La diffamazione a mezzo internet
Sommario: 1. Introduzione – 2. Natura giuridica – 3. Elemento soggettivo – 4. Elemento oggettivo – 5. La condotta – 6. Diritto di satira, diritto di critica e diffamazione: quali sono i confini? – 7. La prova – 8. La tutela – 9. Conclusioni
1. Introduzione
L’utilizzo sempre maggiore di internet e la diffusione dei social network [1] hanno ridisegnato il ruolo dei poteri pubblici, mutato i rapporti sociali e inciso sull’antropologia stessa delle persone.
Oggi siamo in grado di comunicare con chiunque, in qualsiasi momento e a qualsiasi distanza, in quanto la tecnologia ha travalicato gli antichi limiti dello spazio e del tempo. Il web è il più grande spazio pubblico abitato dall’umanità, all’interno del quale la vita stessa ha cambiato i propri connotati: sono possibili l’anonimato e l’incremento delle identità, la tolleranza e l’accanimento, la libertà e il controllo.
Se, per un verso, internet costituisce un utile strumento di comunicazione, per altro verso esso rappresenta un pericoloso mezzo capace di veicolare condotte offensive dell’onore e della reputazione altrui.
Tutelare la propria reputazione diventa sempre più importante tenuto conto che, nel nostro tempo, l’identità di chiunque è accessibile tramite internet attraverso una semplice ricerca, digitando il nome e il cognome, sul motore più utilizzato al mondo: Google.
Alla stregua dell’enorme evoluzione tecnologica in atto, anche l’ambito dei diritti è stato ridisegnato nel tentativo di disciplinare nuove fattispecie, ampliando e aggiornando i propri orizzonti.
Il terzo comma dell’art. 595 c.p. prevede, tra le varie modalità di realizzazione del reato di diffamazione, anche quella compiuta “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” [2]. La diffusione di immagini online o la formulazione di espressioni denigratorie e lesive dell’altrui reputazione sul web costituiscono, pertanto, reato.
Può sorprendere la facilità con cui siamo catapultati nella realtà virtuale, dove dare libero sfogo ai pensieri, ma l’astrattezza di questa dimensione è in grado di produrre danni di enorme entità. Ad esempio, condividere un contenuto su un profilo personale, destinato ad essere visualizzato da un numero limitato di soggetti, può essere a sua volta condiviso da questi ultimi soggetti e, quindi, comparire nelle loro homepage ed essere visualizzato da ulteriori utenti fino a diventare, potenzialmente, di pubblico dominio.
Rientrano nell’ambito applicativo della fattispecie contra legem una vastissima serie di comportamenti: un commento su Instagram, un post su Facebook, una recensione su TripAdvisor, un messaggio inviato ad una mailing list o in un gruppo su WhatsApp, un passaggio informativo su Wikipedia o, ancora, un contributo in un forum.
Aggredire l’identità digitale di un soggetto equivale a comprometterne la sua proiezione nel mondo reale, ossia l’immagine, la reputazione e l’onore.
La diffusione di un dato errato o di un insulto, enormemente amplificata dal contesto telematico, siccome idonea a cagionare danni ingenti e duraturi, ha indotto la giurisprudenza e la dottrina a qualificare la rete internet quale tertium genus tra la stampa e gli altri mezzi di pubblicità: l’elemento oggettivo della pluralità dei destinatari è, dunque, da considerarsi in re ipsa sino a prova contraria.
Quanto detto sopra è riscontrabile anche nella giurisprudenza più recente secondo cui la condotta di postare un commento su Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, con la conseguenza che, se lo stesso è offensivo nei riguardi di persone facilmente individuabili, la relativa condotta integra gli estremi della diffamazione [3].
2. Natura giuridica
La diffamazione è un reato di evento [4] che si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l’espressione ingiuriosa e, dunque, nel caso in cui frasi o immagini lesive siano state immesse sul web, nel momento in cui il collegamento viene attivato [5].
È, inoltre, un reato istantaneo in quanto è integrato al momento della comunicazione a più persone.
