La custodia cautelare in carcere da strumento eccezionale ed adeguato a strumento ordinario e inadeguato

La custodia cautelare in carcere da strumento eccezionale ed adeguato a strumento ordinario e inadeguato

Da strumento efficace di lotta alla criminalità a misura convenzionale per soddisfare bisogni di reità

 

“Un colpevole punito è un esempio per la canaglia; un innocente condannato è la preoccupazione di tutti gli uomini onesti.”

 

Queste, le parole dello scrittore e aforista francese Jean de La Bruyère, le quali risuonano più da monito per i posteri e per i futuri legislatori che da semplice constatazione della realtà giuridica di quel tempo.

Apripista per i giudizi e le dinamiche future, in sostanza criterio di legittimità e principio da cui attingere.

Così si apre il mio articolo che mette in luce una problematica sempre più attuale e ricorrente nei palazzi di giustizia, foriera di appropriati spunti riflessivi e di conseguenze, spesso, drammatiche ed irreversibili nei confronti di chi subisce, spesso ingiustamente, la misura della custodia cautelare in carcere.

Nella mia tesi di laurea in Diritto Processuale Penale, dal titolo “L’adeguatezza della custodia cautelare in carcere quale strumento di limitazione personale negli imputati in attesa di giudizio”, ho cercato di analizzare il problema, denunciando un’accezzione che sta divenendo sempre più un’inquieta prassi, portando alla luce le conseguenze, spesso irreversibili che un’ingiusta applicazione della misura siffatta è capace di generare, nel tentativo di individuare, anzi di proporre al contempo, alcuni significativi correttivi in materia, con l’obiettivo di contrastare o comunque ridimensionare la portata della problematica in esame, avente i crismi di una ormai acclarata patologia.

Partiamo con l’analisi del fenomeno.

La domanda che in questo contesto ci si pone è: quando lo strumento della custodia cautelare in carcere è una misura realmente adeguata e quando, invece, è da considerarsi strumento inadeguato e, perciò, abusivo?

Occorre partire dal primordiale presupposto che la custodia cautelare in carcere ex art. 285 c.p.p. trova la sua collocazione nel Titolo I del Libro IV del codice di procedura penale e, peraltro, risiede al gradino più alto del grado di afflittività tra le misure cautelari ivi disciplinate.

In materia cautelare il parametro attraverso il quale procedere con la misurazione e verificazione dell’adeguatezza della misura è dato dalla sussistenza del pericolo, ovvero quella situazione di periculum attuale e concreto che trae linfa dallo stato di libertà del soggetto indagato/imputato, su cui sussistono gravi indizi di colpevolezza.

Dall’analisi di questi elementi si parametra il mantenimento, la sostituzione o la revoca della misura cautelare applicanda.[1]

La custodia cautelare in carcere, al pari delle altre misure cautelari personali, si applica, dunque, nell’ottica della prevenzione di un pericolo concreto e attuale e viene ravvisata nella presenza di almeno uno dei seguenti pericula:

nel pericolo di inquinamento probatorio ex art. 274 lett. a) c.p.p., per mezzo del quale sussiste il pericolo che non si possa giungere ad una verità processuale all’esito del processo, mediante il pieno e completo accertamento della fattispecie, attraverso il pericolo concreto e attuale che il reo possa alterare il procedimento di acquisizione e assunzione delle prove; nel pericolo di fuga ex art. 274 lett. b) c.p.p., riconducibile alla fattispecie secondo la quale  il reo, una volta riconosciuto tale, non sconti la pena, dandosi alla fuga o sussistendo il pericolo concreto e attuale che egli si possa dare alla fuga all’esito del processo, quando questo sia ancora in fase di accertamento, legittimando, così, l’applicazione di una misura cautelare adeguata; nel pericolo di reiterazione dei reati ex art. 274 lett. c) c.p.p., è riconducibile il pericolo concreto e attuale dettato dai tempi processuali, in quanto nell’attesa che si imprime una sentenza di condanna irrevocabile nei confronti del reo, tenendo conto di specifiche modalità, circostanze del fatto e della personalità dell’individuo, consenta a questi la possibilità di commettere nuovi reati.

I pericula de qua, spesso, vengono anestetizzati mediante l’applicazione della misura inframuraria, la quale realizza concretamente gli effetti tipici dell’anticipazione della pena confinati nello spazio cautelare, sostanziandosi nell’affidamento coatto di un soggetto in attesa di giudizio all’interno di un istituto penitenziario, nel quale lo stesso risiede in regime di reclusione, analogamente a quanto avviene per l’espiazione della pena dell’imputato in seguito a sentenza di condanna inflitta al termine del processo. [2]

Ed è proprio su tale questione che ruota il punctum dolens, posto all’inizio dell’articolo, considerando la portata afflittiva e altamente repressiva che lo strumento in esame possiede e che riverbera nei riguardi di chi la misura la subisce, attraverso la privazione di un bene “inviolabile”, qual è la libertà personale, nei confronti di un soggetto in un momento in cui, costituzionalmente e giuridicamente, è da considerarsi ancora innocente.

La sua esecuzione è caratterizzata, a differenza delle altre misure cautelari, dall’uso (eventuale) della violenza, ciò si traduce nell’accompagnamento coatto del soggetto nell’istituto di detenzione, attraverso l’uso legittimo della violenza nei casi di mancata collaborazione o resistenza del preposto alla misura, attraverso forme di coercizione personale al fine di impedirne la fuga.

Per cui nelle more del giudizio di valutazione prima e di applicazione poi della misura inframuraria entra in soccorso il legislatore con la previsione della sua extrema ratio applicativa, prevista nel comma 3 dell’art. 275 c.p.p., secondo cui: “la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata”, per cui si prevede l’applicazione della custodia cautelare in carcere solo e soltanto qualora le altre misure coercitive ed interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate a soddisfare le esigenze cautelari che emergono in concreto, per mezzo del principio di stampo carrariano secondo cui la libertà debba essere la regola, il carcere l’eccezione.

