La crisi della giustizia civile statuale e lo sviluppo delle Alternative Dispute Resolution

La crisi della giustizia civile statuale e lo sviluppo delle Alternative Dispute Resolution

L’esigenza che qualsiasi tipo di processo pendente all’interno di un sistema abbia una “durata ragionevole” è un dato che accomuna tutti i sistemi giuridici esistenti. La durata del processo rappresenta un aspetto fisiologico del processo stesso, ciò che mina la sua effettività è l’eccessiva dilatazione temporale con conseguenza che la decisione del giudice rischia di divenire una sorta di diniego di giustizia essendo questa pronunciata dopo un periodo troppo lungo rispetto al momento in cui il giudice era stato adito dalla parte.

Il diritto alla ragionevole durata del processo trova fondamento in numerose norme previste sia a livello internazionale sia a livello interno. Nel panorama internazionale si può far riferimento alla “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948” fonte nella quale viene evidenziato tale principio, senza espressamente richiamare il fattore tempo e inserendo al suo interno delle garanzie, in particolare, l’art. 10 stabilisce che «ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad essere ascoltato, in corretto e pubblico giudizio, da un tribunale indipendente ed imparziale, cui spetti decidere sulle controversie intorno ai suoi diritti ed obblighi, così come sulla fondatezza di ogni accusa in materia penale mossa e a suo carico».

Un altro riferimento, a livello internazionale, da tenere in considerazione è l’art. 14 del “Patto internazionale sui diritti civili e politici” approvato dall’Assemblea delle nazioni unite il 16 dicembre del 1966 nella parte in cui viene sottolineato che «ogni persona ha diritto ad essere giudicata senza eccessivo ritardo» nonché l’art. 47 della “Carta dei diritti dell’unione europea” che sancisce «il diritto di ogni individuo a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente e entro un termine ragionevole da un giudice indipendente ed imparziale, precostituito per legge».

Tra tutte le fonti che prevedono il fattore della durata del processo quella sicuramente più importante è la “Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” siglata a Roma nel 1950 e ratificata dall’Italia con la legge del 1955 dove all’art 6. viene regolamentato per la prima volta il principio sulla ragionevole durata del processo: «Ogni persona ha diritto di farsi ascoltare, in corretto e pubblico giudizio, da un giudice imparziale ed indipendente, costituito per legge, cui spetti decidere in tempo ragionevole, sulle controversie intorno ai suoi diritti ed obblighi di carattere civile, cosi come sul fondamento di ogni accusa mossa a suo carico».

Prendendo in considerazione la “Convenzione europea sui diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” si può stabilire un collegamento con l’ambito interno dello Stato italiano, questo perché proprio nell’art. 111 della Costituzione italiana è previsto che «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata».

L’art. 111 della Costituzione, così come modificato dalla legge costituzionale del 23 novembre 1999, canonizza il principio del giusto processo e con l’ultima parte del secondo comma, “la legge deve assicurare la ragionevole durata del processo”, chiude il quadro delle disposizioni che fanno riferimento alla durata del processo e alla necessità che tale durata sia contenuta in tempi ragionevoli.

Tale articolo, garantito dall’art. 6 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo, prevede il diritto del cittadino ad ottenere giustizia in un tempo ragionevole e non fa altro che ribadire il principio già desumibile dall’art. 24 della Costituzione «Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari» dove lo Stato non è chiamato solo ad attuare la tutela giurisdizionale ma deve anche assicurarsi che questa sia effettiva.

In ambito italiano sulla questione relativa alla “ragionevole durata dei processi” si ha un approccio critico, difatti la situazione prospettata da questo Stato potrebbe portare a credere che l’accesso alla giustizia, garantito ai cittadini dall’art. 24 Cost., costituisca un diritto meramente formale e privo di effettività.

In Italia il grosso problema dei processi è proprio la durata, nella classifica Doing Business3 sui termini di durata dei giudizi, l’Italia risulta essere alla centoundicesima posizione quando, con l’applicazione di una giusta manovra, potrebbe ritrovarsi alla quartaduesima posizione. È infatti emerso da rilevazioni statistiche che nel 2014 i procedimenti civili introdotti con rito sommario di cognizione godono di una durata di 385 giorni circa, quindi inferiore, rispetto ai procedimenti introdotti davanti al tribunale che hanno tempistica media di 840 giorni.

Per la risoluzione dei problemi di tempistica dei procedimenti lo stesso art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo aveva previsto dei diritti in capo al cittadino che vedeva leso il suo diritto. Dava infatti a quest’ultimo la possibilità di ottenere da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo un provvedimento di condanna nei confronti dello Stato al fine di avere un’equa soddisfazione. Questo metodo di risoluzione è stato però ampiamente utilizzato dai cittadini italiani con il risultato paradossale che la stessa Corte europea si è ritrovata a non rispettare il canone della ragionevole durata del processo e nonostante l’impegno delle varie istituzioni non si ebbero neanche rilevanti progressi riguardo alle cause pendenti restando quest’ultime ancora un numero molto elevato.

