La dissenting opinion nel sistema di giustizia costituzionale italiana – Profili generali (7/8)
1. Introduzione
L’analisi dell’istituto dell’opinione dissenziente nel processo costituzionale italiano non si rivela come un’operazione particolarmente lineare, poiché si tratta di approfondire un fenomeno giuridico non ancora formalmente riconosciuto nel nostro sistema di giustizia costituzionale.
Si tratta dunque di addentrarsi in un ambiente in cui, essendo sprovvisti di specifiche norme di riferimento, occorre inevitabilmente ricorrere all’ausilio delle esperienze straniere nonché – e soprattutto – ai contributi scientifici. Del resto, su questo tema pare soffermarsi con crescente attenzione la dottrina.
Possiamo difatti riscontrare come la dissenting opinion, a differenza di quanto abbiamo già osservato riguardo i non pochi ordinamenti costituzionali stranieri che la contemplano, sia un istituto giuridico non espressamente previsto nella giurisdizione costituzionale italiana.
Pur tuttavia, forme tipizzate di dissenting sono presenti tanto nella giurisdizione ordinaria quanto – sorprendentemente – nell’ambito della stessa attività della Corte costituzionale, limitatamente però all’esercizio di funzioni non giurisdizionali (1).
Nondimeno, se ancora oggi l’opinione dissenziente non è stata oggetto di formale riconoscimento nel nostro sistema di giustizia costituzionale, essendo tale possibilità di esprimere un voto dissenziente rigorosamente circoscritta nell’ermetismo della camera di consiglio e dunque priva di refluenze esterne, è anche vero che non poche disposizioni giuridiche – ordinarie e costituzionali – sembrano, se non prevederla visibilmente, quanto meno non vietarla, e, piuttosto, addirittura contemplarla tra le righe in virtù di una loro più attenta lettura, senza ricorso alcuno a forzature interpretative.
Peraltro, quel che positivamente sorprende è che queste norme giuridiche tendenzialmente proclivi alla recezione del dissent, non sempre sono norme di primigenia fattura, ma sovente si tratta di disposizioni riviste e novellate dal legislatore (o comunque dall’organo competente), sicché parrebbe che sia proprio il “diretto interessato” (il Parlamento o la Consulta, appunto) a sollecitare – sia pure gradatamente ed indirettamente – l’introduzione del voto dissenziente nel nostro ordinamento giusprocessualistico.
Sembrerebbe dunque, per usare una metafora, che ogni qual volta le fonti normative subiscono emendamenti non incompatibili con la previsione del voto di scissura, si aggiunge una tessera a questo discusso quanto affascinante mosaico della dissenting opinion, fin quando, tessera dopo tessera, l’immagine diverrà così ben delineata da rendere pressoché inevitabile l’introduzione dell’istituto de quo nel sistema.
Ad ogni buon conto, non si stima eccessivo ascrivere le ragioni di cotanti indugi anche alla stasi di una parte non irrilevante della dottrina. Non deve sottacersi, difatti, che per parecchi decenni non pochi costituzionalisti si dimostrarono poco sensibili al fenomeno, cercando taluni di minimizzarlo o talaltri di ignorarlo del tutto (2), sicché in tale carenza di interesse potrebbero parzialmente riscontrarsi le ragioni dell’accantonamento dell’introduzione dell’istituto in parola (3). In altri termini, il comportamento omissivo di un’autorevole categoria socio-culturale quale quella dei giuristi, potrebbe aver indotto il legislatore ad orientare la sua attenzione verso la soluzione di più rilevanti problematiche.
Solamente in tempi recenti, auspice anche l’indizione di un Seminario di studio patrocinato dalla Corte costituzionale nel 1993 (4), sembrano essersi ridestati gli interessi dei giuristi verso l’istituto summenzionato, così da sopperire, negli anni successivi, forieri di doviziosi contributi scientifici, alle loro pregresse omissioni.
Pervenendo dunque ad affrontare le tematiche inerenti i rapporti fra la dissenting opinion ed il nostro sistema di giustizia costituzionale, struttureremo la presente disquisizione secondo criteri rivolti dapprima ad individuare gli strumenti giuridici che meglio si prestano all’introduzione dell’istituto in parola, proseguendo poi con la disamina degli effetti che siddetta immissione cagionerebbe alle decisioni della Corte costituzionale, ed infine non mancheremo di soffermarci adeguatamente sulle non poche conseguenze che l’opinione dissenziente arrecherebbe all’organizzazione ed al funzionamento della Consulta.
2. Gli strumenti giuridici che consentono l’eventuale introduzione del dissent nel processo costituzionale
L’individuazione dei corretti strumenti giuridici che consentirebbero l’introduzione dell’opinione dissenziente nel nostro sistema di giustizia costituzionale, rappresenta indubbiamente una tappa fondamentale del nostro itinerario di ricerca, la cui collocazione in sede iniziale si giustifica attraverso la considerazione che non avrebbe alcun senso discettare intorno agli aspetti positivi o negativi del dissent se poi esistono ostacoli normativi alla sua previsione nell’ordinamento, ovvero qualora, pur in assenza di siddetti impedimenti, non si riesca a trovare la tecnica di diritto che meglio si presta alla sua introduzione.
Nondimeno, scegliere lo strumento giuridico a tal uopo necessario non significa altro che individuare quella fonte del diritto (legge, regolamento etc…) che risulti essere la più idonea nel consentire siffatta previsione.
A tale proposito, è noto come il nostro ordinamento giuridico non sia affatto parco nella previsione di diverse fonti normative (5) oltre a quelle generiche ufficializzate nelle c.d. preleggi (art. 1 delle Disposizioni sulla legge in generale) ve ne sono altre che in esse si ricomprendono, costituendone una loro estensione o specificazione, un’ulteriore aspetto del medesimo fenomeno (si pensi alla distinzione fra legge costituzionale e legge ordinaria, tra quest’ultima e i decreti governativi, o tra i regolamenti dell’esecutivo e quelli parlamentari).
Orbene, prima di addentrarci nei meandri del sistema delle fonti, e dunque di individuare quella che meglio dispone all’adozione della dissenting opinion, si ritiene opportuno formulare degli esempi pratici, ossia richiamare quelle proposte concrete che nel corso degli anni sono state elaborate ai fini della previsione dell’istituto in parola nel nostro sistema di giustizia costituzionale.