Ed è proprio qui che si evidenzia la distorsione di un principio fondamentale, attraverso il limite, drammaticamente frequente, del suo utilizzo non residuale, eventuale, ma bensì ordinario, a tratti avventato, della misura più afflittiva.

Oltre al principio dell’extrema ratio cautelare, stante il suo elevato grado di afflittività e invasività nei diritti fondamentali nei confronti di colui che ne è destinatario, ulteriori limiti sono posti in essere ai fini dell’individuazione e applicazione della misura idonea a fronteggiare i pericula libertatis scaturenti nelle more del processo, essi sono rappresentati innanzitutto dal limite edittale, secondo il quale la custodia cautelare in carcere può essere disposta solo per delitti consumati o tentati, per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni (oltre che per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195, e successive modificazioni); dal rispetto del principio di adeguatezza e di proporzionalità, rientranti sempre nell’alveo normativo dell’art. 275 c.p.p., oltre che dalle disposizioni di matrice internazionale, come l’art. 5 par. 3 della CEDU [3], poste a presidio di quegli stessi diritti fondamentali che, attraverso un improprio utilizzo della misura inframuraria, vengono irrimediabilmente pregiudicati.

Tali principi, in particolare quello dell’extrema ratio applicativa, sono spesso, forse fin troppo, disattesi negli ultimi anni: cosicché la misura più invasiva, da misura eccezionale e emergenziale sta divenendo sempre di più, misura ordinaria e spesso abusiva.

A tal punto da rievocare i tempi risalenti alle ipotesi di cattura obbligatoria rispetto al 1859, da parte del codice di procedura penale del 1865 [4], il quale ha fatto della custodia preventiva secondo il Carrara <<il più intollerabile abuso, estendendola ai più lievi e insignificanti reati con universale lamento>> [5], in cui, lo strumento della carcerazione preventiva esulava da una ratio di tipo emergenziale, configurandola invece quale misura ordinaria e da applicare in presenza di ogni evenienza rispondente allo scopo di disporre del soggetto per cui si procede, di stampo spiccatamente inquisitorio.

Il ricorso disinvolto alla detenzione provvisoria da parte dello Stato, dimostra, ancor di più, la fuga del processo dai suoi fini di matrice istituzionale, rappresentati dalla ricostruzione del fatto e dall’accertamento della responsabilità del soggetto per mezzo di criteri legislativamente determinati, verso obiettivi ulteriori quali la difesa della collettività, la repressione della devianza e l’eliminazione o, quantomeno, l’indebolimento della pericolosità del soggetto accusato destinatario della misura.

Per cui, se scopo del processo è quello di accertare la verità di un fatto e stabilire la responsabilità di chi l’ha commesso, la restrizione in carcere non può che essere intesa come misura oltre che provvisoria e strumentale, anche eccezionale, da contenere nei limiti della stretta necessità, quale ultimo baluardo in presenza delle condizioni che la giustificano, in conformità ai principi di inviolabilità della libertà personale e di non colpevolezza, secondo quanto previsto dalla Costituzione e dalle Carte internazionali in materia di diritti umani.

Pertinenti sono, a questo proposito, le varie raccomandazioni del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, attraverso le quali si aveva lo scopo di orientare le politiche degli Stati membri con il fine di ridurre il numero eccessivo di carcerati e contrastare, così, gradualmente, il problema del sovraffollamento carcerario.

Alcune di queste raccomandazioni sottolineano il carattere residuale della custodia in carcere, rimarcandone come la sua durata debba essere ridotta al minimo compatibilmente con gli interessi della giustizia; mentre nella raccomandazione n. 13 del 2006 si sancisce che, in conformità all’inviolabilità della libertà personale e alla presunzione di non colpevolezza, la custodia provvisoria di una persona indiziata di un delitto <<deve essere l’eccezione, non la regola>>, né tantomeno può <<essere obbligatoria>> e <<mai… usata a scopo punitivo>>.

L’onnipresenza dello status custodiae è ravvisato anche da una risoluzione adottata dal Parlamento europeo sulle condizioni detentive degli istituti penitenziari dell’Unione, constatando la realtà secondo cui in alcuni Stati membri la popolazione carceraria è composta per la gran parte da detenuti in attesa di giudizio. Aggiungendo poi che i tempi di custodia eccessivamente lunghi, oltre ad arrecare un considerevole pregiudizio ai diritti dell’individuo, compromettono anche i rapporti di cooperazione giudiziaria tra Stati e sono in contrasto con i valori su cui si fonda l’Unione Europea. [6]

Si assiste al riconoscimento della custodia cautelare in carcere di una funzione distorsiva di repressione e prevenzione dei reati, tipica dell’esecuzione della pena.

Al punto che le stesse modalità e motivazioni di applicazione di una simile misura si tramutano nell’obiettivo di “essere l’esempio”, attraverso una connotazione general-preventiva tipica della sanzione, con la frequente conseguenza che, dinnanzi ai reati considerati particolarmente gravi, essa spesso ha durata breve, venendo sostituita, di consueto, con la misura degli arresti domiciliari, misura che poteva senz’altro essere adottata sin dall’inizio.

Tale distorsione trova puntuali conforme nella particolare abitudine di scomputare, dall’esecuzione delle pene inflitte spesso brevi, il “presofferto”, vale a dire il tempo trascorso dal cautelato nelle more della misura, tale che la pena risulti completamente scontata nel suo valore.

Nella valutazione dei presupposti cautelari, la valutazione dell’esistenza del pericolo di reiterazione di reati di cui alla lett. c) art. 274 c.p.p., costituisce forse, più di tutti, il pericolo maggiormente suscettibile di uso improprio della misura carceraria. Proprio perché si tratta del presupposto dal dettato più vago ed incerto, che lascia alla discrezionalità del giudice l’onere di valutarne la sussistenza o meno: mentre in ottemperanza del pericolo di inquinamento delle prove e del pericolo di fuga debba, senza non poche difficoltà, essere dimostrato oggettivamente, la verifica del pericolo di reiterazione richiede una prognosi abbastanza generica che, spesso, va a coincidere proprio con la gravità del titolo di reato per cui di procede.

