La discrezionalità dell’azione amministrativa

La discrezionalità dell’azione amministrativa

Quando si parla di “attività amministrativa” non è superfluo interrogarsi sul significato concreto da attribuire alla locuzione.

L’attività amministrativa, a prima battuta, consiste nella cura concreta dell’interesse pubblico.

Se, quindi, abbozzare una definizione di attività amministrativa non costituisce un vero e proprio problema, il dubbio da porsi è costituito dalle modalità impiegate per realizzare quello scopo e dall’effettività della tutela che si può riconoscere al privato.

Ebbene, l’amministrazione, per la cura concreta dell’interesse pubblico, emana atti e assume dati comportamenti, essendo a ciò autorizzata da una norma di legge.

Il fulcro dell’azione amministrativa è, quindi, costituito dalla presenza di una norma che attribuisce un potere pubblico.

Nel prevedere la disposizione normativa, peraltro, il legislatore non si limita ad attribuire il potere pubblico all’amministrazione, ma ne confina il suo esercizio all’interno di stringenti limiti.

A riguardo, si deve distinguere fra il limite negativo e quello positivo.

E’ bene chiarire che i limiti in parola non sono nominati dalla norma, ma desunti dal suo contenuto e dallo scopo pubblico che con quella prescrizione l’amministrazione deve perseguire.

Questa affermazione è vera, tuttavia, in parte.  Approfondiamo.

Attraverso il limite negativo il legislatore fissa il requisiti di validità , la cui assenza è causa di illegittimità.

Essi sono: il soggetto; il contenuto (art. 1346 c.c.); l’oggetto (artt. 7 e 8 L. 241/90); la forma (art. 2 L. 241/90).

Il limite negativo, quindi, solo in parte deriva dalla norma che attribuisce il potere di perseguire quel dato scopo pubblico, in quanto altre disposizioni di legge disciplinano il contenuto necessario che l’atto amministrativo deve avere a pena di nullità (art. 21septies L. 241/90).

Ancora, un atto amministrativo, completo sotto il profilo degli elementi essenziali, non è detto che non si ponga, comunque, in contrasto con una prescrizione di legge, divenendo, in questo caso, annullabile (art. 21octies L. 241/90).

Di conseguenza, il limite negativo non è accentrato nella sola norma attributiva del potere.

Il limite positivo, viceversa, è contenuto interamente nella norma che attribuisce il potere pubblico di perseguire un dato risultato.

Esso consiste, infatti, nella funzionalizzazione dell’azione dell’amministrazione al perseguimento di quel dato interesse pubblico, per la cui soddisfazione il legislatore ha attribuito uno specifico potere.

In altri termini, il limite positivo configura il vincolo di scopo dell’attività amministrativa: la P.A., a differenza di qualunque soggetto privato, non è libera nel suo agire, ma deve, obbligatoriamente, conformare la sua azione al perseguimento dell’interesse pubblico.

Il limite positivo, quindi, è costituito dal dettato normativo dal quale la P.A. trae il potere pubblico da esercitare.

Dall’intima connessione fra limite positivo e norma di legge deriva che tanto più scarno è il dettato normativo tanto più elastica è la modalità di agire che la P.A. può scegliere nel perseguimento dello scopo pubblico.

Di qui la natura elastica del limite positivo e la canonica contrapposizione fra attività vincolata e discrezionale.

L’attività amministrativa si definisce discrezionale quando la soddisfazione dell’interesse pubblico individuato dalla norma di legge impone alla P.A. una valutazione di merito circa le modalità più efficaci per soddisfare l’interesse predetto.

La valutazione di merito predetta fonda su una comparazione fra interesse pubblico da perseguire e gli interessi privati che, eventualmente, si frappongo alla realizzazione del primo.

La ratio, quindi, dell’agire discrezionale è da individuarsi nel principio di buona amministrazione: è “buono” l’agire dell’amministrazione se, nel soddisfare l’interesse pubblico, riesce a perseguire il risultato con il minor sacrificio possibile degli interessi privati.