Infatti in territorio italiano, la durata dei processi risulta ancora troppo lunga, si ha in media una durata di 8 anni e 7 mesi per tutti e tre i gradi di giudizio contro i 6 prescritti dalla legge Pinto. Questa legge nasce in seguito ai solleciti della Corte europea all’Italia per cercare dei mezzi risolutivi per la lunga lista di processi pendenti formatasi in seguito a tempi processuali decisamente ingenti.

L’Italia si adoperò alla ricerca di tali mezzi ma non furono esaustivi e tutte le soluzioni trovate e applicate non fecero altro che creare confusione essendo spesso in contraddizione tra loro.

Venne elaborata per ultima la Legge n. 89 del 24 marzo 2001 “Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’art. 375 del codice di procedura civile.”, la c.d. “Legge Pinto”, che finisce per rappresentare il più significativo intervento dello Stato italiano a seguito della violazione del diritto del processo in tempi ragionevoli.

Il cittadino può ricorrere ad una procedura di riparazione qualora “abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto della violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui l’art. 6, della Convenzione.”

A seguito dell’applicazione di tale legge si verificarono delle conseguenze che non furono però delle migliori: ingenti oneri finanziari che iniziarono a pesare sul bilancio dello Stato e aggravi delle pendenze davanti alla Corte d’appello che risultavano appunto competenti in queste cause e che per assurdo rappresentano gli uffici più in crisi del nostro Paese.

Ad oggi la situazione italiana non cambia, numerose sono le cause pendenti e la maggior parte delle volte il principio sulla ragionevole durata del processo non viene rispettato, portando così il malcontento tra i cittadini che vedono leso un loro diritto: basti pensare che le cause pendenti in materia di esecuzioni e fallimenti risultano essere 590.861, la cause in materia di lavoro, famiglia risultano pari a 3.007.633, per un totale di 3.668.494 di procedimenti non ancora conclusi in un periodo che intercorre tra il 2013 e il primo trimestre del 2017.

Ancora di recente si è cercato di far fronte a questo problema ormai evidente nell’ordinamento italiano: lo scorso 29 agosto 2017 il Consiglio dei Ministri approvò un disegno di legge avente ad oggetto la delega al Governo nella quale erano presenti disposizioni che riguardavano l’efficienza del processo civile. Questo progetto fu elaborato da una commissione presieduta dal Presidente Berruti ed è caratterizzato essenzialmente da quattro fondamentali linee.

Tale progetto ha come primo obiettivo quello di ampliare le competenze del tribunale dell’impresa e del tribunale della famiglia e delle persone, come secondo obiettivo fondamentale quello di accelerare i tempi del processo civile mediante la razionalizzazione dei tempi processuali e la semplificazione dei riti, dando rilievo alla prima udienza, rafforzando il carattere impugnatorio dell’appello e accelerando i tempi di decisone in Cassazione attraverso l’utilizzo del rito camerale. Gli altri due punti altrettanto importanti sono basati sul principio di sinteticità degli atti di parte e del giudice e sul principio di adeguamento delle norme civile al processo telematico.

Numerosi quindi sono stati gli interventi da parte delle istituzioni al fine di cercare di risolvere il problema di una giustizia troppo lenta che non risulta essere in grado di far fronte tempestivamente ad un diritto in capo ad un soggetto, diritto previsto e tutelato dalla Costituzione italiana e da disposizioni internazionali. Di fronte a tale panorama dell’ordinamento giuridico il legislatore ha così posto l’attenzione a sistemi alternativi di risoluzione delle controversie considerandoli come strumenti per deflazionare la giustizia statuale ed ottimizzare la sua efficienza. Quello infatti a cui mira il legislatore è utilizzare meccanismi di risoluzione delle controversie rapidi, concreti e poco costosi piuttosto che ricorrere ad una giustizia che richiede anni e somme di denaro ingenti in dispute giudiziarie davanti ad i tribunali.

Negli ultimi anni, l’obiettivo di deflazionare il contenzioso civile e ottimizzare il sistema giudiziario, ha portato il legislatore a varare alcuni provvedimenti, dapprima con esitazione e successivamente con più audacia, volti a realizzare sistemi alternativi di risoluzione delle controversie giudiziarie i c.d. “metodi ADR” ossia Alternative Dispute Resolution, già ampiamente utilizzati negli Stati Uniti con progressiva diffusione in Europa proprio grazie alle peculiarità della celerità e del risparmio.

La diffusione di questi metodi utilizzati come strumenti alternativi di risoluzione delle controversie avviene proprio, come sottolineato da Frank Sander, a seguito della crisi dei sistemi occidentali portando uno spunto di riflessione per poter pensare ad una “giustizia della seconda modernità” da applicare ad una società contemporanea ormai lontana dalla società in cui veniva applicato un diritto puramente statale e sovrano.


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Martina Ferraro

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