Un’ ulteriore distorsione che avviene nella prassi giudiziaria è rappresentata anche dall’utilizzo della custodia cautelare per fini istruttori, ovvero al fine non dichiarato di ottenere una confessione o collaborazione dell’imputato, palesemente in contrasto con i valori enunciati dalla Costituzione.[7]

Il problema dei pregiudizi derivanti all’imputato sottoposto a custodia cautelare in carcere si pone, sicuramente, in misura diversa e meno grave qualora, all’esito del processo si giunga ad una sentenza di condanna avente ad oggetto una pena detentiva di tempo superiore o uguale rispetto al presofferto scontato dallo stesso ante iudicatum. [8]

A questo proposito l’art. 137 del codice penale prescrive, dunque, il principio secondo il quale la carcerazione sofferta prima che la sentenza sia divenuta irrevocabile si detrae dalla durata della pena detentiva irrogata. [9]

Ciò naturalmente si evince anche qualora l’imputato sia condannato per un reato diverso rispetto a quello per cui è stata scontata la custodia in carcere nello stesso procedimento o, perfino, in un distinto procedimento, qualora lo stesso reato non sia stato commesso in un tempo successivo allo stato di custodia.

Più delicata è la fattispecie in cui la durata complessiva della custodia cautelare subita dall’imputato sia maggiore rispetto alla pena detentiva irrogata in seguito a sentenza di condanna.

In casi di questo tipo l’imputato dovrà essere immediatamente scarcerato qualora si tratti di pena che il giudice dichiara completamente scontata per effetto della custodia cautelare subita (art. 300 comma 4 c.p.p.) e avrà diritto ad una equa riparazione, considerato il surplus detentivo ingiustificato.

La situazione risulta più inquietante e dagli effetti spiccatamente drammatici nelle ipotesi in cui l’imputato già sottoposto a custodia cautelare in carcere venga, all’esito del processo, riconosciuto innocente o comunque assolto.

Nello specifico occorre riflettere sulle terribili ripercussioni che un ingiusto assoggettamento a custodia cautelare ha irrimediabilmente prodotto nei confronti dell’imputato.

Gli effetti devastanti cagionati da una “ingiusta detenzione” non riguardano solo il piano morale e familiare del detenuto, ma inficiano irrimediabilmente anche le relazioni sociali, le attività e i rapporti professionali di lavoro instaurati nel tempo dall’odierno imputato.

È piuttosto frequente l’orientamento che fa derivare dall’arresto e dalla conseguente detenzione del lavoratore, l’estinzione del rapporto di lavoro in capo al detenuto, seppur ingiustamente recluso.

Sicuramente, tra i diritti maggiormente pregiudicati dalla morsa dell’ingiusta detenzione rileva, primo fra tutti, quello riconducibile all’inviolabilità della libertà del soggetto (art. 13 Cost.).

Nell’ipotesi in cui tale libertà sia stata compressa in ragione di una carcerazione, poi rivelatasi ingiusta, la diretta conseguenza che ne scaturisce è data dal solo riconoscimento al soggetto ingiustamente ristretto, di un diritto alla riparazione di quell’erroneo sacrificio subito nell’inviolabilità della sua libertà.

Nello specifico si ritengono ingiuste, e perciò riparabili, quelle situazioni di detenzione, rispetto alle quali venga constatata, in seguito ad accertamento, la non applicabilità della reclusione in base agli elementi o alle circostanze che ne legittimavano la detenzione. [10]

Il principio di riparazione per “ingiusta detenzione”[11] che ne emerge è inevitabilmente collegato al principio di inviolabilità della libertà personale, del quale ne costituisce un presidio in presenza di violazioni patologiche di un diritto fondamentale di rilevanza costituzionale.

Essa, naturalmente, non deve ritenersi operante nei soli casi di erronea applicazione, più o meno colpevole, delle misure coercitive ad opera dell’organo giudicante, ma deve estendersi a tutte quelle ipotesi di detenzione sostanzialmente ingiustificata, riconducibili dagli elementi processuali oltre che, soprattutto, dalla sentenza all’esito del giudizio, indipendentemente se ex ante vi fossero o meno gli estremi riconducibili ad una tale applicazione. [12]

Per cui nei casi in cui all’esito del giudizio non si ravvisi alcuna responsabilità in capo all’imputato in ordine ai reati contestatigli, in presenza di una sentenza di assoluzione (perché il fatto non sussiste; l’imputato non lo ha commesso; il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato; oltre alla parificazione della sentenza di non luogo a procedere o del provvedimento di archiviazione), o quando, con decisione irrevocabile, risulti accertato che il provvedimento di restrizione è stato emesso o mantenuto in violazione delle condizioni di applicabilità di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p. (in assenza dei gravi indizi di colpevolezza o in mancanza di uno dei reati per cui si prevede l’applicazione di una misura cautelare) l’imputato che abbia trascorso un tempo considerevole in custodia cautelare in carcere, si trova vittima di una detenzione “ingiusta” e, perciò, avente diritto ad una equa riparazione. [13]

Nell’idea di riparazione è implicito, dunque, un nesso di proporzionalità rispetto alla sofferenza e, quindi, al danno patito dal titolare della pretesa riparatoria, dipendente non soltanto dalla durata dell’indebito trascorso in custodia in carcere, ma anche dalle conseguenze da essa derivanti, personali e familiari, ricomprendendovi in maniera particolare le ripercussioni di natura non patrimoniale, moralmente irreversibili nei confronti dell’imputato, soprattutto qualora se ne sia accertata la sua assoluta innocenza. [14]

Da queste considerazioni emerge la realtà sociale e giuridica dei nostri giorni, in cui la misura della custodia cautelare in carcere non appare né misura eccezionale, né tanto meno extrema ratio tra le misure applicabili nelle more del processo.