La permanenza in rete dell’atto diffamatorio rende gli effetti dannosi suscettibili di attualizzarsi giorno dopo giorno: pertanto si tratta di reato permanente o a consumazione prolungata.
I beni giuridici tutelati sono la reputazione e l’onore.
La giurisprudenza ha chiarito che l’onore, in senso soggettivo designa quella somma di valori che l’individuo attribuisce a sé stesso, in senso oggettivo è la stima o l’opinione che gli altri hanno di noi, rappresenta cioè il patrimonio morale che deriva dall’altrui considerazione e che si definisce altrove reputazione [6].
La reputazione non si identifica con la considerazione che ciascuno ha di sé o con il semplice amor proprio, ma con il senso della dignità personale in conformità all’opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico. Non costituiscono, pertanto, offesa alla reputazione le sconvenienze, l’infrazione alla suscettibilità o alla gelosa riservatezza [7].
L’onore e la reputazione costituiscono diritti della persona costituzionalmente garantiti la cui lesione, alla stregua di una interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 2043 e 2059 c.c., è suscettibile di risarcimento del danno non patrimoniale, a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo costituisca o meno reato [8].
L’accertata sussistenza del reato determina quale conseguenza che il danno, sub specie di lesione alla reputazione e all’onore, è in re ipsa e nessuna prova deve dare l’attore [9], essendo implicita nella natura di tali illeciti la dimostrazione che la parte lesa subisce quanto meno danni morali e all’immagine [10].
La tutela dei beni presidiata dall’art. 595 c.p. deve essere contemperata con il diritto di ciascuno di manifestare liberamente il proprio pensiero, garantito dall’art. 21 della Costituzione: la libera manifestazione del pensiero può essere sacrificata solo se è giustificata dalla necessità di garantire la tutela di altri principi costituzionali.
Ciò che rileva, quindi, è la portata diffamatoria delle espressioni utilizzate, potenzialmente idonea ad offendere l’onore e il decoro della persona offesa in base al significato ricorrente di un determinato contesto territoriale e nel momento storico in cui l’evento si realizza.
È per questo che il concetto di diffamazione non può rimanere statico nei suoi contenuti, ma varia con l’evolversi dei costumi e secondo la coscienza sociale del momento.
3. Elemento soggettivo
La diffamazione è un delitto doloso e non occorre dimostrare l’animus diffamandi, inteso come volontà di ledere l’altrui reputazione, dal momento che l’art. 595 c.p. non esige un dolo specifico ma ritiene sufficiente il dolo generico, che si esaurisce nella volontà cosciente e libera di propagare notizie e commenti con l’accettazione del rischio della possibile realizzazione di fatti diffamatori [11].
4. Elemento oggettivo
L’elemento oggettivo del reato in esame è caratterizzato da tre requisiti:
l’assenza del soggetto passivo al momento dell’azione criminosa, come si deduce dall’inciso “fuori dai casi indicati nell’articolo precedente” (art. 594 c.p.: ingiuria), e che si traduce nella impossibilità che la persona offesa percepisca direttamente l’addebito diffamatorio e si possa difendere da esso;
l’offesa all’altrui reputazione, che viene generalmente intesa non come lesione, ma come probabilità o possibilità che l’uso di parole o di atti destinati a ledere l’onore provochi una effettiva lesione;
la comunicazione a più persone. In riferimento alla diffamazione a mezzo internet la sussistenza della comunicazione a più persone si presume nel momento stesso in cui il messaggio offensivo viene inserito su un sito internet che, per sua natura, è destinato ad essere visitato da un numero indeterminato di persone in breve tempo. La persona diffamata non deve essere necessariamente indicata nominativamente, ma essere individuabile agevolmente e con certezza. In altri termini, è sufficiente che l’offeso possa essere individuato per esclusione o in via deduttiva.
5. La condotta
Sono sempre più numerosi gli episodi di diffamazione che traggono origine dall’utilizzo del web.
Difetta probabilmente la piena consapevolezza che la realtà virtuale, così astratta, sotto il profilo della diffusione è più concreta ed efficace che mai.
