La disciplina penalistica del mobbing: brevi cenni sulla recente giurisprudenza
Sommario: 1. Il difficile connubio tra mobbing ed il reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p. – 2. Lesioni personali derivanti da mobbing – 3. Mobbing e atti persecutori
1. Il difficile connubio tra mobbing ed il reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p.
La tutela penale del tristemente noto fenomeno del mobbing è stato oggetto di numerose decisioni giurisprudenziali. Secondo la Cassazione[1] per mobbing si intende “ una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico (…) sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, condotta che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione e/o persecuzione psicologica da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psicofisico e del complesso della sua personalità.” Pertanto, ai fini della configurabilità della condotta lesiva rilevano “la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo sistematico e prolungato nel tempo, contro il dipendente, con intento vessatorio; l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; il nesso psicologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico ed il pregiudizio all’integrità psicofisica del lavoratore; la prova dell’elemento soggettivo, dunque, dell’intento persecutorio del datore di lavoro.”
Sul punto la Cassazione[2] chiamata a pronunciarsi su una vicenda in cui un dipendente era rimasto vittima di reiterate umiliazioni e comportamenti ostili e ridicolizzanti da parte del titolare dell’impresa, ha escluso la sussistenza dell’art. 572 c.p. nella vicenda sottoposta al suo esame ritenendo che il mobbing assuma rilevanza penale ex art. 572 c.p. solo nel caso in cui le condotte vessatorie si inseriscano in un rapporto lavorativo di tipo para-familiare, ossia in un contesto lavorativo di ridotte dimensioni “ in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia.” Valorizzando il piano della relazione verticale tra le parti occorre precisare che “ in tema di esercizio del potere di correzione e di disciplina in ambito lavorativo, configura il reato previsto dall’art. 571 c.p. la condotta del datore di lavoro che superi i limiti fisiologici dell’esercizio di tale potere (nella specie rimproveri abituali al dipendente con l’uso di epiteti ingiuriosi o con frasi minacciose), mentre integra il delitto di cui all’art. 572 c.p. la condotta del datore di lavoro che ponga in essere nei confronti del dipendente comportamenti del tutto avulsi dall’esercizio del potere di correzione e disciplina, funzionale ad assicurare l’efficacia e la qualità lavorativa, e tali da incidere sulla libertà personale del dipendente, determinando nello stesso una situazione di disagio psichico.”[3]
Successivamente, la Cassazione[4] ha ritenuto integrare gli estremi del delitto di cui all’art. 572 c.p. anche in assenza delle condizioni formali di sussistenza dell’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c. Un orientamento maggioritario[5] ha precisato che “ ai fini della sussumibilità della fattispecie incriminatrice dei maltrattamenti nei confronti dei lavoratori dipendenti, ex art. 572 c.p., l’esistenza di una situazione di para- familiarità – che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari – e di uno stato di soggezione e subalternità del lavoratore va verificata avendo riguardo non al numero dei dipendenti in azienda, né alla durata del rapporto di lavoro, o alla reazione della vittima, bensì, da un lato, alle dinamiche relazionali in seno all’azienda tra datore di lavoro e lavoratore; dall’altro, all’esistenza o meno di una condizione di soggezione e subalternità.” D’altro canto, sempre tale orientamento precisa che la mancata applicazione dell’art. 572 c.p. non esclude comunque che le condotte di mobbing possano integrare gli estremi di altre fattispecie penali a seconda dell’interesse tutelato e delle vessazioni poste in essere dai danni del dipendente. In tal senso[6]“ a dispetto della riaffermazione dell’astratta configurabilità del reato nelle condizioni date e a conferma della frequente affermazione d’inapplicabilità nelle fattispecie considerate, va, infatti, precisato che la figura di reato di cui all’art. 572 c.p. non costituisce la tutela penale del c.d. mobbing lavorativo, il quale, ove dante luogo a condotte autonomamente punibili (ingiurie, diffamazione, minacce, percosse, lesioni personali, violenza privata, sequestro di persona, etc), trova nelle corrispondenti figure di reato il relativo presidio.”
