La deviazione dal principio “un’azione – un voto” e le azioni a voto plurimo nel nuovo “Decreto Rilancio”
Sommario: Introduzione – 1. Quadro comparato – 2. L’introduzione delle azioni a voto plurimo in Italia – 3. Le tutele per le minoranze
Introduzione
La bozza del Decreto Rilancio circolata tra gli addetti ai lavori e sui principali organi di stampa ha riaperto il dibattito sulla possibilità di introdurre anche in Italia lo strumento delle azioni a voto plurimo. L’art. 45 del Decreto infatti sembrerebbe autorizzarne l’emissione anche per le società quotate derogando così al divieto posto dall’art. 127-sexies, comma 1, TUF. La disposizione in fieri pare di estrema attualità se si considera che ciclicamente lo strumento delle azioni a voto multiplo viene invocato come rimedio per l’emorragia di società che annualmente decidono di spostare la propria sede legale dall’Italia verso stati, anche vicini, che ammettono la possibilità di farne ricorso. Senza voler minare la portata innovatrice della disposizione in discussione, occorre precisare che le azioni a voto plurimo attualmente non sono del tutto estranee alle società italiane. Pur essendone infatti vietata l’emissione per le società quotate, il comma quarto dell’art. 2351 c.c. ne rende possibile la creazione per tutte quelle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. A ben vedere poi, non è raro rintracciare la presenza di azioni a voto plurimo anche in società con titoli quotati. Come recita il secondo comma dell’art. 127-sexies TUF, le azioni a voto plurimo emesse anteriormente all’inizio delle negoziazioni in un mercato regolamentato mantengono le loro caratteristiche e diritti. Inoltre, è lo stesso comma a prevedere la possibilità per le società quotate che hanno emesso azioni a voto plurimo (ovvero per le società risultanti dalla fusione o scissione di tali società) di emettere azioni a voto plurimo con le medesime caratteristiche e diritti di quelle già emesse al ricorrere di determinate circostanze. Fatti salvi i casi in cui lo statuto disponga diversamente, le suddette società possono ricorrere all’emissione di azioni a voto plurimo al fine di preservare il rapporto tra le diverse categorie di azioni in caso di aumento di capitale o di operazioni straordinarie, quali fusioni e scissioni.
Dato il ritorno in auge della tematica il presente articolo si propone di tracciare un breve quadro comparato in materia di azioni a voto plurimo, accompagnandolo da alcuni spunti di riflessione che attengono principalmente alla tutela delle minoranze ed esplorando anche possibili misure che permettano da un lato di rendere più appetibile il sistema italiano ponendo fine alla pericolosa fuga all’estero di grandi società italiane e dall’altro di evitare il sacrificio dei diritti degli azionisti di minoranza sull’altare di una non meglio precisata esigenza di competitività tra ordinamenti giuridici.
1. Quadro comparato
Da uno studio portato avanti dalla Commissione europea nel 2007 (Report on the proportionality principle in the European Union) emerge che la disciplina del diritto di voto assume connotati diversi da paese a paese. Nessuno tra gli ordinamenti presi in esame (oltre agli Stati membri dell’Unione Europea sono presi in considerazione anche gli ordinamenti giuridici di Stati Uniti, Giappone e Australia) prevede l’adozione del principio “one share-one vote” in maniera rigida. In particolare: Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Ungheria, Olanda, Finlandia, Svezia, Stati Uniti e Giappone ammettono l’emissione di azioni a voto plurimo; Svezia, Olanda, Finlandia e Danimarca consentono alle società di prevedere nei propri statuti differenti categorie di azioni, anche con diritti di voto multiplo.
Tutti gli ordinamenti presi in esame prevedono la figura delle azioni prive di voto, compensando l’assenza di questo diritto con privilegi di carattere patrimoniale. Cinque tra gli Stati presi in esame (Francia, Irlanda, Italia, Finlandia e Regno Unito) consentono l’emissione di azioni prive del diritto di voto anche senza benefici di natura compensativa
I Paesi che prevedono la categoria delle azioni a voto plurimo hanno stabilito però dei limiti all’emissione di tali strumenti o all’esercizio dei diritti di voto. Francia, Danimarca, Ungheria e Svezia fissano un limite massimo di voti attribuibili ad ogni azione, oltre a una certa percentuale del capitale sociale che tali azioni non possono superare. In alcuni casi, come accade in Danimarca, Finlandia e Svezia, il voto plurimo può essere attenuato mediante la previsione di maggioranze qualificate che riguardino ad esempio le delibere assembleari di particolare importanza.
