La croce e la cella: riflessioni sulla via crucis
È una via crucis che non dimenticheremo mai. L’immagine del crocifisso che sfilava in un’atmosfera raggelante di piazze e strade deserte, in una capitale che un virus ha ridotto a un remoto, solitario paesino di provincia, resterà impressa nella nostra memoria per sempre.
Ma è stata una via crucis memorabile anche perché è stata dedicata al mondo delle carceri.
Perché il Papa ha voluto parlare dei detenuti e lasciar parlare i detenuti in questo particolare momento storico?
Innanzitutto perché esiste un legame tra la croce e la cella. Gesù è l’emblema di quanti patiscono le sofferenze inflitte dalla giustizia degli uomini. Proprio il Nazareno, il figlio di Dio, fattosi uomo, conobbe tutti gli stadi dell’umana giustizia: il processo, l’umiliazione, la tortura, e, infine la morte.
In secondo luogo il sommo Pontefice ha voluto parlare dei detenuti in un momento nel quale le forze politiche hanno pensato a tutti, anche agli ultimi, ma non ai detenuti.
Questa particolare categoria di non – persone è rimasta fuori da tutti i dibattiti politici, nonostante i numerosi, accorati appelli provenienti da più parti.
Forse si ha idea che i carcerati siano immuni al virus, forse si pensa, ipocritamente, che siano più al sicuro in cella o forse non si ha alcuna idea e nessuna parola da spendere per questi abitanti di un microcosmo che vive ai margini della società civile.
Per questi uomini infami, la parola del Papa, solitaria e autorevole, si è levata da una piazza deserta fino al cielo.
Il detenuto vive una doppia reclusione: imprigionato in un carcere all’interno di una città, a sua volta prigioniera delle disposizioni sanitarie. Costretto in uno spazio angusto, che non offre vie di fuga davanti al male, condannato a dividere quello stesso spazio con altri reclusi, privato di quella distanza sociale che sembra essere l’unico argine al contagio, il detenuto può soltanto pregare, a bassa voce, per non dare fastidio.
Il detenuto vive inoltre una doppia emergenza: il sovraffollamento delle carceri e l’inarrestabile diffusione del virus. Due eventi che, se si incontrassero, farebbero del carcere non un virulento focolaio ma una vera e propria polveriera.
Tanto non vale soltanto per il detenuto ingiustamente condannato, quello che rivive sul proprio corpo il martirio di Cristo ma anche per il detenuto in attesa di giudizio e per quello condannato nel rispetto delle norme e delle procedure.
Il sommo Pontefice sa bene che la giustizia travalica le norme, le procedure e anche quella affannosa ricerca della verità nel processo. La giustizia si nutre di umanità della pena, carità e perdono.
Senza questi tre pilastri non è concepibile nessuna civiltà giuridica. Senza questi cardini saremmo una società della legge, forse anche del diritto; ma non saremmo mai una società fondata sulla giustizia.
C’è dunque da augurarsi che questa solitaria via crucis muova le coscienze dei governanti ma anche e soprattutto quelle dei giudici, perché il problema cruciale non sono soltanto i detenuti condannati definitivamente, che hanno già scontato gran parte della pena ma quella considerevole porzione di popolazione carceraria costituita da detenuti in attesa di giudizio.
È questo il tema dal quale oggi si fugge.
Si impone una maggiore attenzione nell’uso del potere cautelare, a cominciare dalla rivisitazione delle misure cautelari originariamente inflitte che potrebbero essere sostituite con altre non detentive, senza distinguere tra detenuti in condizioni di salute a rischio e detenuti sani, dato che il virus non sembra fare distinzioni.
È un’operazione che solo il giudice può fare, anche in assenza di apposita disposizione normativa, utilizzando semplicemente la sua discrezionalità nel valutare.
Quello che dovrebbe orientare il giudice è l’esistenza di un’emergenza sanitaria ormai inarrestabile, il pericolo reale di contagio per il detenuto, considerate anche le condizioni di sovraffollamento, e, infine, l’attenuazione del pericolo per l’ordine pubblico, considerate le disposizioni di isolamento che vigono in tutto il paese e il costante presidio del territorio da parte delle forze dell’ordine.
Non possiamo più nasconderci sotto l’alibi che non ci sono braccialetti elettronici per concedere gli arresti domiciliari perché concretamente non ve n’è il bisogno. Dove potrebbe fuggire e cosa potrebbe fare un detenuto in una città deserta e costantemente vigilata?
C’è insomma da auspicarsi che chi ha visto il crocifisso sfilare per le strade non veda in esso soltanto un oggetto della devozione religiosa, ma vi scorga anche il simbolo di un martirio, che un tempo si consumava pubblicamente sulla croce e che oggi si occulta nel buio di una cella; un simbolo ma anche un avvertimento affinché il martirio non si ripeta.
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Avv. Gaetano Esposito
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