La valutazione sottesa all’agire discrezionale, dunque, manifesta una scelta di merito dell’amministrazione, coperta da una riserva amministrativa, su cui il giudice non ha potere di sindacato pieno.

Dalla discrezionalità amministrativa pura si distingue quella cd. tecnica.

La discrezionalità tecnica è lo spazio di valutazione, tra il provvedimento da adottare e la fattispecie incerta da disciplinare, in cui alla P.A. è rimesso il compito di, individuata la regola, scegliere la risultanza scientifica che maggiormente ritiene appropriata al caso in esame.

Si tratta di una discrezionalità in cui è rimesso all’amministrazione il compito di accertare la presenza di taluni presupposti della fattispecie, in assenza, tuttavia, di una regola scientifica che le consenta di addivenire, in un numero illimitato di volte, al medesimo risultato.

Sicché lo spazio di discrezionalità, in questo caso, consiste esclusivamente nell’individuare la risultanza scientifica che maggiormente si ritiene appropriata all’individuazione dei presupposti legislativi ai fini dell’applicazione del provvedimento previsto, a monte, dal legislatore.

L’incertezza della regola scientifica qualifica l’attività amministrativa come attività discrezionale tecnica.

Da essa occorre distinguere l’accertamento scientifico.

Trattasi di una attività volta all’accertamento di taluni requisiti scientifici di una determinata fattispecie.

L’elemento che distingue l’accertamento dalla discrezionalità tecnica è la regolarità scientifica del risultato: se la regola scientifica è certa, l’attività è di accertamento; se la regola scientifica è incerta, l’attività è di discrezionalità tecnica.

La locuzione “discrezionalità tecnica”, tuttavia, secondo alcune voci in dottrina è impropria, in quanto solo la discrezionalità amministrativa propriamente detta impone all’amministrazione di porre in essere una valutazione dell’interesse pubblico.

La discrezionalità tecnica, di contro, si risolve in una valutazione delle risultanze scientifiche, derivanti dall’applicazione al caso di specie di una data regola tecnica.

L’accostamento delle due forme di “discrezionalità”, secondo costoro, è conseguenza della presenza, in entrambe, di una valutazione.

Dall’ipotesi di attività discrezionale si deve distinguere quella di attività vincolata, caratterizzata da una completa e puntuale disciplina normativa, che rimette all’amministrazione il mero compito di individuare i presupposti applicativi del provvedimento.

L’attività vincolata è quindi quell’attività volta all’esame della fattispecie da disciplinare allo scopo di verificare il possesso dei presupposti applicativi previsti dalla norma.

La diversa tipologia di azione amministrativa, discrezionale, tecnica o vincolata, si riflette sul processo amministrativo, partitamente in termini di intensità di sindacato giudiziale.

Per comprendere, infatti, i limiti al sindacato giurisdizionale che derivano dall’esercizio del potere discrezionale, concernendo questo una riserva amministrativa, occorre distinguere le regole di legittimità da quelle di merito.

Le prime sono prescrizioni legali volte a determinare gli elementi necessari del provvedimento amministrativo.

La loro violazione, infatti, determina l’illegittimità del provvedimento per difformità dal modello legale.

Le regole di legittimità sono proprie di ogni fase dell’azione amministrativa, sia che essa si esplichi in attività vincolata sia in attività discrezionale.

Viceversa, le regole di merito sono quelle regole di opportunità, proprie dell’attività discrezionale, volte all’individuazione del comportamento – provvedimento più idoneo da applicare.

Sulla dicotomia regole di legittimità e regole di merito si inscrive il tema della diversa intensità del sindacato del giudice a seguito di impugnativa del provvedimento.

Il tema del sindacato del giudice è stato inciso dall’evoluzione storico – giurisprudenziale che ha investito il processo amministrativo.

Prima dell’anno 1999, il processo amministrativo era da più ritenuto un processo sull’atto.