Procedendo in ordine cronologico, il primo tentativo di introdurre il dissent venne effettuato in sede di approvazione della legge n. 87/1953, recante norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale (6), ma tale proposta venne immediatamente rigettata.
Successivamente, Costantino Mortati già membro della Consulta nonché autorevole costituzionalista, formulò negli anni Sessanta una lungimirante proposta, volta all’introduzione dell’istituto de quo mediante riforma delle Norme Integrative generali sui giudizi innanzi alla Corte, a loro volta adottate con proprio regolamento nel 1956.
In ispecie, l’intentio del giudice Mortati era quella di suggerire alla Corte l’adozione di un atto di autoregolamentazione proteso alla modificazione dell’art. 18 N. I., al fine di stabilire cioè che, fermo restando l’obbligo di sottoscrizione della decisione da parte di tutti i giusdicenti, “il giudice che ha steso la motivazione aggiunge la qualifica di estensore alla sua sottoscrizione” (7); inoltre, si richiedeva l’introduzione di un articolo 18-bis (ove si prescrive la “facoltà al giudice o ai giudici, che dissentono dalla maggioranza in ordine a tutto o a parte del dispositivo della sentenza o dell’ordinanza della Corte, di far risultare in calce alla medesima la formulazione motivata dell’opinione o delle opinioni dissenzienti”) (8).
Alla via regolamentare testé descritta, non essendo stata oggetto di concreta attuazione, si sostituì, nel 1973, la più complessa soluzione del ricorso alla legge costituzionale quale strumento più idoneo all’introduzione del dissent, giusta proposta di Francesco De Martino ed altri parlamentari, sebbene anch’essa rimase del tutto inattuata.
Una soluzione per così dire intermedia venne a delinearsi nel 1981, quando il giurista Stefano Rodotà ebbe a presentare alla Camera dei Deputati una proposta di legge ordinaria che consentisse l’introduzione dell’opinione dissenziente, il cui iter tuttavia si arrestò definitivamente nella fase della discussione.
Seguirono infine le proposte formulate nelle due Commissioni bicamerali per le riforme istituzionali degli anni Ottanta e Novanta; nella prima (c.d. Commissione Bozzi) la proposta non riuscì ancora una volta a tradursi in concreto, mentre nella seconda (dedicata specificatamente alle riforme costituzionali) il dissent venne espressamente inserito nel novellato art. 136 Cost, ma il tutto rimase lettera morta per il sostanziale fallimento della Commissione, che pertanto portò al suo consecutivo scioglimento (9).
Sulla base dei richiamati precedenti, dunque, si è in condizione di esaminare, con maggiore cognizione, i diversi sistemi normativi che risultano più idonei all’adozione del dissent, unitamente all’individuazione delle eventuali disposizioni che ne sconsigliano, per ciascuna fonte del diritto, la potenziale introduzione nell’ordinamento giuridico.
Per quel che concerne il settore delle fonti superprimarie (10), non sembrano riscontrarsi impedimenti di sorta alla previsione del voto separato, giacché né l’art. 137 Cost (che si limita a ripartire le competenze fra la legge costituzionale e la legge ordinaria per quanto concerne rispettivamente <<le condizioni, le forme, i termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale, e le garanzie d’indipendenza dei giudici della Corte>> e << le altre norme necessarie per la costituzione e il funzionamento della Corte>>), né l’art. 111 Cost. (che, per quanto di nostro interesse, sancisce al sesto comma l’obbligo della motivazione per tutti i provvedimenti giurisdizionali), depongono a detrimento dell’istituto in parola (11).
Ciò posto, non sembrano dunque profilarsi elementi ostativi all’introduzione della dissenting opinion per mezzo di una legge costituzionale, anche in considerazione del fatto che nessun argomento sfavorevole al dissent è dato da riscontrare nelle leggi costituzionali n. 1/1948 e n. 1/1953, emanate in attuazione del comma primo del citato art. 137 Cost.
Qualche perplessità, invero, si è riscontrata a proposito dell’art. 5 l. cost. n. 1/1953, ai sensi del quale <<i giudici della Corte costituzionale non sono sindacabili, né possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni>>. Orbene, dalla lettura di questa disposizione il costituzionalista Giorgio Lombardi, ebbe a riscontrare, in tempi non recenti, “un’indicazione a favore all’introduzione del dissent” (12).
L’interpretazione offerta dal Lombardi sembra tuttavia non trovare i consensi di una parte dell’attuale dottrina, la quale invece ritiene di non ravvisare alcuna connessione tra il principio dell’irresponsabilità di cui al cennato art. 5 e la tematica del dissenso giudiziale (13), e conviene nell’accordare comunque l’introduzione del dissent mediante il ricorso allo strumento della legge costituzionale (14).
Non mancano tuttavia soluzioni per così dire intermedie, le quali suggeriscono di ricorrere all’ausilio della legge costituzionale quanto meno per disciplinare ab initio l’istituto in parola. Una proposta in tal senso viene offerta da Antonio Ruggeri, il quale non si rappresenta come “possibile fare del tutto a meno del ricorso alle procedure previste nell’art. 138 della Costituzione. Di lì in avanti, però, una volta che, grazie allo strumento costituzionale si sarà data la migliore impostazione per la futura regolamentazione, quest’ultima potrà venire con le forme di volta in volta richieste; e, con essa, potrà aversi il completamento di quanto fissato nella fonte costitutiva dell’istituto. L’atto iniziale, perciò, farà la scelta concettualmente più significativa, corredandola delle prime, essenziali (e, di necessità, sommarie) enunciazioni normative: calibrerà … la <<misura>> dei voti particolari; ma sul capo costituzionale dovrà poi innestarsi il corpo sottostante, non meno indispensabile di quello e, forse, praticamente ancora più incisivo, avendo ad oggetto le condizioni, i tempi, le modalità tecniche di manifestazione del dissent” (15).
Al di là delle questioni appena prospettate, quel che comunque importa specificare è che non sono date di rinvenire, a livello costituzionale, disposizioni che collidono con la previsione del dissent nell’ordinamento, né che rimandano altrimenti ad una specifica fonte normativa che ne agevola l’introduzione.