Nonostante la diffusa convinzione che il seguito di una condotta diffamatoria su un social network possa essere, in extrema ratio, la rimozione del contenuto “incriminato”, le conseguenze che concretamente possono verificarsi non sono soltanto reali, ma, altresì, aggravate in quanto potenzialmente accresciute dal “mezzo di pubblicità” di cui all’anzidetto precetto penale.
La giurisprudenza di legittimità sul punto ha chiarito che : “la diffusione di un messaggio con le modalità consentite dall’utilizzo di una bacheca Facebook, ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, sia perché, per comune esperienza, bacheche di tal natura racchiudono un numero apprezzabile di persone (senza le quali la bacheca di Facebook non avrebbe senso), sia perché l’utilizzo di Facebook integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano […] rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti” [12].
Il post o il commento denigratorio su Facebook integrano, pertanto, la fattispecie tipizzata di cui all’art. 595 c.p., suscettibile di estendersi, per concorso, a coloro i quali condividono tali contenuti. È decisiva la valutazione del singolo comportamento che ha contribuito alla c.d. viralità con uno share, un re-post, un retweet, finanche un like (gesto che fa comparire la notizia sull’altrui homepage) su tutte le piattaforme accomunate dalla intrinseca idoneità a causare pubblicizzazione e diffusione dell’atto offensivo.
Il dibattito sulla diffamazione a mezzo internet si sta spingendo anche oltre l’utilizzo dei social network. Un esempio concreto riguarda il fenomeno delle recensioni online [13]. Non è errato sostenere che la maggior parte delle imprese, piccole o grandi che siano, godano di una certa reputazione informatica. Tale reputazione è spesso costruita sulla base dei feedback dei consumatori ed è idonea ad influenzare le scelte di consumatori successivi.
È possibile però che questo sistema, per via della estrema facilità di utilizzo, vada oltre il controllo dell’utente provocando danni agli operatori del libero mercato. Bisognerebbe pertanto interrogarsi su quale sia il limite tra il diritto di critica e la diffamazione.
In alcuni casi più estremi è stato legittimato il licenziamento del lavoratore “quando la critica, espressa in post sui social, palesa evidente disprezzo verso l’azienda, gli amministratori, rappresentanti e potenziali partner di questa” andando oltre e “valicando il confine, fino alla diffamazione” [14], ovvero quando, attraverso post sui social, si ingiuria il datore di lavoro. Ciò in quanto “il licenziamento è giustificato dalla perdita del rapporto di fiducia tra dipendente e datore di lavoro, indispensabile per la prosecuzione del rapporto datoriale” [15].
In tema di diffamazione a mezzo stampa, il diritto del soggetto a pretendere che proprie, passate, vicende personali non siano pubblicamente rievocate (c.d. diritto all’oblio) trova un limite nel diritto di cronaca solo quando sussista un interesse effettivo ed attuale alla loro diffusione, nel senso che quanto recentemente accaduto trovi diretto collegamento con quelle vicende stesse e ne rinnovi l’attualità, diversamente risolvendosi il pubblico ed improprio collegamento tra le due informazioni in un’illecita lesione del diritto alla riservatezza [16]. Pertanto, l’editore di un quotidiano che memorizzi nel proprio archivio storico della rete internet le notizie di cronaca, mettendole così a disposizione di un numero potenzialmente illimitato di persone, è tenuto ad evitare che, attraverso la diffusione di fatti anche remoti, senza alcun interesse pubblico pregnante ed attuale, possa essere leso il diritto all’oblio delle persone che vi furono coinvolte [17].
Più di recente, è stato ribadito che la persistente pubblicazione e diffusione, su un giornale on line, di una risalente notizia di cronaca esorbita, per la sua oggettiva e prevalente componente divulgativa, dal mero ambito del lecito trattamento di archiviazione o memorizzazione on line di dati giornalistici per scopi storici o redazionali, ha comportato la violazione del diritto alla riservatezza in quanto, in considerazione del tempo trascorso, è venuto meno l’interesse pubblico alla notizia stessa [18].