Il giudice era legittimato a valutare la presenza dei vizi di legittimità e, eventualmente ravvisati, doveva caducare il provvedimento.

A seguito della pronuncia di annullamento del provvedimento viziato, l’amministrazione, conservando il potere, aveva diritto di reiterare la sua determinazione.

Il privato, ulteriormente leso, avrebbe potuto procedere con l’instaurazione di un nuovo giudizio, sempre e solo, volto alla caducazione del provvedimento.

Anche in questa seconda ipotesi, il giudice avrebbe dovuto valutare la conformità del provvedimento al suo modello legale.

In questo contesto processuale, il sindacato del giudice, sia in caso di attività vincolata, sia in caso di attività discrezionale, è sempre uguale: individuazione del modello legale di riferimento, raffronto del provvedimento, eventuale annullamento per vizi di legittimità.

Successivamente all’introduzione del codice del processo amministrativo nell’anno 2010, ed in seguito alle pronunce dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 2011, il processo sull’atto è stato sostituito da un più pregnante giudizio sul rapporto.

Il giudice, in conformità con gli altri paesi europei ed in omaggio all’art. 24 cost., deve sindacare il rapporto, valutando la spettanza del bene della vita atteso dal privato.

Vigente una siffatta concezione di processo, la differente tipologia di attività amministrativa espletata ha un peso notevole circa l’intensità del sindacato del giudice.

La regola generale è che, in base al combinato disposto degli artt. 34, co. 1, lett. c); co. 2, c.p.a. e 31, co. 3, c.p.a., il giudice non può pronunciare su poteri ancora non esercitati né sindacare le scelte poste in essere dalla P.A. nell’esercizio dell’attività di merito.

Sicché, in caso di attività amministrativa vincolata, il giudice deve vagliare la fondatezza dell’istanza del privato e, ove spettante, concedere il bene della vita atteso.

In caso di attività amministrativa discrezionale pura, viceversa, il sindacato del giudice incontra i limiti normativi citati.

Al giudice è rimesso esclusivamente il vaglio del rispetto delle regole di legittimità.

Il sindacato del giudice in materia di discrezionalità pura è stato di interesse dottrinario – giurisprudenziale.

Taluno ha sostenuto che negare tout court qualsivoglia giudizio sul rapporto equivarrebbe ad affermare la persistenza di un giudizio sull’atto in presenza di attività discrezionale.

Così opinando, si ammetterebbe la coesistenza di un giudizio sull’atto e di un giudizio sul rapporto.

In ipotesi di attività amministrativa discrezionale, al privato spetterebbe il solo vaglio di legittimità con conseguente pericolo di reiterazione del provvedimento lesivo ab infinitum.

Viceversa, in caso di attività amministrativa vincolata, al privato spetterebbe un vaglio di merito che consente una piena soddisfazione della pretesa.

Una impostazione siffatta si espone ad evidenti frizioni costituzionali in specie con l’art. 3 cost.

Sarebbe, infatti, contrario al principio di uguaglianza sostanziale trattare situazioni uguali in modo differente.

Alla luce del paventato contrasto costituzionale, tal altro ha osservato che il giudice deve tendere sempre al rapporto ancorché trattasi di attività discrezionale.

Si è osservato che l’attività vincolata di cui trattano gli articoli 34, co 1, lett. c) e 31, co. 3, c.p.a., non è un’attività esclusivamente originaria ma può anche essere derivata.

È infatti possibile che il potere amministrativo si esaurisca per effetto di vincoli conformativi di natura giudiziale, procedimentale o negoziale.

Sicché l’attività discrezionale, per effetto dell’esaurimento del potere, si trasforma in attività vincolata autorizzando il giudice al vaglio del merito.

Sulle modalità di consumazione del potere, due sono le impostazioni più significative.

Una prima impostazione è quella di quanti sostengono che la consumazione del potere è l’effetto automatico dell’illecita reiterazione provvedimentale.