Proseguendo nel sistema delle fonti, possiamo altresì constatare che, se da un lato la legislazione ordinaria si dimostra piuttosto restia nel prendere posizioni sul problema in questione, per altro verso sembra invece riscontrare nelle norme regolamentari elementi favorevoli alla previsione del dissent nell’ordinamento. In particolare, quel che si intende appurare è che, attraverso le fonti regolamentari, non soltanto si è in grado di operare una razionalizzazione della disciplina dell’istituto in parola, ma altresì si ritiene possano riscontrarsi in esse elementi che ne favoriscano la sua positiva previsione nel sistema, a differenza della legislazione ordinaria che invece sembra esser rimasta in una posizione di sostanziale indifferenza verso il fenomeno.
La disposizione regolamentare cui si fa concordemente riscontrare la presenza – sia pure velata, non esplicita – di un dissenso giudiziale, risulta essere l’art. 18 delle Norme Integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, varate dalla stessa Corte con Regolamento interno del 19 marzo 1956. Al riguardo, il citato testo normativo prevedeva, nella sua formulazione originaria, che le decisioni della Corte fossero sottoscritte da tutti i componenti il collegio, senza indicazione alcuna del giudice redattore.
Conseguenza di ciò era che, risultando notorio solamente il nome del relatore, si finiva con l’ingenerare nei terzi la convinzione che quegli fosse pur sempre l’estensore della pronuncia, anche “nell’ipotesi che egli, lungi dall’esserne autore, sia stato fieramente avverso all’opinione della maggioranza”, e dunque ignara vittima di “quel tormentoso senso di disagio e di imbarazzo che suole accompagnare ogni specie di paternità putativa, facendo sorgere in lui una forte tentazione di violare il segreto della camera di consiglio, e rendere nota la sua completa estraneità alla decisione adottata” (16).
Se dunque le parole di Mortati ci prospettano come, stando alla disposizione summenzionata, non siano infrequenti i fenomeni di “paternità putativa” testé ricordata (17), a tale increscioso inconveniente sembra avervi definitivamente posto rimedio la riforma apportata dalla stessa Consulta il 7 luglio 1987. In ispecie, rifacendosi in parte all’antica proposta di Mortati sull’emendamento dell’art. 18 e sull’introduzione di un art. 18-bis, l’autoriforma della Corte ha stabilito di riservare la sottoscrizione della decisione al solo Presidente ed al giudice da questi designato come redattore, e ben si evince che, se la firma dell’estensore presenta un cognome diverso da quello – già pubblico – del relatore, è chiaro che quest’ultimo si sia trovato in una posizione di minoranza all’interno della camera di consiglio.
Quanto detto significa dunque che l’opinione del relatore risulta essere divergente da quella espressa dalla maggioranza e consacrata nella decisione della Corte, della quale egli abbia pertanto legittimamente rifiutato la stesura. Per queste considerazioni, quindi, l’art. 18 N.I., come novellato dalla citata riforma del 1987, può essere indubbiamente ritenuto come uno dei più positivi riscontri normativi (a livello regolamentare) all’introduzione dell’opinione dissenziente nel nostro sistema di giustizia costituzionale.
Volendo dunque tirare le somme, l’analisi fin qui condotta ci ha permesso di rilevare come, nell’attuale sistema delle fonti del diritto, non si evidenziano disposizioni ostative alla previsione della dissenting opinion nell’ordinamento. Tutt’altro, non manca invece di riscontrarvi elementi tendenzialmente favorevoli alla sua introduzione. Rimane, a questo punto, di individuare lo strumento giuridico-normativo più idoneo, e dunque maggiormente compatibile, alla recezione del dissent nel processo costituzionale.
Della fonte superprimaria, e quindi della legge costituzionale, si è già detto; occorre ulteriormente precisare che un disincentivo all’ausilio di siffatto metodo potrebbe essere rappresentato dalla dilatazione dei tempi che inevitabilmente investono tale iter, in virtù della procedura aggravata sancita dall’art. 138 Cost.
Quanto alla legge ordinaria del Parlamento, le obiezioni di fondo (comunque superabili) sono state fondamentalmente individuate nella concorrenza – e relativa preferenza – del Regolamento della Corte costituzionale rispetto ad una fonte di pari grado quale la legge ordinaria (18), nell’eventuale sottoponibilità della medesima legge al sindacato di legittimità costituzionale della Consulta, ed ancora nei non irreali “pericoli di strumentalizzazione cui potrebbe più facilmente andare incontro il dibattito parlamentare avente ad oggetto una simile tematica” (19).
Di contro, anche alla luce del summenzionato precedente del ricorso ad un atto di autoregolamentazione della Corte (che, ricordiamo, ha modificato, in data 7 luglio 1987, l’art. 18 N.I.), potrebbe ritenersi che il ricorso alla normazione autonoma della Consulta parrebbe come lo strumento giuridico più indicato, se non altro per ragioni di celerità esecutiva e per il fatto di provenire dai diretti destinatari del provvedimento medesimo (20).
Una conferma in tal senso sembra cogliersi dalla lettura dell’art. 137 Cost, il cui secondo comma rimanda alla legge ordinaria per l’individuazione delle altre norme necessarie per la costituzione e il funzionamento della Corte. Ci si riferisce, in particolare, alla legge 11 marzo 1953, n. 87, il cui art. 22 demanda a sua volta alla potestà regolamentare della Corte il compito di definire la disciplina inerente il suo assetto organizzativo (avvenuto poi con l’adozione per via regolamentare delle Norme Integrative del 16 marzo 1956).
E’ comunque doveroso precisare che tale orientamento è parzialmente disatteso da coloro che considerano il dissent non come una semplice questione di natura procedurale, bensì come un elemento costitutivo della decisione, tale da inciderne profondamente la struttura, sicché il Regolamento della Corte risulterebbe lo strumento giuridico meno idoneo ad assolvere a siffatto compito (21).
Ad ogni modo, quand’anche si volesse accordare l’introduzione della dissenting opinion attraverso gli strumenti di autonormazione della Corte, allora, secondo l’opinione più diffusa in dottrina, i voti particolari non dovrebbero essere considerati elementi interni alla decisione, bensì esteriori, ad essa non facenti corpo, qualificandosi invece “come una sorta di <<allegati>> (…necessari, una volta che siano stati manifestati) della decisione in senso stretto, e pur tuttavia <<esterni>> rispetto a questa e, perciò, inidonei a costituire punto di imputazione di effetti giuridici, perlomeno di tutti gli effetti tipicamente ricondotti (e riconducibili) alla decisione” (22).