Anche il Dutch Civil Code ammette la possibilità di emettere azioni a voto plurimo. L’attribuzione del voto multiplo è però subordinata al rispetto della proporzionalità tra valore nominale delle azioni e diritti di voto ad esse attribuiti. Questo comporta che le società possano emettere azioni con valore nominale diverso l’una dall’altra, ma il voto multiplo possa essere attribuito solo a quelle azioni che nei fatti abbiano valore nominale multiplo rispetto alle azioni ordinarie, senza possibilità di computare le frazioni di voto. Viene in tal modo garantita la proporzionalità tra capitale e voto.
L’ordinamento francese riconosce la possibilità di attribuire alle azioni un voto doppio al ricorrere di determinate condizioni: le azioni devono essere nominative; devono risultare interamente liberate; devono essere state possedute dallo stesso soggetto per un periodo di tempo non inferiore a 24 mesi.
Per le azioni di nuova emissione trovano inoltre applicazione le stesse regole inerenti al voto già applicabili per le azioni detenute da ogni singolo azionista. Ad esempio, un azionista che abbia maturato il diritto al voto doppio in concorrenza di un aumento di capitale si vedrà attribuite azioni a voto doppio uguali a quelle già in suo possesso anche prima che decorrano i 24 mesi dall’aumento di capitale. L’art. L 225-125 del Code de commerce al comma terzo prevede che il diritto al voto doppio si applichi soltanto per gli azionisti di nazionalità francese, europea o di uno Stato che abbia sottoscritto l’accordo relativo allo Spazio economico europeo. Il Code de commerce prevede inoltre la possibilità che gli statuti possano limitare il numero di voti di cui ciascun azionista può disporre, a condizione che tale limitazione non sia imposta ad personam ma interessi piuttosto tutti gli azionisti, a prescindere dal fatto che essi siano titolari di azioni di categoria ordinaria o speciale. Tuttavia, in caso di successo di un’offerta pubblica di acquisto, alla prima assemblea che segue l’offerta, i limiti statutari al voto plurimo non trovano applicazione qualora l’offerente, da solo o di concerto, venga a detenere una frazione del capitale sociale fissata dall’autorità francese per i mercati finanziari (Amf) pari almeno a quella richiesta per le modifiche statutarie e non superiore ai tre quarti del capitale sociale. In definitiva, il voto doppio francese appare molto simile alle maggiorazioni di voto previste in Italia dall’art. 127-quinquies TUF, essendo questo collegato più alla persona dell’azionista che all’azione, come confermato anche dall’art. Leg 225-124 che prevede la decadenza automatica dal voto doppio in caso di cessione delle azioni.
Similarmente a quanto previsto dall’art. 2351 c.c., anche l’Aktien Gesetz tedesco all’art. 12 esclude la possibilità per le società di emettere azioni a voto plurimo. A ben guardare, però, tale divieto risale al 1998 ed alla riforma che ha portato all’introduzione del Control on Trasparency in Business Act. Inoltre, il divieto non ha avuto vigenza immediata essendo stato permesso per cinque anni (ovvero sino al 2003) alle società tedesche di emettere azioni a voto plurimo. Il caso tedesco risulta particolarmente significato perché il divieto di azioni a voto multiplo tuttora non appare tassativo, se si considera che può essere derogato con una delibera assunta a maggioranza dei tre quarti del capitale sociale.
Il principio “one share-one vote” è derogato anche negli ordinamenti di tutti gli stati che compongono gli Stati Uniti d’America. Tale materia negli anni ha risentito di una forte disomogeneità essendo spesso rimessa ai regolamenti di ciascuna Borsa valori, fino all’entrata in vigore nel 1988 della Rule 19c-4 che vietava per le società quotate o quotande di limitare o alterare i diritti di voto connessi a ciascun titolo. Anche dopo l’abrogazione della Rule 19c-4, i regolamenti di borsa hanno tentato di conservarne i principi, vietando in particolare l’emissione “super voting stocks” ma permettendole se già emesse prima della quotazione, dando il via così alla prassi che ha visto moltissime società effettuare modifiche allo statuto per adottare le azioni a voto multiplo prima dell’IPO.