Dal quadro descritto deve, pertanto, inferirsi che il diritto fondamentale all’oblio può subire una compressione a favore dell’ugualmente fondamentale diritto di cronaca solo in presenza di specifici e determinati presupposti:
il contributo arrecato dalla diffusione dell’immagine o della notizia ad un dibattito di interesse pubblico;
l’interesse effettivo e attuale alla diffusione dell’immagine o della notizia (per ragioni di giustizia, di polizia o di tutela dei diritti e delle libertà altrui, ovvero per scopi scientifici, didattici o culturali), da reputarsi mancante in caso di prevalenza di un interesse divulgativo o, peggio, meramente economico o commerciale del soggetto che diffonde la notizia o l’immagine;
l’elevato grado di notorietà del soggetto rappresentato, per la peculiare posizione rivestita nella vita pubblica e, segnatamente, nella realtà economica o politica del Paese;
le modalità impiegate per ottenere e nel dare l’informazione, che deve essere veritiera (poiché attinta da fonti affidabili e con un diligente lavoro di ricerca), diffusa con modalità non eccedenti lo scopo informativo, nell’interesse del pubblico e scevra da insinuazioni o considerazioni personali, sì da evidenziare un esclusivo interesse oggettivo alla nuova diffusione;
la preventiva informazione circa la pubblicazione o trasmissione della notizia o dell’immagine a distanza di tempo, in modo da consentire all’interessato il diritto di replica prima della sua divulgazione al grande pubblico.
In assenza di tali presupposti, la pubblicazione di un’informazione concernente una persona determinata, a distanza di tempo da fatti e avvenimenti che la riguardano, non può che integrare la violazione del fondamentale diritto all’oblio, come configurato dalle disposizioni normative e dai principi giurisprudenziali suesposti.
Di recente, con ordinanza della Corte di Cassazione, Sez. III civile n. 28084 del 5 novembre 2018, è stata rimessa alle Sezione Unite la definizione dei criteri di bilanciamento tra diritto di cronaca e diritto all’oblio.
6. Diritto di satira, diritto di critica e diffamazione: quali sono i confini?
La Suprema Corte [19] ha precisato che il diritto di satira non può eccedere fino a concretizzare chiare allusioni nei confronti di soggetti determinati. Diversamente, è configurabile il reato di diffamazione. Ciò in quanto la satira è una riproduzione ironica e non la cronaca di un fatto.
La satira, più precisamente, costituisce una modalità corrosiva e spesso impietosa del diritto di critica, sicché, diversamente dalla cronaca, è sottratta all’obbligo di riferire esclusivamente fatti veri, in quanto esprime, mediante il paradosso e la metafora surreale, un giudizio ironico su di un fatto, pur soggetta al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni o delle immagini rispetto allo scopo di denuncia sociale o politica perseguito. Conseguentemente, nella formulazione del giudizio critico, possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo, anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o dal comportamento preso di mira, e non si risolvano in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato [20].
Il diritto di critica è superato in presenza di espressioni gravemente infamanti e umilianti, idonee a generare una mera aggressione verbale nei confronti del soggetto criticato. Ciò significa che il contesto nel quale si colloca la condotta “non può in alcun modo scriminare l’uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona di quest’ultimo in quanto tale” [21].
Il diritto di critica deve essere, dunque, esercitato con pertinenza e moderazione al fine di non oltrepassare il confine del lecito.
La fondatezza dell’opinione unitamente alla verità della notizia, attentamente valutate con riferimento al momento in cui sono divulgate, attribuiscono efficacia esimente all’esercizio del diritto alla cronaca.
7. La prova
In che modo si inquadra la più classica delle cautele adoperate dalla parte lesa, ossia lo screenshot?
Quest’ultimo, se non contestato dalla controparte, costituisce prova.
Si differenzia a seconda che venga prodotto per mezzo di mera stampa di pagina web [22] oppure tramite il salvataggio del c.d. codice sorgente e allegato in forma digitale o, strumento ben più solido, con copia conforme rilasciata da un notaio, cancelliere, segretario comunale o da altro soggetto previsto dall’art. 18 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445.
In ogni caso, nel giudizio civile, lo screenshot ha gli effetti probatori di cui all’art. 2712 c.c., come emendato dal d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 [23].
