La dichiarazione dei redditi da lavoro da parte dei dipendenti delle Ambasciate e dei Consolati
In questi mesi molti funzionari e dipendenti delle Ambasciate e dei Consolati presso l’Italia e la Santa Sede hanno ricevuto uno o più avvisi di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate, nei quali l’Ente statale ha denunciato l’omessa dichiarazione, ai fini del pagamento dell’IRPEF, dei redditi da lavoro dipendente percepiti.
La notifica di questi avvisi rappresenta la fase finale di un approfondito controllo effettuato dall’Agenzia delle Entrate, nel tentativo di contrastare l’evasione fiscale e recuperare quanto possibile dai lavoratori al servizio delle Ambasciate o dei Consolati, residenti in Italia, che abbiano percepito redditi, di fonte italiana o estera, sottoposti a tassazione nel nostro Paese e mai dichiarati.
Questi ultimi, però, lamentano l’illegittimità della pretesa avanzata dall’Ente impositore, che non terrebbe conto dell’esenzione fiscale, prevista delle Convenzioni internazionali, di cui godono i rappresentanti diplomatici, i funzionari e i dipendenti delle Ambasciate e dei Consolati.
Chi ha ragione?
Per dare una risposta è necessario dapprima analizzare la normativa internazionale e nazionale e, successivamente, focalizzare l’attenzione sulle pronunce più significative della giurisprudenza italiana.
La Convenzione di Vienna del 1963
L’art. 49 della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari, stipulata in data 24.04.1963 e ratificata sia dall’Italia con L. n°804/1967, prescrive che:
“I funzionari consolari, gli impiegati consolari e i membri della loro famiglia viventi nella loro comunione domestica sono esenti da ogni imposta e tassa, personali o reali, nazionali regionali e comunali, eccetto:
le imposte e le tasse sui beni immobili privati situati nel territorio dello Stato di residenza;
i diritti di successione e di mutazione riscossi dallo Stato di residenza,
le imposte e le tasse sui redditi privati, compresi i guadagni in capitale, che abbiano la fonte nello Stato di residenza;
ecc
I membri del personale di servizio sono esenti dalle imposte e dalle tasse sulle mercedi che ricevono per i loro servizi”.
I membri del posto consolare (cioè i funzionari, gli impiegati e i membri del personale di servizio) che impiegano persone il cui stipendio o la cui mercede non siano esenti dall’imposta sul reddito nello Stato di residenza, devono rispettare gli obblighi imposti al datori di lavoro dalla legge e dai regolamenti di questo Stato in materia di riscossione dell’imposta sul reddito.
Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 e appaiono chiare e soggette ad un’interpretazione univoca: i funzionari e gli impiegati e le rispettive famiglie sono esenti da qualsiasi imposta o tassa, sia in Italia che in qualsiasi altro Paese firmatario della suddetta Convenzione, mentre i membri del personale di servizio sono esenti solo da quelle sui compensi.
Il 3° comma, tuttavia, è soggetto a due interpretazioni, apparentemente in netto contrasto con le disposizioni dei primi due commi. Con la parola “persone” non è chiaro se esso si riferisca:
a tutti i soggetti di cui ai primi due commi. In questo caso la disposizione si porrebbe in netto contrasto con il principio dell’esenzione fiscale prevista per i funzionari, gli impiegati e i membri dell’Ambasciata;
a soggetti estranei a quelli sopra indicati, non precisando tuttavia l’identità degli stessi.
A parere di chi scrive, la seconda tesi sembra maggiormente conforme all’interpretazione complessiva delle disposizioni suindicate, ma palesa un’evidente contrasto normativo di cui i Paesi firmatari hanno subito “approfittato”, tassando i redditi da lavoro di tutti cittadini residenti, senza alcuna distinzione.