2. Lesioni personali derivanti da mobbing
Sulla tematica del mobbing lavorativo si è ulteriormente espresso il Tribunale di Busto Arsizio[7] in un caso concernente un “disturbo dell’adattamento cronico con reazione mista ansioso depressiva, per costrittività organizzativa” diagnosticato ad un dipendente che, a seguito di alcune segnalazioni fatte agli organi apicali di anomalie ed irregolarità riscontrate dallo stesso, lamentava di aver subito condotte mobbizzanti da parte dei vertici aziendali. Deve osservarsi che, secondo costante giurisprudenza[8] ai fini del riconoscimento di malattia professionale da demansionamento e da mobbing, è necessario accertare la sussistenza di una condotta sistematica e protratta nel tempo che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità fisica e/o della personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall’art. 2087 c.c. Tale illecito, che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto dalla predetta norma generale a carico del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro, indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. Come ribadito dalla giurisprudenza, la sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze dannose deve essere verificata considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro che può essere dimostrata dalla sua sistematicità e durata nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche norme di tutela del lavoratore subordinato.” Preso atto che nel caso di specie l’accertamento riguardava una patologia c.d. multifattoriale, vengono richiamati i principi formulati dalla Cassazione in ordine alla necessità di procedere “ad una puntuale verifica, da effettuarsi in concreto ed in relazione alle peculiarità delle vicende, del nesso eziologico” ed evidenziando come “ il giudice è tenuto a valutare tutte le evidenze dotate di valore scientifico, emerse in sede dibattimentale che si pongono in rapporto di antagonismo probatorio tra loro, in modo da giungere ad un grado di elevata credibilità razionale in ordine alla ricostruzione del nesso eziologico, non potendosi accontentare di un mero grado di probabilità statistica.” Alla luce di quanto poc’anzi affermato, la Cassazione ha ritenuto che dal quadro probatorio complessivo non era possibile riscontrare, secondo i criteri di probabilità logica e di credibilità razionale, la sussistenza di un nesso causale tra la malattia e la condotte mobbizzanti ascritte al datore di lavoro.
3. Mobbing e atti persecutori
La Cassazione[9] si è pronunciata sulla configurabilità del delitto di atti persecutori in caso di mobbing affermando che “nessuna obiezione sussiste, in astratto, alla riconduzione delle condotte di mobbing nell’alveo precettivo di cui all’art. 612 bis c.p. laddove quella mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro, elaborata dalla giurisprudenza civile come essenza del fenomeno, sia idonea a cagionare uno degli eventi delineati dalla norma incriminatrice.” Il percorso logico-argomentativo su cui si fonda tale decisione, dunque, muove dalla valorizzazione della natura di reato abituale e di danno del delitto di stalking “integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento, che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, sicché ciò che rileva è la identificabilità di questi quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione di uno degli eventi, alternativamente previsti dalla norma incriminatrice (…) che condividono il medesimo nucleo essenziale, rappresentato dallo stato di prostrazione psicologica della vittima delle condotte persecutorie (…) ed è siffatto nucleo essenziale a qualificare giuridicamente la condotta che può, invero, esplicarsi con modalità atipica, in qualsivoglia ambito della vita, purché sia idonea a ledere il bene interesse tutelato, e dunque la libertà morale della persona offesa, all’esito della necessaria verifica causale.”
Sul punto, si è espressa anche la Quinta Sezione della Cassazione[10] la quale ha ritenuto che “integra il delitto di atti persecutori la condotta di mobbing del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso il lavoratore dipendente e preordinati alla sua mortificazione ed isolamento nell’ambiente di lavoro – che ben possono essere rappresentati dall’abuso del potere disciplinare culminante in licenziamenti ritorsivi – tali da determinare un vulnus alla libera autodeterminazione della vittima (…) Deve comunque sottolinearsi che anche nel caso di stalking “occupazionale” per la sussistenza del delitto art. 612-bis c.p., è sufficiente il dolo generico, con la conseguenza che è richiesta la mera volontà di attuare reiterate condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, mentre non occorre che tali condotte siano dirette ad un fine specifico.”
[1] In tal senso si veda Cass. Sez. Lav. 3785/2009.
[2] Così Cass. Sez. VI, 6 giugno 2016, ud. 26 febbraio 2016, n. 23358, Presidente Paoloni, Relatore Carcano.
[3] Si veda in tal senso Cass. Pen. Sez. VI, n. 51591 del 28.09.2016.
[4] Così Cass. Sez. VI, 15 settembre 2015, n. 44589.
[5] In tal senso si veda Cass. Pen. Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 53416.
[6] Così Cass. Pen. Sez. VI, 29 settembre 2025, n. 45077.
[7] Si veda Tribunale Busto Arsizio, 23 Febbraio 2018, ud. 24 gennaio 2018, n. 68.
[8] In tal senso si veda Cass. Sez. Lav. 4774/2006.
[9] Così,Cass. Pen.,sent. n. 31273 del 2020.
[10] Così Cass. Pen., n. 12827 del 5 aprile 2022.
Sitografia
La Cassazione sulla configurabilità del delitto di stalking in caso di mobbing (C. 31273/20, nota di Ilaria Fina) | Sistema Penale | SP
Mobbing e diritto penale: un difficile connubio? – Giurisprudenza penale
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