Il quadro che emerge dalla relazione pubblicata dall’organizzazione “Fair Trial”, finanziata dalla Commissione europea, non lascia spazio ad equivoci.

Dopo aver raccolto e analizzato una serie di informazioni provenienti dai dieci paesi UE il dato che emerge è univoco: in molti paesi analizzati, tra i quali l’Italia, si riscontra un impiego eccessivo dello strumento della restrizione della custodia cautelare in carcere nelle more del procedimento.

I motivi addotti sono molteplici e vanno dall’accesso inadeguato degli indagati all’assistenza legale o alle carte processuali, all’assenza di un lasso di tempo idoneo per preparare un’adeguata difesa, ad una valutazione inidonea e spesso superficiale degli elementi che giustificano l’applicazione di una misura così invasiva, spesso utilizzata per assolvere fini specifici, quale “migliore” risposta per sedare particolari allarmi sociali, oltre alle motivazioni, carenti e inadeguate dei provvedimenti restrittivi della libertà personale,[15] fino a giungere allo scarso utilizzo di misure realmente alternative alla detenzione in carcere. [16]

All’indomani della sentenza Torregiani e altri c. Italia, [17] la Corte di Strasburgo si è dimostrata particolarmente sorpresa nel constatare alcuni numeri abbastanza inquietanti. Nello specifico, al momento della sua pronuncia si evinceva come circa il 40% dei soggetti ristretti in carcere risultava imputato e fra questi circa il 20% di questi risultava essere in attesa del giudizio di primo grado.

Numeri inquietanti che provocano profonde riflessioni, le quali necessitano di essere destinate non solo agli operatori del diritto, quanto ai gradini più alti della politica.

Si assiste, dunque, ad un orientamento propendente verso una concezione contra libertatem del potere giudiziario, secondo cui neppure la lettura delle motivazioni giudiziarie sarebbe capace di far comprendere a fondo il problema sempre più incontrollato che sta divenendo l’uso della custodia cautelare in carcere, quale <<realtà applicativa che sembra spesso andare incontro ai desideri di un’opinione pubblica fortemente condizionata dall’emotività e portata, quindi, a chiedere risposte lato sensu sanzionatorie, purché immediate>>. [18]

La prospettiva di fondo che si realizza è spaventosa, ed è quello per cui il numero dei detenuti che fa il loro ingresso negli istituti penitenziari in esecuzione di una sentenza di condanna risulta, nella nostra realtà giuridica, assai modesto, poiché il loro ingresso in carcere viene quasi sempre giustificato attraverso una misura cautelare carceraria destinata, nei casi più gravi, a trasformarsi automaticamente nell’espiazione di una pena detentiva, in seguito ad una sentenza di condanna definitiva. [19]

In presenza di reati meno gravi, la perdurante applicazione della custodia in carcere per un tempo considerevole, sembra dover e voler soddisfare quella pretesa punitiva ante iudicatum che altrimenti non sarebbe stata soddisfatta in sede esecutiva, per esempio dovuta all’esiguo materiale probatorio a carico dell’accusato o in presenza dei vari benefici penitenziari nei confronti dell’imputato in sede di irrogazione della pena.

Nonostante la previsione costituzionale di cui all’art. 111, il processo non sembra rispondere, quindi, pienamente al principio del “giusto processo”, non essendo in grado di generare un risultato in tempi ragionevoli e mutando, così, la ratio della misura inframuraria in anticipazione della pena.

L’eterna durata del procedimento provoca, così, l’effetto di produrre un evidente scollamento tra il tempo di commissione del reato e il momento, conseguenziale, di esecuzione della pena, tale da cagionare un’inefficace azione repressiva da parte del sistema penale, oltre che un’insicurezza collettiva.

Conseguenza diretta di questo orientamento è la tendenza, che sta divenendo sempre di più prassi, normalità, di scaricare le inquietudini sociali e le “tensioni”, le inefficienze di un sistema, attraverso un univoco modus operandi, caratterizzato dall’adozione delle sanzioni penali “sul” processo, così da riconoscere allo strumento della custodia cautelare in carcere il carattere della pena anticipata, soprattutto per quelle condotte non ancora punite o comunque accertate e giudicate trascorso un arco di tempo considerevole.

In questo modo l’imputato in attesa di giudizio si trova a vivere una particolare condizione, attraverso un ribaltamento delle funzioni tra il processo principale di merito e il procedimento cautelare che invece dovrebbe essere in una posizione servente e strumentale al primo.

Per cui l’attività cautelare continua ad avere ancora oggi, rispetto al processo principale sul capo dell’imputazione, una predilezione maggiore rispetto a quanto prevede il legislatore nel codice di rito. Oramai è proprio il procedimento cautelare che scandisce il compimento delle azioni processuali del processo di merito, ad esempio dilatando i tempi processuali fino alla scadenza dei termini massimi di custodia cautelare in carcere oppure procedendo all’instaurazione della fase dibattimentale all’indomani dell’intervento custodiale.

La custodia cautelare come anticipazione della pena è, quindi, tangibile oggigiorno in maniera sempre più frequente, attraverso la penetrante valutazione dei gravi indizi di colpevolezza atti a costituire il fulcro fondamentale della successiva sentenza all’esito del giudizio di merito, segnandone le sorti dell’imputato, [20] accentuata ancor di più qualora gli elementi cautelari probatori abbiano superato indenni il vaglio del giudice del Riesame o della Suprema Corte di Cassazione. [21]

Una vera e propria prognosi anticipata di colpevolezza, avvenuta, bensì, in sede cautelare.