La normativa italiana
Il Legislatore italiano, con il D.P.R. n. 601/1973, si è adeguato in parte alle disposizioni della Convenzione di Vienna, prevedendo, all’art. 4, l’esenzione dall’IRPEF e dall’imposta locale solo per i redditi degli ambasciatori, dei diplomatici e degli impiegati (questi ultimi sono a condizione di reciprocità) degli Stati esteri accreditati in Italia che non siano cittadini italiani, né italiani non appartenenti alla Repubblica”.
Tale norma rappresenta una deroga al principio generale sancito dagli artt. 2 e 3 del successivo D.P.R. n. 917/1986 (Testo Unico delle Imposte sui Redditi), secondo cui tutte le persone fisiche residenti o domiciliate nel nostro Paese, indipendentemente dalla nazionalità, sono assoggettate all’imposizione fiscale.
Ne deriva, dunque, che per l’Ordinamento italiano sono esentati dal pagamento dell’IRPEF e delle addizionali solamente i redditi degli agenti consolari, dei funzionari e dei dipendenti delle Ambasciate e dei Consolati privi della cittadinanza italiana, anche se residenti in italia.
Il conflitto giuridico
Tale conclusione, però, determina un evidente contrasto giuridico con il principio stabilito dall’art. 49 della Convenzione di Vienna, che prevede la completa esenzione fiscale dei redditi dei membri delle Ambasciate e dei Consolati, a prescindere dalla nazionalità e dal Paese di residenza.
Quale norma prevale, dunque?
La Costituzione italiana, agli articoli 10 e 11 della Costituzione, prescrive la supremazia delle norme previste nelle convenzioni internazionali sulle disposizioni nazionali con esse contrastanti e la conseguente inapplicabilità di queste ultime.
Ne deriva, dunque, che tutte le eccezioni e restrizioni (cittadinanza, residenza, ecc.) previste nelle norme nazionali sopra richiamate vadano considerate in contrasto con il principio della completa esenzione fiscale stabilito dall’art. 49 della Convenzione e, pertanto, inapplicabili al caso di specie.
Conclusioni
A parere di chi scrive, prescindendo dalle diverse interpretazioni del terzo comma dell’art 49 della Convenzione di Vienna, qualsiasi deroga, prevista dalle leggi nazionali, al principio internazionale della completa esenzione fiscale per i membri delle Ambasciate e dei Consolati, va considerata illegittima o, comunque, inapplicabile.
Le richieste formulate dall’Agenzia delle Entrate negli avvisi di accertamento, nella maggior parte dei casi, si fondano sulle norme italiane sopra richiamate e non fanno alcun accenno al principio previsto dalla Convenzione di Vienna.
Pertanto, a parere di chi scrive, le richieste di versamento dell’IRPEF e delle addizionali nei confronti dei membri di Ambasciate e Consolati sono, nella maggior parte dei casi, prive di fondamento giuridico e legittimano il ricorso presso le Sedi giudiziarie competenti.
I rimedi stragiudiziali e giudiziali
Qualora il contribuente ritenesse ingiusta la richiesta formulata dall’Agenzia delle Entrate, può notificare all’Ente predetto, con l’assistenza di un Avvocato, un ricorso/reclamo – nel caso in cui le somme contestate siano inferiori ad € 50.000,00 – o solamente un ricorso (in caso di somme superiori), chiedendo l’annullamento o la rettifica dell’avviso di accertamento.
In caso di omessa/negativa risposta da parte dell’Agenzia delle Entrate entro i successivi 90 (novanta) giorni, il cittadino dovrà depositare il suddetto ricorso presso la Commissione Tributaria provinciale nei successivi 30 giorni.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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Laureatosi in Scienze Giuridiche nel 2010 e in Giurisprudenza nel 2012 presso l'Università degli Studi di Roma Tre, ha maturato una significativa esperienza nel contenzioso civile stragiudiziale e giudiziale, fino al conseguimento del titolo di Avvocato nel 2016. Successivamente, ha orientato l'attività professionale nelle materie di Diritto dei consumatori, Diritto dei trasporti e del Turismo e Diritto Sportivo, nelle quali si sta specializzando.
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