Nel giudizio penale, invece, rileva l’art. 234 c.p.p.: in proposito la Suprema Corte ha avuto modo di chiarire come la mera trascrizione degli scambi su Whatsapp non presenti valore probatorio non potendo, a meno che non si produca il supporto che contiene il dato digitale allo scopo di verificarne paternità, attendibilità e datazione, esser ritenuta affidabile [24]. Ciò, dunque, diversamente dalle registrazioni foniche che, ai sensi del codice del rito penale, formano prova documentale.
La prova digitale deve pertanto essere acquisita con modalità che ne assicurino l’integrità, l’inalterabilità, la paternità e la data certa.
La prova per testi potrà avvalorare la posizione della parte che si è avvalsa del documento digitale, il quale – unitamente ad ogni altro accorgimento tecnico – potrà eventualmente bilanciare il deficit di attendibilità che fisiologicamente il dato informatico, fenomenico e mutevole, presenta.
8. La tutela
È perseguibile attraverso querela dalla parte offesa, entro tre mesi dalla conoscenza del fatto.
Con riguardo alla giurisdizione, il reato si considera commesso in Italia se l’evento si è verificato nel territorio dello Stato (principio di territorialità).
Si applica la legge italiana anche nell’eventualità in cui l’evento si sia realizzato almeno in parte nel territorio nazionale o il reato non sia stato compiuto interamente all’estero. Quindi, anche se il server adoperato per l’iniziale pubblicazione del contenuto diffamatorio (o sua memorizzazione dei dati) dovesse trovarsi in un altro stato dell’Unione Europea, si applicherà la legge italiana qualora l’evento pregiudizievole, pubblicazione e percezione dei terzi, si sia prodotto anche in Italia (principio di ubiquità).
La Suprema Corte ha precisato come la competenza si determini con riferimento al luogo ove l’internauta “immette materialmente” il dato [25]. Tale criterio prevale su quello di cui all’art. 9, comma 2 c.p.p..
Si applicano le cause di giustificazione contemplate dall’art. 51 c.p. e specificate dalla giurisprudenza: provocazione, diritto di critica e satira, nonché il diritto di cronaca.
Sul versante civilistico, il diffamato può chiedere il ristoro del danno patrimoniale – ex art. 2043 c.c. – e di quello non patrimoniale – ex art. 2059 c.c. – dinanzi al giudice del luogo della propria residenza/domicilio ovvero della sede per le persone giuridiche [26], previa mediazione obbligatoria in virtù del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28.
Legittimato passivo, oltre all’autore materiale dell’illecito, può essere il Provider, ossia il gestore/fornitore/proprietario della piattaforma online luogo dell’illecito.
Esistono alcuni criteri orientativi per determinare in maniera equitativa il risarcimento dei danni:
notorietà del diffamante e ruolo istituzionale o professionale del diffamato;
natura, intensità e reiterazione della condotta diffamatoria e le sue conseguenze sulla vita quotidiana ed attività professionale del diffamato;
il mezzo con cui è stata diffusa l’offesa e la sua collocazione;
la diffusione e la risonanza mediatica suscitata dalla notizia diffamatoria;
eventuali reputazioni già compromesse o limitata riconoscibilità della persona offesa;
eventuali rettifiche o dichiarazioni correttive da parte del soggetto diffamato.
Ulteriore percorso praticabile è quello del processo cautelare, considerata la natura dei diritti interessati e misurandone l’idoneità ad essere ineluttabilmente lesi durante la pendenza del procedimento.
In alcuni casi, a tutela della sfera soggettiva del soggetto leso tramite internet, non vi è alternativa che proporre ricorso per provvedimento d’urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p.c. così da richiedere la rimozione del contenuto diffamatorio oppure l’inibitoria di ogni futura riproposizione o memorizzazione (diritto all’oblio) e di eventuali attività di indicizzazione; può essere richiesta anche la disabilitazione all’accesso a quanto ritenuto diffamatorio e, contestualmente, l’adozione di provvedimenti ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c. [27].