In questa sede non desta sorpresa l’esito assolutorio al termine del processo, appartenente uno dei risultati fisiologici verso cui può propendere il processo penale a carico del soggetto accusato, quel che è patologico, invece, è proprio constatare che, nelle more dell’accertamento processuale, l’imputato debba attendere il suo svolgimento e la sua conclusione in uno stato detentivo, spesso all’interno di un arco temporale abbastanza considerevole, visti i tempi eccessivamente lunghi del processo.

L’aspetto patologico deriva dal fatto che nel nostro ordinamento vige il principio di non colpevolezza, secondo cui l’imputato si presume innocente fino a sentenza definitiva, per cui in presenza di siffatto principio e in presenza delle condizioni che il legislatore riserva per l’applicazione della misura cautelare detentiva, finalizzate a soddisfare specifiche e dettagliate esigenze dovute all’inquinamento delle prove, al pericolo di fuga o alla commissione di nuovi delitti, si circoscrive l’area di applicazione della custodia cautelare a poche ed eccezionali ipotesi. [22]

Per cui si assiste ad un effettivo scollamento tra la (legittima) previsione normativa e la (illegittima) realtà giuridica applicativa.

È proprio dalla lettura dei dati risalenti agli ultimi anni che, inequivocabilmente, si ha una fotografia attuale della reale situazione in tema di uso, anzi abuso, che il potere giudiziario spesso fa dello strumento della custodia cautelare in carcere.

Mi limito a citare soltanto alcuni dati significativi.

Secondo la Relazione annuale sulle “Misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione”, relazione contenente dati, rivelazione e analisi statistiche relativa all’applicazione delle misure cautelari personali, distinte per tipologie e aree geografiche, con l’indicazione degli esiti dei relativi procedimenti, ove conclusi, che entro il 31 Gennaio di ogni anno il Ministro della Giustizia è tenuto a presentare alle Camere, i numeri sono abbastanza eloquenti: se prendiamo in considerazione l’ultima Relazione annuale del 2023 si constata l’emissione di 24.746 ordinanze di custodia cautelare in carcere (a fronte delle 24.654 del 2022), precisando che lo stesso istituito si suddivide poi per tipologie di custodia attenuata per detenute madri (1) e custodia in luogo di cura (711) nell’anno 2023.

Nonostante dalla Relazione risulta una diminuzione significativa del numero totale delle misure emesse negli anni 2020-2023 rispetto a quelle emesse nel biennio precedente, l’applicazione della misura inframuraria non risulta diminuita ma bensì aumentata, seppur di poco.

Tanto che la misura custodiale in carcere rappresenta il 30,2 % delle misure emesse nel 2023: così che le misure cautelari custodiali (carcere – arresti domiciliari – luogo cura) costituiscono quasi il 57% di tutte le misure emesse, mentre quelle non custodiali (le restanti) ne costituiscono circa il 43%; quindi si rileva che una misura cautelare coercitiva su tre emesse è quella carceraria (32%), mentre una misura cautelare coercitiva su quattro è quella degli arresti domiciliari (25%).

Lo stesso trend è ravvisabile anche in relazione al tipo di organo giudiziario che le emette, rilevando che nel 2023 il 34,3% delle ordinanze di custodia cautelare sono emesse dal GIP, mentre risulta quasi meno della metà, il 18,4%, quando essa sia emessa dal Giudice del Dibattimento: da questi numeri si evidenzia che il GIP utilizza la misura carceraria con elevata frequenza, la quale risulta quasi doppia rispetto a quella utilizzata dal giudice dibattimentale (dati anno 2023).

Quanto, invece, all’applicazione delle misure cautelari personali coercitive emesse nel 2023 nei procedimenti definiti nel medesimo anno, si evince che su un totale di 9.200 misure cautelari emesse, 528 persone (5,7%) sono state destinatarie di una sentenza di assoluzione definitiva o non definitiva e 354 (3,8%) classificate con “altro tipo di sentenza”.[23]

Naturalmente occorre preminentemente evidenziare che si tratta soltanto delle misure custodiali emesse nel medesimo anno con sentenza di assoluzione emessa nell’arco del medesimo (tanto che si parla solo del 40,2% delle misure, pari a 32.970 misure), senza tenere conto del presofferto di chi, invece, è destinatario di una misura custodiale in carcere da diversi anni e solo dopo altri anni vede la propria “luce”, rappresentata dall’emissione di una pronuncia di assoluzione piena o comunque a lui favorevole.

Attraverso una macrovalutazione si ha poi maggiore contezza del problema, da cui si rileva che nel corso del triennio 2018-2020 sono 12.583 le persone sottoposte a custodia cautelare in carcere o domiciliare e poi prosciolte con sentenza di assoluzione, [24] ovvero un totale di epiloghi assolutori o di proscioglimento a vario titolo del 10% circa, quindi 1 misura su 10 è stata emessa in un procedimento che ha poi avuto come epilogo il proscioglimento o l’assoluzione della persona. [25]

Perciò, circa il 10% delle misure applicate si conclude con l’esito assolutorio del procedimento, sconfessando, così, l’ordine cautelare impartito ab origine. Se da un lato questo può dipendere, dal sopraggiungersi di elementi istruttori non precedentemente individuati o preventivati, dall’altro è ampiamente veritiero che un esito di questo tipo era apertamente dimostrabile, tale da rendere l’applicazione della misura ingiusta.

Per cui, sulla base dei numeri sopracitati si evince che la custodia cautelare in carcere e gli arresti domiciliari rappresentano da sole il 58% delle misure emesse, mettendo palesemente in secondo piano le numerose misure alterative che offre il codice di rito.