Un ultimo – sia pure da solo insufficiente – strumento che potrebbe condurre all’introduzione dell’opinione dissenziente nella nostra giustizia costituzionale, è da riscontrarsi nell’intervento della giurisprudenza, sull’esempio di talune recenti esperienze straniere ed in ispecie dell’ordinamento tedesco, ancor prima che il dissent fosse ivi formalizzato attraverso la legge ordinaria istitutiva del Tribunale costituzionale nel 1970 (v., supra, Parte seconda, capitolo II, paragrafo 2)23.
Nondimeno, tale soluzione non sembra raccogliere particolari consensi tra gli studiosi, giacché appare, per svariati motivi, (tra i quali emerge, soprattutto, l’appartenenza dell’Italia al sistema giuridico di civil law, tradizionalmente poco incline alla “rule of precedent” tipica degli ordinamenti di common law, sebbene le recenti esperienze abbiano “confermato l’esattezza della intuizione di Perelman che è in atto un processo di avvicinamento fra i due sistemi di civil law e common law”) (24), piuttosto labile, da utilizzare come extrema ratio, e comunque unitamente ad una “successiva (più dettagliata) regolamentazione mediante legge o altra fonte del diritto” (25).
3. Gli effetti dell’opinione dissenziente sulle decisioni della Corte costituzionale.
Si è avuto modo di appurare, nel precedente paragrafo, l’assenza di disposizioni giuridiche ostative all’eventuale introduzione dell’opinione dissenziente nel nostro sistema di giustizia costituzionale, e conseguentemente si è messo in evidenza come siddetto istituto possa essere generalmente contemplato in ciascuno degli strumenti normativi ivi esaminati.
Ci si soffermerà, adesso, sui potenziali effetti che l’istituto in parola provocherebbe in seguito ad una sua immissione nell’ordinamento, cercando, ancora una volta, di impostare una scansione argomentativa ai fini di una migliore linearità espositiva.
Possiamo dunque orientare la nostra indagine lungo tre direttrici: dapprima ci si imbatterà nella questione circa la coniugabilità dell’opinione dissenziente con il principio della collegialità, cui si informano le decisioni della Corte; si proseguirà poi con lo studio della motivazione delle medesime in relazione alla dissenting, ed infine si concluderà con la disamina delle diverse tipologie di pronunce della Corte cui si attaglia il voto dissenziente.
In ordine al canone della collegialità delle decisioni della Consulta, si ritiene opportuno richiamarsi fin da subito alle disposizioni normative da cui esso trae fondamento, al fine di una migliore impostazione della questione.
La norma in oggetto è, specificatamente, l’art. 16 della legge n. 87/1953, che dispone tra l’altro che <<le decisioni sono prese con la maggioranza assoluta dei votanti>>. Ad essa peraltro si ricollega, con effetto confermativo, la già riscontrata sentenza della Corte costituzionale n. 18/1989 (v., supra, Parte terza, Capitolo I, paragrafo 3), secondo cui la decisione del Tribunale costituzionale è <<non … somma di distinte volontà e convincimenti dei membri del collegio, ma loro sintesi – operata secondo la regola maggioritaria – la quale rende la decisione impersonale e imputabile al collegio nel suo insieme>>.
Ebbene, inevitabile considerazione è che, dalle fonti richiamate, il cennato principio della collegialità non diviene oggetto di espressa menzione (consacrandosi piuttosto la regola della maggioranza), sebbene sia egualmente desumibile dal testo.
Se poi però si dà lettura per intero dell’art. 16 testé citato, ci si avvede che, ancor prima di addivenire alla votazione, è prescritto che <<i membri della Corte hanno obbligo di intervenire alle udienze quando non siano legittimamente impediti … le decisioni sono deliberate in Camera di consiglio dai giudici presenti a tutte le udienze in cui si è svolto il giudizio>>. Possiamo dunque convenire con il Presidente Branca quando afferma che si ha collegialità “non perché i giudici costituzionali costituiscano un collegio e decidano a maggioranza, ma perché di fatto tutti collaborano, con proprio contributo decisivo, prima alla formazione del giudizio; poi alla redazione della sentenza” (26).
Inoltre, si può ancora osservare come la natura collegiale del giudizio costituzionale si estrinsechi in tutte le varie fasi dell’iter deliberandi (27), a differenza del modello nordamericano, laddove “la collegialità è invece ridotta alla fase iniziale dell’esame collegiale del caso, tutta l’ulteriore fase della stesura risolvendosi in un’articolato e spesso faticoso processo di negoziazione ai fini della stesura della decisione” (28).
Ulteriore aspetto di questo “principio organizzativo essenziale dell’attività della Corte, attuato dalla legge con molto rigore” (29), è, per usare le parole di Gustavo Zagrebelsky, quello cosiddetto “formale” o “burocratico” della collegialità, derivante dal fatto che “le decisioni si considerano adottate dalla Corte nel suo complesso: non si fa menzione dell’esito delle votazioni, imputandosi l’esito del giudizio alla Corte come soggetto astratto dalle persone che la compongono” (30). Ebbene, si è opinato che l’introduzione del voto di scissura potrebbe scalfire siddetto principio della collegialità in quanto il dissent, come già accade negli Stati Uniti d’America, “permette di costruire una motivazione a più voci” (31) (il che sembrerebbe riportarci alla memoria il monito terenziano del “quot homines, tot sententiae” (32).
Ciò posto, si è cercato di giustificare l’ostilità (rectius la diffidenza) verso l’istituto de quo sulla base di una “tradizione sfavorevole … ad una simile introduzione in nome del principio di un’assoluta ed unitaria <<collegialità>> delle decisioni giurisdizionali” e finanche “all’esistenza di un <<principio generale>> del nostro ordinamento – tale da implicare il divieto relativo all’identificazione dei voti e delle opinioni dei singoli giudici componenti organi collegiali di giurisdizione” (33).