Nei casi particolarmente urgenti [28] di dati diffamatori che circolano in rete con enorme visibilità anche a causa delle funzioni di “autocomplete” e delle “ricerche correlate” tipiche dei motori di ricerca, il dato viene inevitabilmente associato alla persona fisica o giuridica in questione. Configurandosi sia il fumus boni iuris che il periculum in mora, si applicheranno i descritti provvedimenti cautelari azionabili ai sensi dell’art. 669 bis e ss. del codice di rito [29].
9. Conclusioni
Il diritto di esprimersi liberamente non deve mai consentire l’offesa altrui.
Sarebbe opportuno prendere in considerazione i consistenti investimenti posti in essere dalle principali società nell’ambito della prevenzione dei rischi di lesione della propria web identity, nonché di spesa nel campo degli strumenti di tutela stragiudiziale e giudiziale, per avere contezza dell’attitudine criminogena della rete – in termini di diffamazione telematica – e dei risvolti concreti del fenomeno in analisi.
Se, in apparenza, il diritto pare faticosamente inseguire il rapido mondo virtuale, norme di natura sostanziale e processuale sembrano – sorrette da una coerente interpretazione giurisprudenziale – essere in grado di intervenire sulle devianze patologiche della rete.
Con l’obiettivo di adeguare sempre di più la legge al panorama digitale, risulta tuttavia elevato il rischio di attuare misure dannose e controproducenti – nell’ottica accentuata della lotta all’anonimato, all’hating ed alle fake news – idonee a sacrificare principi e diritti fondamentali per la società.
Internet non è e non può essere considerato una zona franca nella quale ogni affermazione resta priva di conseguenze; si impone, dunque, l’intervento sempre più deciso del legislatore per scoraggiare e punire l’utilizzo di questo incredibile strumento nei confronti di chi lo utilizza, scorrettamente, in maniera lesiva dell’altrui onore e reputazione.
[1] Originariamente il termine social network indicava un qualsiasi gruppo di individui connessi tra loro dai più diversi legami sociali: familiari, lavorativi sino a vincoli casuali. Il termine è stato utilizzato come base di studi interculturali in campo sociologico e antropologico. La diffusione del web ha accresciuto il significato del termine ed ha, quindi, creato profonde modificazioni semantiche in relazione ad un concetto, quello di rete sociale, che nasceva come una rete fisica ed era basato sulla regola, conosciuta come numero di Dunbar, secondo la quale le dimensioni di una rete sociale in grado di sostenere relazioni stabili sono limitate a circa 150 membri. Ciò in quanto la versione di internet delle reti sociali, ossia i social media, rappresenta attualmente una delle forme più evolute di comunicazione in rete, ed è anche una palese dimostrazione del superamento della teoria sociologica rappresentata dalla “regola dei 150”, considerando la rete delle relazioni sociali che ciascun individuo tesse ogni giorno, in maniera più o meno casuale, nei vari ambiti della propria vita, suscettibile di essere organizzata in una “mappa” consultabile, e potenzialmente capace di arricchirsi di nuovi contatti.
[2] La dottrina e la giurisprudenza hanno più volte rilevato l’applicabilità dell’art. 595 c.p. anche a fatti commessi tramite il mezzo di internet. La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone. (Cass. pen., Sez. I, 28 aprile 2015, n. 24431).
[3] Cass. Civ., Sez. lav., 27 aprile 2018, n. 10280.
[4] Dal punto di vista della struttura, i reati possono essere di pura condotta o di evento. I primi consistono nel compimento dell’azione o dell’omissione vietata, i secondi si configurano quando dalla condotta attiva od omissiva consegue un evento naturalistico ad essa collegabile attraverso un nesso di causalità.
[5] Cass. pen., Sez. V, 25 luglio 2006, n. 25875.
[6] Cass. pen., Sez. V, 04 luglio 2008, n. 34599.
[7] Cass. pen., Sez. V, 24 marzo 1995, n. 3247.
[8] Cass. civ., Sez. III civ., 20 ottobre 2009 n. 22190; id. 14 ottobre 2008 n. 25157.
[9] Cass. civ., Sez. III, 24 ottobre 2007, n. 23314.
[10] Cass. civ., Sez. III, 10 marzo 2009, n. 5753.