2. L’introduzione delle azioni a voto plurimo in Italia
L’introduzione delle azioni a voto multiplo nel panorama giuridico italiano non pare essere in contrasto con nessuno dei principi dell’ordinamento. Tenendo in particolare considerazione gli effetti che l’introduzione della categoria delle azioni a voto plurimo avrebbe sul contesto italiano, dove i problemi di agency interessano più gli azionisti di maggioranza e quelli di minoranza che non la proprietà e i manager, occorre procedere nell’analisi distinguendo due circostanze: l’adozione delle azioni a voto plurimo prima della quotazione e l’introduzione delle stesse successiva alla quotazione.
L’introduzione delle azioni a voto plurimo al momento della costituzione della società non solleva particolari problemi, anche ove una clausola statutaria rimandi ad un momento successivo l’introduzione della categoria di azioni con un aumento di capitale. Nessuna delle due fattispecie infatti dà diritto al recesso, diversamente da quanto accade quando la modifica statutaria intercorra nel corso della vita della società. La previsione del recesso unitamente a quella che richiede il quorum rafforzato previsto per l’assemblea ordinaria agli artt. 2368 e 2369 c.c. e all’obbligo di offrire in opzione le nuove azioni ai sensi dell’art. 2441, lascia protendere per l’idea che l’adozione di azioni a voto multiplo nella fase successiva alla costituzione della società sia ideale solo per quelle imprese dall’azionariato molto ristretto, dove il peso economico del diritto di recesso può essere considerato minimo e dove è anche più facile raggiungere le maggioranze rafforzate previste per l’approvazione della delibera.
I problemi connessi all’introduzione delle azioni a voto plurimo sembrano maggiori nel caso di società quotate. Anche nell’ipotesi che la società quotata riuscisse ad adottare le azioni a voto multiplo superando gli scogli già ricordati, le ricapitalizzazioni tramite emissioni di azioni speciali a voto multiplo pongono diversi profili critici. In particolare, si ricorda che se come è prevedibile, tutti i soci aderissero all’aumento di capitale, le quote relative dei diritti di voto rimarrebbero invariate e dunque non vi sarebbero incentivi particolari a raccogliere nuove risorse usando le azioni a voto multiplo al posto di quelle ordinarie. Inoltre si potrebbe porre un complesso problema di valorizzazione del diritto d’opzione e di offerta dei diritti inoptati per i soci che non intendono aderire all’aumento di capitale, poiché l’azione a voto multiplo sottostante non sarebbe (ancora) quotata e quindi non avrebbe un prezzo di mercato; infine, gli azionisti di minoranza potrebbero finire per vendere i diritti d’opzione a prezzi inferiori al valore teorico e il socio di controllo potrebbe rastrellarli, rafforzando notevolmente la sua posizione con un controllo a leva. Questo rafforzamento dell’azionista di maggioranza causerebbe inevitabilmente una flessione del prezzo del titolo, che potrebbe comportare esternalità negative per gli azionisti di minoranza legati alla riduzione dei corsi azionari.
3. Le tutele per le minoranze
In uno scenario economico post-emergenziale ed in un’economia come quella italiana assai gravata dal peso dell’epidemia da Covid-19, appare superfluo ricordare i vantaggi che porterebbe l’introduzione delle azioni a voto plurimo. A fianco alla riduzione degli incentivi allo spostamento all’estero della sede legale delle società italiane, lo strumento delle azioni a voto plurimo incarnerebbe un metodo meno invasivo del golden power per evitare scalate di società estere portate avanti a prezzi di saldo a danno di società quotate italiane. Inoltre, le azioni a voto plurimo potrebbero rivelarsi assai utili per rafforzare i poteri delle maggioranze preesistenti qualora passasse la linea che vuole la conversione in equity dei prestiti fatti dalle banche alle imprese nel corso dell’emergenza o l’intervento diretto dello stato nel capitale delle società private. Non bisogna neppure trascurare poi i benefici che tale strumento potrebbe sortire dal punto di vista dell’apertura del capitale a terzi investitori, senza che gli azionisti di riferimento corrano il rischio di perdere il controllo della società. Tuttavia, l’ingresso di un tale istituto all’interno del quadro normativo italiano potrebbe causare anche diversi rischi. Soprattutto per le società quotate poi la facoltà di modificare lo statuto al fine di introdurre le azioni a voto plurimo dovrebbe essere accompagnata quindi da misure normative volte a fornire ai soci di minoranza un adeguato set di tutele.