In realtà, ad avviso di altra dottrina, il vulnus che si determinerebbe a seguito dell’introduzione dell’opinione dissenziente, si estenderebbe verso livelli e concezioni più elevate, altrimenti intangibili. Afferma in proposito lo stesso Zagrebelsky che “la questione pubblicità/segretezza delle posizioni personali – dissenzienti e concorrenti – dei giudici costituzionali non è esclusivamente una modalità di organizzazione e funzionamento della Corte, né soltanto un aspetto dello status di giudice costituzionale. Essa tocca la stessa concezione della giustizia costituzionale la quale, a sua volta, è funzione della concezione della costituzione come tale. … Metaforicamente, dove non c’è pubblicità si può parlare di una concezione piuttosto cattolica della costituzione; dove c’è, di una concezione piuttosto protestante” (34).
Se dunque tali valutazioni infondono il ragionevole sospetto che il principio della collegialità potrebbe non ricevere benefici, e addirittura incrinarsi per effetto dell’introduzione della dissenting opinion, è stato invece da altri osservato come non solo siddetto principio rimarrebbe imperturbato da un’eventuale introduzione del voto di scissura, ma addirittura la mancata previsione del dissent nell’ordinamento sminuirebbe lo stesso valore e la stessa efficacia della deliberazione giudiziale, dando in tal modo adito all’intervento della vox populi o della “comunità dei chierici” (35) per la ricerca di eventuali soluzioni alternative.
Avverte in tal senso Giuliano Amato che “in un sistema in cui la corte può parlare attraverso una voce soltanto, il possibile argomento contrario, o parzialmente discorde, resta affidato al professore universitario, alla stampa, al leader politico, all’amministratore pubblico direttamente interessato. Nessuna di queste voci, per quanto autorevole, può avere la dignità di quella del giudice costituzionale … La differenza, per di più, non è soltanto formale: né il professore universitario, né il giornalista, né l’uomo politico hanno giurato fedeltà alla Costituzione … La loro voce è quindi completamente libera di svolgere su un qualunque terreno la critica alla decisione giudiziale, ed è proprio in tale ambiente che la possibile, diversa collocazione degli interessi in termini costituzionali può facilmente trasformarsi in un’obiezione di carattere politico” (36).
Sulla scorta di queste contrapposte argomentazioni, ci si chiede quindi se non sia opportuno effettuare una sorta di bilanciamento fra i pro e i contro del dissent con riferimento al canone della collegialità, e dunque se sia opportuno perseverare ancora nel mantenimento della “tradizione del giudice silente” (37) (anche perché potrebbe pur esser vero che “la segretezza delle deliberazioni in camera di consiglio assicura una maggiore libertà al singolo giudice nei confronti della maggioranza, gli assicura una sorta di <<libertà di tradire>>” (38)), oppure se non sia più coerente consentire a ciascun giudice “la possibilità di distinguere la propria posizione da quella maggioritaria del collegio e di rivendicare le proprie convinzioni personali, senza essere schiacciato dietro lo schermo dell’unanimità ufficiale” (39).
Veniamo adesso ad affrontare il fenomeno dell’opinione dissenziente nell’ambito della motivazione delle decisioni della Corte costituzionale. Prima di addentrarci nello studio di questo istituto in rapporto alla parte motiva della pronuncia giudiziale (40), si ritiene utile soffermarsi su una premessa metodologica, per mezzo della quale si cercherà di ricavare le ragioni per le quali occorre motivare le decisioni della Consulta, cosicché si possa poi trattare della dissenting opinion in relazione ad esse.
Partendo dall’assunto, ormai pressoché consolidato in dottrina (41), che le decisioni della Corte costituzionale sulle questioni di legittimità costituzionale hanno natura giurisdizionale, la fonte che in primis disciplina la materia in oggetto risulta essere l’art. 111 Cost., a ragione definito come “la chiave di volta di tutta la costruzione della funzione giurisdizionale” (42), il cui sesto comma statuisce appunto come tutti i provvedimenti giurisdizionali debbano <<essere motivati>>.
Dal canto proprio, la Corte costituzionale ha recepito il richiamato principio costituzionale attraverso l’art. 18 della legge n. 87/1953, laddove si annoverano tra gli elementi costitutivi della decisione <<l’indicazione dei motivi di fatto e di diritto>>. Se dunque risulta espressamente sancito un obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali della Corte, non resta che da chiedersi il perché di tale prescrizione, e dunque occorre ricercare le ragioni che ne costituiscono il fondamento.
Il quesito si pone, in ispecie, in considerazione della definitività, e dunque della inoppugnabilità, delle decisioni della Consulta, “in considerazione della natura di organo di chiusura dell’ordinamento” (43) (art. 137, ultimo comma, Cost., secondo cui <<contro le decisioni della Corte costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione>>).
Ora, ben si capisce che, mentre nel processo ordinario l’obbligo di motivazione delle decisioni assolve soprattutto “alla funzione di persuadere le parti della giustezza della decisione, scoraggiando di conseguenza la proposizione delle impugnazioni” (44), invece “la motivazione della sentenza costituzionale, a differenza di quella comune, non può dirsi finalizzata a creare il convincimento delle <<parti>> sulla bontà della decisione emessa per evitarne l’impugnazione. Ciò per l’ovvia impossibilità di sottoporre le decisioni della Corte a qualsiasi tipo di gravame” (45), in considerazione del disposto del citato art. 137 Cost.
Se dunque il fine precipuo della motivazione delle decisioni del Giudice costituzionale non collima con quello del giudice ordinario per le ragioni suesposte, allora la ratio di tale prescrizione è stata da alcuni (46) riscontrata nella sindacabilità di tali decisioni da parte dei destinatari delle stesse, e dunque nell’azione di controllo della collettività, cosicché “tramite l’obbligo di motivazione il Costituente ha voluto mantenere sempre aperto questo canale di dialogo e verifica fra i giudici e il popolo” (47).
Queste considerazioni ci inducono, inoltre, ad formulare un’altra serie di riflessioni, che si incentrano specificamente sulla natura della motivazione. Ci si chiede cioè se la motivazione della decisione del Giudice costituzionale debba descrivere il procedimento decisorio, e dunque delineare l’iter logico da questi seguito nel chiuso della camera di consiglio, oppure se egli debba, con la stesura della motivazione, giustificare il risultato cui è pervenuto con la sua decisione. Ebbene, sul quesito in oggetto la dottrina non si è dimostrata del tutto pacifica, sebbene le soluzioni propendano maggiormente verso l’aspetto giustificativo-persuasivo della parte motiva della decisione.