[11] Nei reati contro l’onore, il dolo ha natura generica e può assumere anche la forma del dolo eventuale, essendo di conseguenza sufficiente che l’agente faccia consapevolmente uso di espressioni idonee ad assumere portata offensiva. Tale idoneità comprende necessariamente l’attitudine a raggiungere la sensibilità del soggetto passivo la quale implica a sua volta la concreta possibilità che quest’ultimo si percepisca come destinatario delle espressioni offensive (Cass. pen., Sez. V, 23 febbraio 2011, n. 15060).
[12] Cass. pen., Sez. I, 28 aprile 2015 n. 24431.
[13] È necessario estendere la riflessione alle conseguenze che possono verificarsi a seguito di una recensione negativa fatta al solo scopo di danneggiare un soggetto, per di più, con l’utilizzo di credenziali false. D’altronde, applicazioni quali TripAdvisor non prevedono un severo e specifico controllo circa l’identità dei propri utenti, consentendo anche la creazione di account falsi. La Cassazione penale, con sentenza 26 febbraio 2014, n. 9391, si è espressa sull’argomento rilevando che questo fenomeno integra la fattispecie di cui all’art. 494 c.p. (“chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, è punito, se il fatto non costituisce un altro delitto contro la fede pubblica, con la reclusione fino ad un anno”). Nel caso di specie si trattava della creazione di un profilo falso di Facebook utilizzato al fine di molestare un altro utente. Di conseguenza se un utente, anche tramite l’utilizzo di un account falso, trasmette per mezzo di internet o dei social network messaggi offensivi tali da integrare la fattispecie di diffamazione aggravata, non solo commette i reati di cui agli artt.494 e 595 c.p., ma sarà chiamato a rispondere anche dei danni che la sua recensione ha prodotto in forza del generale principio di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c..
[14] Trib. Busto Arsizio, 19 febbraio 2018 n.62.
[15] Trib. Napoli, 15 dicembre 2017, n. 8761.
[16] Cass. civ., Sez. III, 26 giugno 2013, n. 16111.
[17] Cass. civ., Sez. III 05 aprile 2012, n. 5525.
[18] Cass. civ., Sez. I 24 giugno 2016, n. 13161.
[19] Cass. civ., Sez. III, 10 marzo2014, n. 5499.
[20] Cass. civ., Sez. VI, 17 settembre 2013, n. 21235; Cass. civ., Sez. III, 28 novembre 2008, 28411).
[21] Cass. pen., Sez. V, 23 febbraio 2011, n. 15060.
[22] Sul punto la Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con sentenza 16 febbraio 2004, n. 2912, ha escluso la qualità di documento se non raccolto con garanzie di rispondenza all’originale e di riferibilità ad un determinato periodo temporale.
[23] “Le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime”.
[24] Cass. sent. n. 49065 del 2017.
[25] Cass. Pen., sent. nn. 31677/2015 e 17325/2015.
[26] Cass. Civ., SS.UU., 13 ottobre 2009, n. 21661 / Corte Giustizia UE, 25 ottobre 2011, cause C-509/09 e C-161/10 eDAte Advertising GmbH.
[27] “Con il provvedimento di condanna il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza”. Una misura coercitiva indiretta nella prassi a più riprese accompagnatoria di provvedimenti ex art. 700 c.p.c. che ordinano la rimozione contestualmente all’inibitoria di nuove pubblicazioni.
[28] Alternativamente, sussistendo l’indicizzazione di affermazioni pregiudizievoli, è possibile ricorrere al Garante per la protezione dei dati personali.
[29] In un caso giunto dinanzi al Tribunale di Milano, il soggetto leso chiedeva un provvedimento d’urgenza che precettasse la cancellazione dei suggerimenti di ricerca diffamatori da Google; il giudicante, adito ex 669 bis c.p.c. e poi ex 669 terdecies c.p.c., accertata la condotta omissiva del motore di ricerca malgrado destinatario di apposita segnalazione del soggetto, ritenne il Provider responsabile e, dunque, ordinò la rimozione (pronuncia del 23 maggio 2013).
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