A questi numeri vanno poi aggiunti i procedimenti che terminano con una condanna definitiva o non definitiva con sospensione condizionale della pena, con epiloghi che sconfessano, seppur successivamente, la necessità della misura custodiale. [26]

Gli effetti derivanti da tali azioni cautelari sono eloquenti e drammatici allo stesso tempo, si pensi che su un totale di 31.455 misure cautelari personali emesse nel 2020, molti procedimenti dei quali conclusi con condanna non definitiva (18.675), altri con condanna non definitiva ma con pena sospesa (2.639), poi altri conclusi con condanna definitiva (7.272) e infine conclusi con condanna sospesa condizionatamente (1.909). [27]

In tali procedimenti occorre precisare un numero rilevante di sentenze di assoluzione (3.331), di cui alcune definitive (462) e altre non ancora definitive (1.745). [28]

Dall’analisi di questi, si evince un drastico calo delle misure emesse nel 2020 rispetto all’anno precedente che, però, trova la sua ratio in una ragione ben precisa, riconducibile all’avvento dell’emergenza pandemica che ha, inevitabilmente, bloccato il sistema giustizia.

Sulla base di questi dati si desume che, nel quadriennio considerato, le misure cautelare custodiali costituiscono il 58% delle misure totali emesse, mentre quelle non custodiali il rimanente 42%; una misura cautelare coercitiva su tre è quella carceraria, mentre una misura su quattro è rappresentata dagli arresti domiciliari. [29]

Attraverso una macroanalisi dell’applicazione della misura custodiale in ambito europeo, i numeri sono tutt’altro che diversi rispetto ai dati interni, evidenziandosi un agire univoco.

L’Italia è, difatti, negli ultimi gradini delle classifiche europee per detenuti in carcere ancora sotto processo, di cui il 31,5% del totale della popolazione carceraria a fronte di una media UE inferiore al 25%. L’Italia poi, è protagonista in negativo della classifica anche riguardo ai Paesi che detengono per più tempo i detenuti in stato di custodia cautelare, mediamente oltre i sei mesi, al di sotto solo di Paesi come la Slovenia (12,9 mesi), l’Ungheria (12,3 mesi), Grecia (11,5 mesi) e Portogallo (11 mesi).

Le varie raccomandazioni emesse dalla Commissione Europea e rivolte agli Stati Membri, spingono, incessantemente, verso un rispristino dell’uso del carcere come extrema ratio, accompagnato da revisioni periodiche circa la sua adeguatezza. [30]

I numeri, di solito, non mentono mai.

E dalla lettura degli stessi e dalle considerazioni svolte si arriva alla conclusione che più aumenta il numero della popolazione carceraria, più cresce il numero di detenuti che non sono ancora stati giudicati da una sentenza irrevocabile.

In considerazione di ciò, dall’analisi dei numeri in possesso possiamo constatare che la custodia carceraria è la misura cautelare più utilizzata, a discapito del principio che il nostro ordinamento riconosce di ultima trincea allo strumento maggiormente afflittivo, da applicare soltanto qualora gli altri strumenti alternativi e meno afflittivi del carcere non siano in grado di realizzare lo scopo in misura adeguata.

Tale riscontro è divenuto abitudinario nel fenomeno che riguarda i maxiprocessi, soprattutto di criminalità organizzata, dove centinaia di persone vengono private della propria libertà personale mediante custodia cautelare in carcere, spesso in misura ingiustificata. Per cui non deve sorprendere che le sedi nelle quali vengono celebrati un numero rilevante di maxiprocessi siano quelle che risultano liquidare le somme più alte per ingiusta detenzione.

In questi casi il rischio concreto è quello che, in nome dell’elevata gravità o dell’allarme sociale provocato dal reato per cui si procede, si anteponga l’interesse dello Stato all’interesse della Persona.

In tali processi, spesso o comunque molto di frequente, si registra una differenza significativa tra gli indagati sottoposti ab origine a misura custodiale e quelli poi effettivamente attinti da una sentenza definitiva di condanna. Si tratta, di solito, processi riguardanti reati aventi natura associativa che, per il numero degli imputati, la mole delle contestazioni, la complessità dell’attività istruttoria che ne caratterizza, hanno tempi di durata spesso eccessivamente lunghi e non è poco frequente che, spesso, si giunga alla completa assoluzione, quindi, alla scarcerazione dell’accusato.

Molte volte ciò avviene anche in seguito all’intervento della Corte di Cassazione che annulla con rinvio il provvedimento cautelare ed il giudice di merito, conformandosi al principio enunciato, provvederà successivamente alla sua assoluzione. [31]

Come accennato, gli effetti che scaturiscono da una ingiustificata applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, soprattutto se protratta, per un arco temporale eccessivamente lungo, sono devastanti nei confronti di chi la subisce.

Si osservano effetti drammatici nei confronti di chi viene ritenuto presuntivamente “colpevole”, in mancanza di un adeguato iter processuale e privo di una sentenza di condanna che ne accerti in maniera esaustiva la responsabilità.

Sono effetti, come detto, drammatici, ma anche irreversibili quelli prodotti nei confronti di un “ingiusto colpevole”, che colpiscono direttamente l’esistenza della persona in quanto tale, attraverso la violazione della sua libertà e attraverso un rilevante declino di tutte quelle attività che permettono all’individuo di realizzarsi. Si assiste, inoltre, ad un repentino peggioramento della qualità della vita del detenuto e all’impossibilità di estrinsecare liberamente la propria personalità, oltre ad un annientamento delle relazioni sociali ed affettive che, molto spesso, ne compromettono la stabilità psicologica della persona e il peggioramento delle sue condizioni di salute.

L’imputato poi, una volta ristretto in custodia cautelare in carcere, perde il proprio ruolo sociale e lavorativo [32] che aveva all’interno della società, palesandosi l’elevata probabilità di perdita oltre che del posto di lavoro precedentemente ricoperto, anche di un pregiudizio da perdita di chances, oltre che l’allontanamento da tutti i suoi beni materiali.

Si assiste, dunque, ad una smaterializzazione della personalità del detenuto e ad un abbandono della propria identità, a favore di una nuova personalità, ricostruita coercitivamente da regole punitive e dal cosiddetto “codice interno” al carcere.

Tutto questo senza che l’imputato possa definirsi (ancora) colpevole del fatto per cui si procede, apparendo alla stregua di un sopravvissuto o, addirittura, di un non sopravvissuto.