Si opina infatti che se “la struttura della motivazione è condizionata dal fatto che essa mira a giustificarne la decisione” (48), giacché in generale “le motivazioni … hanno effetto persuasivo, di convincere le parti del processo (e segnatamente la parte perdente) e che tendono, più in generale, a persuadere l’opinione pubblica, cercandone il consenso, circa la stessa equità, l’opportunità, l’utilità sociale della giustizia” (49), in realtà non sembrerebbe né saggio né opportuno omettere dalla parte motiva delle decisioni del Giudice costituzionale la descrizione degli itinerari logici e psicologici da questi seguiti, giacché “l’opinione pubblica necessita del chiarimento determinabile con il discorso giustificativo … E proprio per il fatto che la motivazione è rivolta a tutti questi soggetti … pare indispensabile che gli elementi logico-giuridici che conducono all’atto ne facciano parte, sia che li si intenda come elementi a sé stanti, sia che li si consideri propriamente come parte integrante dello stesso discorso giustificativo” (50).
Riconducendosi alla tematica del dissenso giudiziale, la suesposta premessa si è ritenuta necessaria al fine di evidenziare il diverso significato che il dissent assumerebbe qualora si dovesse aderire all’una o all’altra teoria sulla natura della motivazione.
Se difatti si accoglie la tesi logico-descrittiva, la proposizione di un’opinione dissenziente rivestirebbe natura endoprocessuale, in quanto si limiterebbe soltanto a fornire un’ulteriore spunto di riflessione sulla questione oggetto di giudizio. Sarebbe dunque “un prius logico della decisione”, che tuttalpiù potrebbe atteggiarsi a mera censura del giudizio sui motivi in fatto e in diritto cui si è pervenuto, e dunque sostanzialmente “volta ad esprimere l’erroneità del ragionamento seguito dalla maggioranza” (51).
Se invece si aderisce alla tesi contrapposta, avendo quivi la motivazione una funzione giustificativo-persuasiva della decisione, allora l’opinione dissenziente si atteggerà a vera e propria “contromotivazione dissenziente”, poiché “l’efficacia giustificativa della decisione non sarebbe più riconducibile alla sola motivazione <<ufficiale>>, ma al contrario fra questa e quella espressa dai giudici risultati minoritari all’interno del Collegio. Muterebbe, dunque, la struttura stessa del discorso motivante, ricavabile non più dall’esegesi della sola sentenza … ma dall’integrazione dialettica fra questa e la <<controsentenza>> dissenziente” (52).
Quanto infine agli effetti che l’eventuale introduzione dell’opinione dissenziente cagionerebbe al contenuto della motivazione della sentenza, e alla conseguente forma narrativa, uno dei j’accuse più ricorrenti nei confronti della Corte è stato proprio il carattere non sempre lineare, coerente e perspicuo delle proprie pronunce, spesso invece poco intelligibili, ostiche alla comprensione, a volte contraddittorie e comunque non prive di orpelli che ne compromettono l’efficacia in quanto ne sminuiscono la qualità.
Non pochi studiosi hanno tuttavia sottolineato che sarebbe proprio la possibilità di esprimere l’opinione dissenziente a vanificare il ricorso a siffatta prassi, giacché “la sola possibilità che siano rese note le argomentazioni a sostegno di tesi difformi stimolerebbe il collegio ad assumere decisioni meglio meditate ed approfondite, con motivazioni limpide, evitando così quelle motivazioni apodittiche o comunque insufficienti, o quelle formulazioni spesso involute e oscure perché frutto di faticosi compromessi, che sarebbero il portato inevitabile dell’applicazione del rigido principio di unanimità e impersonalità della decisione” (53).
La ratio di ciò è riconducibile al fatto che nel nostro sistema processuale costituzionale, essendovi connaturato il principio della collegialità delle decisioni, esse risultano essere (almeno formalmente) il frutto dell’operato di tutti i giudici del collegio, e non soltanto del contributo della maggioranza (ma vedi, al riguardo, le considerazioni di Vittorio Denti riportate in nota 33 del presente paragrafo), giacché i membri della minoranza, non potendo esternare ufficialmente la propria dissenting, cercano comunque di far penetrare il proprio pensiero nella motivazione della decisione, che da essa dunque viene metabolizzato, affidando poi al giudice estensore l’ingrato e non facile compito di coagulare nel testo definitivo le tesi di ciascun giusdicente.
Per siffatte ragioni, ad avviso di Zagrebelsky “il concorso in un unico atto di tante opinioni diverse, che tentano tutte di farsi largo nelle pieghe della motivazione (magari per fornire appigli per future correzioni giurisprudenziali) è probabilmente una delle cause del livello non sempre apprezzabile delle argomentazioni della Corte che mancano talora di stringatezza, conclusività, e coerenza e abbondano talora di divagazioni non essenziali.” (54)
Ciò che infatti la dottrina sembra maggiormente rilevare in senso critico, non è tanto il diritto propriamente di dissentire pur in assenza di una sua esplicita previsione normativa (si potrebbe difatti dissentire in camera di consiglio al solo fine di convincere la maggioranza della bontà delle proprie argomentazioni, al fine di indurla a condividerle in toto nella motivazione), quanto invece l’inveterato costume di fare di tali dissentings interne delle vere e proprie clausole compromissorie, del tutto coese e compenetrate nella tesi espressa dalla pars maior.
Per questo motivo, dunque, non si appalesano prive di pregio le riserve che gli studiosi riscontrano nei confronti della Consulta riguardo questo aspetto certamente non eminentemente scientifico bensì tecnico, il che potrebbe farlo apparire marginale, di poco conto al cospetto della primaria importanza che riveste la soluzione della questione di diritto su cui si è incentrata l’attenzione della Corte, la cui volontà sia stata consacrata nella decisione.
Ma è anche vero che il valore e il contenuto della pronuncia della Consulta rischierebbe di non corrispondere a quello della medesima questione sottoposta alla sua cognizione, qualora la nitidezza espositiva richiesta dal pubblico uditorio fosse costretta a cedere il passo alla farraginosità di un testo compendiativo delle posizioni di tutti i giusdicenti (55).