Quali sono queste tutele? Oltre ai già ricordati diritti di recesso, opzione e maggioranze rafforzate per l’adozione della delibera ed ai cosiddetti “diritti delle minoranze” come il diritto di richiedere la convocazione dell’assemblea (Art. 2367, comma 1, c.c.), diritto di richiedere il rinvio dell’assemblea stessa (Art. 2374 c.c.), il diritto di impugnare le deliberazioni assembleari invalide (art. 2377, comma 3, c.c.), il diritto di intraprendere l’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori (art. 2393-bis c.c.), il diritto di ottenere che il collegio sindacale indaghi su fatti ritenuti censurabili (art. 2408, comma 2, c.c.), il diritto di denuncia al tribunale (art. 2409 c.c.) che il codice civile continua ad attribuire al possesso di una determinata soglia di capitale e non di diritti di voto, la Consob[1] sottolinea che il set di tutele a favore delle minoranze potrebbe essere anche arricchito dal Legislatore con ulteriori previsioni normative, quali ad esempio: la previsione di un limite al numero di voti attribuibili a ogni azione, un limite quantitativo all’emissione di azioni a voto multiplo rapportato al capitale sociale, un limite all’utilizzo del voto plurimo in relazione a determinate delibere dell’assemblea dei soci o rispetto alle quali siano richieste maggioranze qualificate, l’obbligo di convertire le azioni a voto multiplo in azioni ordinarie al venir meno delle ragioni economiche che ne hanno giustificato l’introduzione.
A differenza della direttiva 2004/25/CE che con la break-through rule prevede la sterilizzazione dei diritti di voto plurimi in caso di OPA, il nostro ordinamento non conoscendo ancora la figura delle azioni a voto plurimo andrebbe adeguato. Così, sempre secondo la Consob, l’eventuale introduzione nel nostro ordinamento delle loyalty shares e/o delle azioni speciali a volto multiplo renderebbe necessario altresì l’introduzione esplicita (all’art.104-bis del Tuf) della regola della sterilizzazione dei voti multipli in base a quanto previsto dalla direttiva Opa. Inoltre, al fine di preservare la contendibilità del controllo e di mitigare uno degli inconvenienti principali delle azioni a voto multiplo, si dovrebbe valutare se fare della sterilizzazione dei voti multipli una regola cogente ovvero se rimetterla alla libertà statutaria.
Sempre all’insegna della prevenzione del rischio di opportunismi compiuti attraverso ricapitalizzazioni attuate mediante emissione di azioni a voto plurimo, si potrebbe prevedere per tali operazioni un divieto di delega agli amministratori, oltre all’applicazione di alcuni profili della disciplina prevista dall’art. 2441, commi 5 e 6 (attestazione di un interesse sociale specifico all’uso delle azioni a voto multiplo, relazione degli amministratori sul tema, parere di congruità del prezzo da parte dell’organo di controllo). Inoltre, la relativa delibera non dovrebbe essere assunta in presenza del voto contrario di una minoranza di soci che rappresenti nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, almeno un ventesimo del capitale sociale (meccanismo del white washing simile a quello applicato per le operazioni con parti correlate).
Un’altra soluzione per arginare buona parte dei rischi elencati potrebbe essere quella, sulla scorta del modello statunitense, di accompagnare l’emissione delle azioni a voto plurimo con delle vere e proprie sunset clause che prevedano la conversione delle azioni a voto multiplo in azioni ordinarie al ricorrere di determinate circostanze, come la cessione di una parte delle azioni, la riduzione della partecipazione in capo all’azionista cui spetta in voto plurimo, o ancora il semplice decorso di un intervallo di tempo precedentemente stabilito al momento dell’emissione.
[1] CONSOB, Quaderni giuridici n. 5/2014.
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Luigi Parrilla
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