato istituto il carattere sostanziale, tanto più che al tempo dei fatti commessi non si era ancora avviato il processo di coordinamento in materia fiscale tra l’Unione e la legislazione interna.

Invero, solo dopo l’entrata in vigore del Trattato, l’Italia si sarebbe dovuta adeguare all’obbligo imposto all’art.325 TFUE e ciò avrebbe giustificato la presenza di una disciplina pregressa sulla prescrizione inidonea, ispirata alla tradizione costituzionale italiana.

La formula rivisitata a cui giunge la C.G. con la nuova pronuncia cerca di far salva tanto la prevedibilità e l’irretroattività europea quanto la legalità nazionale, affermando che per i fatti pendenti successivi alla regola Taricco il giudice interno è sì tenuto a disapplicare la norma di favore, ma previamente verificando che ciò non leda i principi fondamentali dello Stato membro ed in particolare il principio di legalità, declinato nelle accezioni di prevedibilità, irretroattività e accessibilità secondo l’art.49 TFUE.

Una siffatta lettura dimostrerebbe il punto di incontro compendiato nell’art.7 TUE tra l’Unione e le tradizioni costituzionali degli stati membri.

La conseguenza di questa soluzione comporta che, ferma l’appurata determinatezza della regola Taricco, spetterà al giudice nazionale verificare case by case se l’eventuale disapplicazione della norma di favore comporti una situazione di indeterminatezza circa il regime di prescrizione applicabile, tale da violare il principio di prevedibilità e irretroattività e, se del caso, esimersi dalla disapplicazione.

Tanto premesso, il punto della questione concerne la particolare qualificazione ad opera della C.G. del principio di legalità comunitario secondo una soluzione “espansiva” e volta ad includere tra le fonti dell’incriminazione anche l’opera di interpretazione giurisdizionale, purché chiara, precisa e prevedibile, secondo un meccanismo assimilabile al common law.

E tuttavia, il meccanismo che ne è scaturito si atteggia, per vero, distante dal nostro spirito oridinamentale, in cui il principio di legalità in senso formale, in uno alla riserva di legge assoluta, esclude sempre che possa esservi una fonte del diritto penale di creazione giurisprudenziale, tanto più in malam partem.

Per tutte queste ragioni la Consulta, da ultimo intervenuta a chiusura della “saga Taricco” con sentenza n.115/2018 ha tassativamente respinto la soluzione individuata dal giudice europeo, ricorrendo allo strumento dei contro-limiti di cui si fece menzione per la prima volta nella sentenza Granital del 1984.

Quest’ultima rappresentò il momento propulsivo del principio in questione secondo cui, quante volte il diritto europeo, ivi compresa la CDFUE, si pongano in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale interno, questi ultimi dovranno in ogni caso prevalere.

Ciò in ragione al fatto che l’osservanza dell’art.11 Cost. da parte dell’Italia non implica una totale abnegazione della sovranità giuridica, la quale è sì ceduta in determinati settori, ma non estirpata, con conseguente rinuncia ai valori più cogenti della tradizione costituzionale.

Quanto previsto dall’art.25 comma 2 Cost. è uno dei peculiari contro-limiti che grava su tutte le norme penali, tradizionalmente qualificate sostanziali, il quale verrebbe pregiudicato da una regola pretoria di dubbia limpidezza e da una norma quale l’art.325 TFUE, che pecca di chiarezza, quindi di prevedibilità e dunque di legalità formale-sostanziale.

Vieppiù che la formula Taricco oltre ad essere oltremodo vaga, è altresì lesiva della riserva di legge assoluta nei termini sopra descritti, non potendo imporsi al nostro sistema e alla nostra ideologia giuridica un meccanismo in malam partem che non trovi la sua fonte nella legge dello Stato.

In tal senso, il principio di legalità sarebbe doppiamente violato.

2.2. Gli effetti restrittivi

Se questo è l’effetto espansivo sul principio di legalità, è opportuno dar menzione anche degli effetti restrittivi della giurisprudenza, in tutti quei casi ove  il giudice europeo ha inteso limitare la portata penale di una norma incriminatrice interna considerata eccessiva o sproporzionata.

Si guardi ad esempio alla legislazione in materia di immigrazione, di cui al D.lgs. 286/1998 “Testo unico immigrazione”, ove è prevista dall’art.14 una pena detentiva per il reato di disobbedienza all’ordine di rimpatrio del cittadino di un paese terzo che soggiorna illegalmente nel territorio nazionale.

Sul punto la C.G., intervenendo con la nota sentenza 28 aprile 2011, Hassen El Dridi ed altre successive, ha censurato l’eccessiva tendenza afflittiva della normativa italiana, poiché in contrasto con una Direttiva CE 2005/36 in materia, che sancisce quale obiettivo per gli Stati membri quello di contrastare l’immigrazione clandestina mediante procedure mirate di rimpatrio.

La scelta del legislatore italiano di sopperire all’inadeguatezza delle misure coercitive per contrastare l’immigrazione irregolare con la detenzione si sarebbe rivelata, a mente della C.G., sproporzionata, nonché lesiva ai fini della perseguibilità dell’obiettivo stabilito dalla direttiva.

Considerazioni analoghe le si apprezzano anche con riferimento al reato di esercizio abusivo della professione di cui all’art.348 c.c., il quale violerebbe il principio di libertà di esercizio della professione nel territorio dell’Unione, al divieto di contrabbando doganale di beni mobili immatricolati in uno Stato dell’Unione, in contrasto con la libera circolazione delle merci, nonché il divieto di attività senza titolo abilitativo di un intermediario per conto un bookmaker residente in uno stato estero che esercita l’attività di gioco e scommesse sportive, che viola il diritto di libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, nonché il principio di sproporzionalità.

In conclusione, si può ritenere che il principio di legalità e i suoi corollari, con particolare riferimento alla riserva di legge, stanno affrontando una fase di vulnerabilità a causa di un sistema sovranazionale e convenzionale che ne mette in discussione i caratteri fondamentali, mediante l’insinuazione della così detta riserva di diritto, pur rispettosa di tutti i corollari della legalità europea.

Questa particolare elaborazione dell’art.49 CDFEU, ma anche dell’art.7 CEDU ad opera della Corte edu, conducono a situazioni di frizione, come quelle esaminate, in cui il principio di legalità, così come concepito nel nostro impianto costituzionale, è messo in discussione dalla tendenza a creare sentenze che impongono una disapplicazione in malam partem delle norme, sulla base di parametri talvolta carenti di precisione e quindi prevedibilità.

La crisi della legalità è tuttavia un tema che non si esaurisce con l’ingerenza delle Corti europee, ma coinvolge anche aspetti più “nostrani”, quale la frequente crisi di determinatezza e precisione da parte dello stesso legislatore, ovvero la tendenza sempre più frequente a demandare a fonti extrapenali l’integrazione del precetto, con connesso rischio di elaborazioni che si discostano dalla precisazione tecnica e si avvicinano all’opportunità politica.


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