Corollario di ciò è che dunque la possibilità di una formalizzazione del dissent separatamente dalla decisione c.d. ufficiale, non soltanto gioverebbe alla intelligibilità di essa (da parte dei destinatari), ma altresì renderebbe giustizia alla libertà di espressione del giudice dissenziente, che potrebbe così estrinsecare le proprie valutazioni personali senza che la loro efficacia possa essere adulterata (mentre invece è sacrificata in forza di un processo di assimilazione) dalla motivazione ufficiale (adulterandosi anch’essa per le suesposte ragioni) (56).
Un’ultima considerazione occorre riservare alla questione circa la compatibilità dell’istituto della dissenting opinion riguardo le diverse tipologie di decisioni della Corte costituzionale.
Sul tema, non sembrano riscontrarsi particolari difficoltà nel ritenere applicabile l’istituto in parola in tutti i tipi di decisioni della Consulta, pur tuttavia escludendo quelle che, espressamente (57) o fisiologicamente (58), non consentono di contemplarlo. Per tali ragioni, si ammette l’applicabilità della dissenting sia nelle sentenze che nelle ordinanze (59), sia in ordine a questioni processuale che di merito (60), ed infine, per quanto concerne la sentenza specificatamente, tanto per le sentenze di rigetto quanto per le sentenze di accoglimento (61).
Note:
1. Difatti, allorché il collegio si riunisce in sede non giurisdizionale, l’art. 5, comma terzo, del Regolamento Generale della Corte costituzionale del 20 gennaio 1966, dispone espressamente che“un Giudice nominato dalla Corte redige e custodisce i verbali. In essi si annotano soltanto le deliberazioni adottate e ciascun Giudice può chiedere che dal verbale risulti il proprio dissenso”. Questa esplicità previsione normativa sul dissent ha fatto sì che essa abbia rappresentato l’unico “precedente” di opinione dissenziente nell’ordinamento costituzionale italiano: su tale interpretazione, v. A. SPADARO, Sulla razionalizzazione del potere di autonormazione interna della Corte costituzionale, in P. COSTANZO (a cura di), L’organizzazione e il funzionamento della Corte costituzionale, Atti del Convegno, Imperia, 12-13 maggio 1995, Torino, 1996, 69 ss. Conforme S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente nel sistema di giustizia costituzionale, Torino, 1998, 194.
2. Così A. ANZON, Per l’introduzione dell’opinione dissenziente dei giudici costituzionali, in A. ANZON (a cura di), L’opinione dissenziente, Atti del Seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, nei giorni 5 e 6 novembre 1993, Milano, 1995, 430. Cfr. altresì A. RUGGERI, Per la introduzione del dissent nei giudizi di costituzionalità: problemi di tecnica della normazione, in A. ANZON (a cura di), L’opinione dissenziente, cit., 89 ss.; S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 175 ss.
3. “Un tema carsico che si muove sotto le rocce e ogni tanto emerge in superficie”: così definisce il dissent Gustavo Zagrebelsky in occasione dell’incontro con la stampa, avvenuto in data 28 gennaio 2004, a seguito della sua elezione a Presidente della Corte costituzionale, e il cui resoconto può riscontrarsi nel sito www.cortecostituzionale.it
4. I cui contributi, coordinati e raccolti dalla prof.ssa Adele Anzon, sono stati più volte richiamati nel corso ed ai fini della presente dissertazione.
5. Uno studio conciso ma efficace sul tema è offerto da F. MODUGNO, Fonti del diritto (diritto costituzionale), in Enc. giur. Treccani, XIV, Roma, 1989, 1 ss. Più ampiamente, cfr., per tutti, A. RUGGERI, Fonti, norme, criteri ordinatori, Torino, 2001.
6. In argomento, cfr. S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 175, nota 2.
7. Così le parole di Mortati, riportate da R. ROMBOLI, L’introduzione dell’opinione dissenziente nei giudizi costituzionali: strumento normativo, aspetti procedurali e ragioni di opportunità, in A. ANZON (a cura di), L’opinione dissenziente, cit., 77.
8. Così ancora lo stesso Mortati, su cui cfr. A. PIZZORUSSO, Osservazioni sullo strumento normativo richiesto per l’introduzione del dissenso nelle motivazioni delle decisioni della Corte costituzionale, in A. ANZON (a cura di), L’opinione dissenziente, cit., 60.
9. Ulteriori ragguagli in A. ANZON, Per l’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 429 ss., 454; S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 175 ss., nonché, in part., 286 ss.
10. Sulla terminologia adottata dal Costituente circa la distinzione tra leggi di revisione costituzionale e altre leggi costituzionali, ex art. 138 Cost., si rimanda alle considerazioni di F. MODUGNO, S. NICCOLAI, Atti normativi, in Enc. giur. Treccani, XVIII, cit., 1990, 1 ss., spec. 7, ove si puntualizza che “la dottrina tende a negare l’esistenza di una distinzione di competenze tra i due tipi di leggi costituzionali, e a riconoscere ad essi una omogeneità di forza e di regime”. Specifica ulteriormente A. CERRI, Revisione costituzionale, in Enc. giur. Treccani, XXVII, 1991, 1 ss., in part. 6, che “la legge di revisione costituzionale è legge che modifica stabilmente in senso abrogativo, modificativo od anche aggiuntivo le disposizioni e le norme contenute nella Costituzione formale. Legge costituzionale è ogni altra legge che la Costituzione formale prevede debba essere approvata con il procedimento di cui all’art. 138 Cost., in attuazione o svolgimento degli istituti da essa previsti.”. Sulla legge costituzionale v., in particolare, M. VILLONE, Legge costituzionale, in Enc. giur. Treccani, XVIII, 1990, 1 ss.