Per cui il dovere di chi esercita il potere giurisdizionale è proprio quello di evitare di perseguire chi, pur partendo da una nobile intenzione, sia innocente, assoggettandolo ad un trattamento ingiustificato dalle conseguenze irreversibili, sicuramente maggiori delle somme che a titolo di indennizzo potrà ricevere in seguito all’ingiusta detenzione.

Procedere impropriamente all’applicazione della custodia cautelare in carcere, ad esempio, in presenza di un impianto probatorio scarno e inidoneo, destinato a sfaldarsi nel corso dell’accertamento, oltre che nei confronti del soggetto attinto, potrà produrre ulteriori e rilevanti effetti esterni denominati “eterogenesi dei fini”, per cui: la successiva assoluzione del soggetto accusato, potrà comportare l’accrescimento del prestigio personale e dell’ambiente cui questo fa riferimento; la difficoltà di procedere in futuro dinnanzi al medesimo fatto, qualora sopraggiungano elementi rilevanti e importanti a carico del soggetto, proprio come avviene per i casi di archiviazione; la ricezione, da parte del detenuto, di una cospiqua somma di denaro che lo Stato dovrà versare nei suoi confronti per l’ingiusta detenzione; oltre alla conseguenza dell’impossibilità di procedere a sequestro o confisca qualora la medesima disponibilità economica non abbia provenienza illecita.

Da tali considerazioni emerge un punto di vista che desta interesse, meritevole di opportune riflessioni.

Il modello processuale accusatorio, presente nel nostro Paese, ha portato il riconoscimento della centralità nella fase dibattimentale, in cui viene a formarsi la prova nel contraddittorio tra le parti, superando il previgente sistema che invece esauriva il ruolo di centralità alla fase di acquisizione delle prove nella fase delle indagini.

Si evidenzia, però, come nel tempo il momento centrale per l’opinione pubblica, grazie anche all’influenza dei media, sia, purtroppo, anche per chi detiene il potere giudiziario, quello della fase delle indagini, laddove diviene esecutiva la fase cautelare, condizionandone e determinandone la prosecuzione del processo e, naturalmente, il suo esito.

Ed è proprio questa la distorsione che si evince e che si vuole denunciare in questa sede.

Nonostante ciò non va comunque dimenticato che la vera partita decisiva si gioca nella fase dibattimentale, davanti ad un giudice terzo e nel contraddittorio tra le parti e che gli elementi probatori che giustificano una misura cautelare non comportano automaticamente una sentenza di condanna.

Sulla base di quanto detto, è necessario, quindi, parlare di giustizia “ingiusta”?

Nel momento in cui non esiste la necessità di una condanna o è carente il quadro probatorio capace di giustificare una restrizione in carcere e questa avviene nonostante ciò, la risposta non potrà che essere di natura affermativa.

A questo proposito, avendo quale monito gli effetti pregiudizievoli e irreversibili nei confronti dell’accusato e le conseguenze derivanti dall’ingiusta detenzione, il punto di vista in cui occorre guardare per l’applicazione della custodia cautelare viene determinato dalle prospettive riconducibili alle previsioni di condanna nelle fasi di merito e di legittimità nei riguardi dello stesso accusato, per cui l’obiettivo del processo non si arresta sicuramente con la pronuncia cautelare, ma mira a giungere ad un esito oltre ogni ragionevole dubbio.

Ripristinare questa consapevolezza, orientata ad un giudizio prognostico sull’esito del procedimento di merito, può rappresentarsi quale “vaccino” idoneo avverso l’epidemia cautelare di cui siamo testimoni, finalizzato a ridurre i sacrifici umani ed economici cui da una parte l’Uomo, in misura irreversibile, dall’altra lo Stato, in misura spesso eccessiva, sono chiamati a sopportare. [33]

Tutto ciò si tramuterebbe in una violenza di Stato perpetrata nel nome di una presunta legalità, scaturente da una democrazia fragile qual è la nostra che, influenzata dai timori e delle tensioni dei tempi, nonostante sia ancorata ai valori e ai principi della Costituzione spesso se ne dimentica, con il rischio di generare anticorpi che oltre a colpire il bersaglio inevitabilmente rischierebbe di colpire sé stessa.

Per cui la domanda che ci si pone al termine di tali considerazioni sarà: è pur vero che il nostro ordinamento prescrive il riconoscimento di un indennizzo di valore economico a chi sia versato ingiustamente in stato di custodia cautelare in carcere, ma la libertà violata nel segno dello scorrere del tempo inesorabile, chi potrà mai risarcirla?