Sicché la PA consumerebbe il potere ogni qual volta, a seguito di una pronuncia di annullamento, il provvedimento reiterato è affetto da altrettanti vizi di legittimità.

Una seconda impostazione è, invece, quella di quanti sostengono che la consumazione del potere è l’effetto di un controllo giudiziario progressivamente più intenso.

In particolare, la consumazione del potere è il risultato di vincoli giudiziari sempre più stringenti posti all’esercizio dell’attività amministrativa viziata.

Sicché l’esaurimento del potere è frutto di un controllo giudiziario sempre più pregnante teso all’attribuzione, una volta esaurito, del bene della vita atteso dal privato.

Una variante di questa impostazione è la cd. tesi del giudicato a formazione progressiva.

Muovendo da una completa parificazione tra violazione ed elusione del giudicato, si sostiene che il giudice, naturalmente competente a pronunciarsi sul riesercizio viziato del potere, sia il giudice dell’ottemperanza.

La giurisprudenza ha optato per l’adesione alla tesi che opina nel senso di un esaurimento automatico del potere.

Si può, quindi, affermare che il sindacato del giudice, in ipotesi di attività discrezionale pura, sia bifronte: un primo sindacato volto all’accertamento del rispetto della regola di legittimità; un secondo sindacato, eventuale, volto al merito amministrativo.

Diversamente da quella pura, in cui la questione del sindacato del giudice è inscindibilmente connessa con la nozione di interesse legittimo e, conseguentemente, con la forma del processo, il sindacato del giudice in ipotesi di discrezionalità tecnica è stato oggetto di plurime opinioni.

Secondo una prima impostazione, il giudice potrebbe valutare esclusivamente il rispetto delle regole di legittimità, trattandosi di attività discrezionale, ancorché scientifica, cd. sindacato esterno.

Sotteso è l’assunto per cui non vi sarebbe una vera differenza tra attività discrezionale pura e tecnica.

Una diversa impostazione, viceversa, ritiene che il giudice deve spingersi fino a valutare la logicità della scelta scientifica posta in essere dall’amministrazione, cd. sindacato intrinseco.

Tra i fautori di questa impostazione, vi è chi opta per un sindacato intrinseco forte, sostenendo la facoltà del giudice, ravvisata l’illogicità della scelta, di sostituirsi alla P.A. nella individuazione del risultato scientifico più appropriato per la fattispecie.

Viceversa, altri ritengono che il giudice non possa mai, stante il chiaro dettato codicistico di cui all’art. 34, co. 2, c.p.a., sostituirsi all’amministrazione, bensì si deve limitare a vagliare la logicità della scelta amministrativa e nel caso demandare alla PA il riesercizio del potere.

Una impostazione mediana, muovendo dal dettato codicistico, sostiene che l’attività del giudice è volta al vaglio di conformità del potere esercitato con il parametro legale, mentre l’attività della P.A. è volta al vaglio circa l’opportunità del modo di esercizio del suddetto potere.

La questione del sindacato del giudice sull’attività amministrava discrezionale tecnica ha interessato anche la giurisprudenza europea.

Con una prima impostazione, la giurisprudenza ha sostenuto che, stante l’assenza in campo europeo della dicotomia diritto soggettivo – interesse legittimo, il giudice deve sempre sindacare il merito della questione onde concedere il bene atteso dal privato.

Questa impostazione è stata, per qualche tempo, sostituita da un orientamento più attento all’autonomia processuale dei paesi membri.

Si è infatti sostenuto che il principio di separazione dei poteri postula l’impossibilità del potere giudiziario di interferire, sostituendosi, a quello amministrativo.

Quest’orientamento, tuttavia, è stato criticato da coloro che ne sostengono la contrarietà allo spirito di uniformazione sotteso all’UE.

Sarebbe infatti contrario agli obiettivi dell’Unione non garantire la medesima pienezza di tutela del cittadino europeo in tutti gli ordinamenti membri.

Alla luce di tali osservazioni, sembrerebbe prendere piede un orientamento più progressista che ritiene la possibilità del giudice di sostituirsi alla PA ove quest’ultima ponga in essere scelte illogiche e, quindi, lesive dell’interesse del privato.

Sotteso a quest’orientamento vi è una rilettura dell’art. 6 della Cedu.

L’articolo in esame prevede il diritto ad un processo equo che “decide” sui diritti e obblighi di natura civile.

L’articolo citato, nella parte in cui fa riferimento al giudice che decide su diritti e obblighi, postulerebbe la necessarietà di un sindacato intrinseco forte che consenta al giudicante di valutare il merito della pretesa.

L’applicabilità della disposizione al diritto amministrativo, nonostante che sembrerebbe essere riferita alla sola materia civile, nella parte di interesse, è stata professata sulla scorta dell’assunto per il quale il diritto europeo non conosce la distinzione tra diritto soggettivo ed interesse legittimo.

Sicché l’inciso diritti e obblighi di natura civile va letto come se lo stesso prevedesse anche interessi di natura amministrativa.

Riassumendo:

  1. quando l’attività della pubblica amministrazione è di natura vincolata, il giudice amministrativo può vagliare la legittimità dell’atto nonché la spettanza del bene della vita atteso dal privato.
    In altri termini, il soggetto che ricorre all’autorità giudiziaria per contestare un atto amministrativo, ritenuto legittimo, non solo può ottenere l’annullamento dell’atto impugnato ma anche il bene della vita che con l’istanza intendeva ottenere dalla P.a.;

  2. quando l’attività della pubblica amministrazione è di natura discrezionale, concernendo essa una scelta di merito, il giudice amministrativo può vagliare soltanto se la P.A., nell’adottare quell’atto, abbia peccato di eccesso di potere, travisando i fatti, non motivando le proprie scelte, o sviando il potere attribuito per un fine diverso da quello che avrebbe dovuto perseguire.
    In altri termini, il soggetto che ricorre all’autorità giudiziaria, in questa ipotesi, può contestare la motivazione dell’atto (illogica, abnorme, eccessivamente succinta, contraddittoria) ovvero la concreta modalità di esercizio del potere, eventualmente difforme dallo scopo pubblico;

  3. quando, infine, l’attività della P.a. è di natura discrezionale ma tecnica, la giurisprudenza maggioritaria italiana ritiene che il giudice non si può sostituire all’amministrazione, reiterando la valutazione amministrativa, bensì può soltanto vagliare la logicità delle risultanze; per l’ordinamento sovranazionale, il giudice, invece, dovrebbe valutare il merito, sostituendosi alla PA nella scelta del significato scientifico da attribuire alla regola applicata al caso di specie.
    In altri termini, il soggetto che ricorre all’autorità giudiziaria può aspirare di ottenere un esame circa la logicità delle risultanze amministrative, scaturenti dall’applicazione della regola tecnica e, in talune ipotesi, l’applicazione di quella regola da parte di una commissione differente.


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Nato a Reggio Calabria nel 1989, ha conseguito la laurea in giurisprudenza nel maggio 2012, presso l'Università degli Studi di Reggio Calabria, discutendo una tesi in diritto civile dal titolo la "Destinazione patrimoniale nell'interesse della famiglia", relatore Prof. Sebastiano Ciccarello. Nell'ottobre 2014 ha conseguito il diploma presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università degli Studi di Reggio Calabria discutendo una tesi in diritto penale dal titolo la "Natura giuridica delle linee guida e grado della colpa nella giurisprudenza successiva al decreto Balduzzi", relatore Prof. Avv. Patrizia Morello. Ha svolto la pratica forense presso lo studio legale dell'Avv. Mario De Tommasi, foro di Reggio Calabria, presso cui ha approfondito lo studio del diritto amministrativo. Ha conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione di avvocato nell'ottobre 2015; da allora svolge la professione forense, interessandosi di questioni giuridiche afferenti il ramo del diritto civile e del diritto amministrativo.

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