[1] A. GATTO, Le nuove misure cautelari, Giuffrè Editore, 2017, p. 3.
[2] C. DE ROBBIO, Le misure cautelari personali, Giuffrè Editore, 2016, p. 97 ss.
[3] L’art. 5 par. 3 della Convezione Europea dei Diritti dell’Uomo statuisce che: <<Ogni persona arrestata o detenuta nelle condizioni previste dal paragrafo 1 c) del presente articolo, deve essere tradotta al più presto dinanzi a un giudice o a un altro magistrato autorizzato dalla legge ad esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere posta in libertà durante l’istruttoria. La scarcerazione può essere subordinata ad una garanzia che assicuri la comparizione della persona all’udienza>>.
[4] L. DI NANNI, G. FUSCO e G. VACCA, Custodia cautelare e modifiche della competenza penale, Jovene Editore, Napoli, 1985, p., p.65 e 66.
[5] F. CARRARA, Immoralità del carcere preventivo, in Opuscoli di diritto criminale, Tipografia Giacchetti, Figlio e C., Lucca 1889, p. 301.
[6] F. ZACCHÈ, Criterio di necessità e misure cautelari personali, Giuffrè Editore, 2018, p. 1 ss.
[7] G. ILLUMINATI, Carcere e Custodia Cautelare, in Cassazione Penale, Giuffrè Editore, 2012, p. 2372 e 2373.
[8] V. GREVI, Libertà personale dell’imputato e costituzione, Giuffrè Editore, 1976, p. 302.
[9] Art. 137 c.p., il quale prescrive che il tempo trascorso in custodia cautelare, in carcere o agli arresti domiciliari, viene detratto dalla pena per la quale l’imputato è stato condannato, sia essa detentiva (reclusione o arresto), sostitutiva (semidetenzione e libertà controllata) o pecuniaria (multa o ammenda).
[10] V. GREVI, Libertà personale dell’imputato e costituzione, Giuffrè Editore, 1976, p. 299 ss.
[11] Le privazioni di libertà personale suscettibili di essere riparate sono, innanzitutto, quelle adoperate mediante le misure custodiali, nello specifico la custodia cautelare in carcere o presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri, custodia in luogo di cura e gli arresti domiciliari. Non vi rientrano, invece, le restrizioni compiute mediante le altre misure cautelari, siano essere interdittive o coercitive non custodiali.
La domanda per la riparazione deve essere proposta, a pena di inammissibilità, entro due anni dal giorno in cui la sentenza sia divenuta irrevocabile, la sentenza di non luogo a procedere inoppugnabile o dal giorno di notificazione del provvedimento di archiviazione all’indagato.
[12] V. GREVI, Libertà personale dell’imputato e costituzione, op. cit., p. 373.
[13] C. FIORIO, R. FONTI e M. MONTAGNA, Corso di Procedura penale, Le Monnier Università, 2019, p. 507 ss.
[14] V. GREVI, Libertà personale, op. cit., p. 377 e 378.
[15] F. ZACCHÈ, Criterio di necessità, op. cit., p. 3 e 4.
[16] A questo proposito si aggiungono anche le confessioni di avvocati di alcuni Stati membri che denunciano l’uso della custodia cautelare fini illegali, ad esempio per estorcere confessioni, oltre che la verità di alcuni giudici che ammettono l’uso di tale misura per assolvere fini meramente punitivi.
[17] Cfr. Corte EDU, sez. II, Torregiani e altri c. Italia, 8 gennaio 2013, n. 43517/09, 46882/09, 55400/09; 57875/09, 61535/09, 35315/10, 37818/10. Tale sentenza riguarda la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti umani da parte dell’Italia, attraverso trattamenti inumani o degradanti subiti dai ricorrenti, sette persone detenute negli istituti penitenziari di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione.
[18] E. MARZADURI, La libertà personale tra rispetto della presunzione di non colpevolezza ed anticipata esecuzione delle sanzioni detentive, in www. lalegislazionepenale.eu, 19 settembre 2016, p. 1.
[19] G. ILLUMINATI, La riforma delle misure cautelari personali, a cura di L. Giuliani, Torino, 2015, p. 12.
[20] F. ZACCHÈ, Criterio di necessità, op. cit., p. 5 ss.
[21] Per cui sembra difficile che il giudice di merito, avendo accesso al provvedimento limitativo della libertà personale dell’imputato, ignori o contesti apertamente il vaglio operato, soprattutto se questo proviene dalla Corte di Cassazione.
[22] A. SORGE, Lo scandalo più grande resta l’abuso della custodia cautelare, in www.ilriformista.it, 2021.
[23] Relazione annuale sulle “Misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione dati anno 2023” ad opera del Ministro di Giustizia alle Camere ex L. 16 aprile 2015, n. 47, Aprile 2024.
[24] R. RADI, L’uso e l’abuso del potere cautelare in Italia, in www.filodiritto.it, 2021.
[25] Relazione annuale sulle “Misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione dati anno 2020” ad opera del Ministro di Giustizia alle Camere ex L. 16 aprile 2015, n. 47, Aprile 2021.
[26] Nello specifico nel triennio 2018-2020 sono 4.548 le persone ristrette con misure cautelari coercitive che, all’esito del processo, hanno avuto la sospensione condizionale della pena e quindi hanno patito la misura in contrasto a quanto disposto dall’art. 275 comma 2-bis c.p.p.
[27] R. RADI, L’uso e l’abuso del potere cautelare in Italia, op. cit.
[28] I dati relativi all’anno 2020 indicano nel totale di 750 i procedimenti per i quali vi è stato accoglimento delle istanze delle istanze di ingiusta detenzione, con una liquidazione emessa all’incirca di 37 milioni di euro.
[29] Relazione annuale sulle “Misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione dati anno 2021” ad opera del Ministro di Giustizia alle Camere ex L. 16 aprile 2015, n.47, Aprile 2022.
Dalla Relazione in oggetto si evince che sette distretti congiuntamente considerati (Roma, Milano, Napoli, Bologna, Torino, Bari, Firenze), detengono più della metà del totale nazionale delle misure emesse. Nello specifico la distribuzione geografica delle misure emesse, con riferimento all’anno 2021, avviene nel seguente modo: Nord 40,7 % – Centro 20,4 % – Sud 25, 3 % – Isole 13,6 %.
[30] T. LECCA, Troppi detenuti senza processo, l’UE ammonisce l’Italia: “Un abuso”, in www.europa.today.it, 2022.
[31] R. LUCISANO, Custodia cautelare ed ingiusta detenzione, in www.questionegiustizia.it, 2021.
[32] Mediante il riconoscimento dell’”ingiusta detenzione”, chiunque sia stato sopposto a custodia cautelare in carcere e sia stato per ciò licenziato dalla propria attività lavorativa che svolgeva antecedentemente all’applicazione della misura custodiale, ha diritto di essere reintegrato nel posto di lavoro medesimo qualora, nei suoi confronti, venga pronunciata sentenza di assoluzione, proscioglimento, di non luogo a procedere o venga disposto provvedimento di archiviazione.
[33] R. LUCISANO, Custodia cautelare ed ingiusta detenzione, op. cit.

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