11. Sul punto, v., amplius, S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 182 ss.
12. Così A. PIZZORUSSO, Osservazioni sullo strumento normativo, cit., 58. Cfr altresì S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 185 nota 13. Il pensiero di Lombardi in merito all’art. 5 l. cost. n. 1/1953, è stato anche richiamato da C. MORTATI, Relazione illustrativa della proposta di emendamenti dell’art. 18 <<norme integrative>>, in A. ANZON (a cura di), L’opinione dissenziente, cit., 393 ss., in part. 409, secondo cui “l’immunità per le opinioni e i voti, in tanto ha ragione d’essere istituita in quanto le une e gli altri siano resi palesi, e nessuno strumento è all’uopo pensabile all’infuori del dissent. Con molta acutezza il Lombardi ha messo in rilievo come, data l’esigenza della sottoscrizione di tutti i giudici per la perfezione delle sentenze della Corte, il rifiuto della sottoscrizione da parte del dissenziente è utilizzabile come arma per superare il divieto di pubblicità … e per aprire così la possibilità dell’applicazione dell’art. 5”.
13. In proposito, è particolarmente risoluta la posizione espressa da S. BARTOLE, Opinioni dissenzienti: problemi istituzionali e cautele procedurali, in A. ANZON (a cura di), L’opinione dissenziente, cit., 3 ss., spec. 7, ad avviso del quale “le osservazioni sviluppate al riguardo da Giorgio Lombardi sono perfettamente rovesciabili. Si può legittimamente sostenere che il principio dell’irresponsabilità non concorra ad allargare l’ambito dell’interna attività della Corte che può essere resa pubblica, ma va confinata a quanto è oggettivamente conoscibile in forza di autonomi e diversi criteri, fra i quali può anche rientrare quello della segretezza delle opinioni dissenzienti”.
14. Sul punto, cfr. ancora S. BARTOLE, ibidem, 10, il quale asserisce che il ricorso alla legge costituzionale non è dettato da ragioni di opportunità o di convenienza, in quanto trattasi di “una questione di compatibilità costituzionale dello strumento adottato per raggiungere l’obiettivo perseguito”, che è quello “ambizioso di modificare, seppure relativamente al solo giudizio costituzionale, la struttura di un atto che il legislatore designa con il nome di sentenza”. Conforme altresì S. FOIS, Le opinioni dissenzienti: problemi e prospettive di soluzione, in A. ANZON (a cura di), L’opinione dissenziente, cit, 21 ss., spec. 49, il quale considera il dissent come “costituzionalmente doveroso”.
15. In questi termini A. RUGGERI, Per la introduzione del dissent nei giudizi di costituzionalità, cit., 107 e 109, il quale aggiunge, in conclusione, come la forma costituzionale sia “necessaria e, comunque, sommariamente opportuna per un’equilibrata definizione iniziale dell’assetto positivo del dissent”.
16. Così C. MORTATI, Considerazioni sul problema dell’introduzione del <<dissent>> nelle pronunce della Corte costituzionale italiana, in G. MARANINI, (a cura di), La giustizia costituzionale, Firenze, 1966, 156.
17. A tale proposito, è particolarmente utile la testimonianza di Ettore Gallo, già Presidente della Consulta, il quale, in un’intervista concessa a Maria Antonietta Calabrò per il “Corriere della Sera” del 31 dicembre 1998, ricorda l’episodio, avvenuto prima della riforma del 1987, in cui il deputato Marco Pannella, in occasione del respingimento da parte della Corte del referendum sulla caccia da lui patrocinato, “se la prese in particolare con il povero relatore, il giudice Giuseppe Ferrari, che invece … era proprio contrario … Talvolta si commettono delle ingiustizie: il giudice Ferrari non poteva parlare, perché avrebbe violato il segreto della camera di consiglio, e dovette subire tutti gli affronti, soffrendo in silenzio”.
18. In questo senso V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, II, L’ordinamento costituzionale italiano, Padova, 1984, 143, ad avviso del quale “una più attenta analisi dell’art. 137 Cost indurrebbe piuttosto a ritenere la parità di forza dei regolamenti della Corte rispetto alla legge ordinaria … gli uni e l’altra autorizzati a disciplinare la stessa materia, ritenendo il fenomeno come una <<preferenza>>, e non come vera <<riserva>> in favore dei primi”. Cfr. altresì S. P. PANUNZIO, Regolamenti della Corte costituzionale, in Enc. giur. Treccani, XXVI, cit., 1991, 1 ss. Sulla legge ordinaria v., in generale, F. CUOCOLO, Legge, in Enc. giur. Treccani, XVIII, 1990, 1 ss.
19. Così S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 198.
20. Parlano a tale proposito di “norme interne <<della Corte sulla Corte>>” A. RUGGERI, A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 2001, 52.
21. Afferma in proposito A. RUGGERI, Per la introduzione del dissent nei giudizi di costituzionalità, cit., 101, che “il regolamento della Corte (o altra forma positiva frutto di autodeterminazione) non può (ri)definire gli elementi costitutivi della sentenza, dichiarando cosa vi appartiene e cosa invece vi rimane estraneo (ancorché in allegato…). Con regolamento (o altro strumento positivo a questo analogo) può esser trattata la <<crosta>> – se così può dirsi – della decisione giudiziale, come s’è fatto con la modifica dell’art. 18 N.I. in ordine alla sottoscrizione dell’atto, ma non può incidersi sulla struttura dello stesso, alterandola rispetto alla sua attuale conformazione o, come sia, riplasmandola e, pertanto, stabilendo – se del caso – che il dissent si colloca dentro la decisione propriamente detta.” Conformi altresì S. BARTOLE, Opinioni dissenzienti, cit., 11; L. MENGONI, Intervento, in A. ANZON (a cura di), L’opinione dissenziente, cit., 55, ad avviso del quale “la dissenting opinion non è una semplice relazione di minoranza, ma fa corpo con la sentenza, ne è un elemento strutturale che concorre a determinarne l’identità.”; G. ZAGREBELSKY, Intervento, in A. ANZON (a cura di), L’opinione dissenziente, cit., 156, che, in un discorso più ampio, tende ad escludere che il dissent sia riconducibile, tra l’altro, ad “una modalità di organizzazione e funzionamento della Corte”. Contra, S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 198 e 253 ss., in part. 254, il quale, partendo dalla considerazione che “l’opinione dissenziente manifesta una posizione individuale (o comunque condivisa da un numero di giudici tale da rappresentare, pur sempre, una parte minoritaria dei componenti), la quale, per definizione, non sarà mai imputabile al collegio, rispetto alla decisione del quale si pone, anzi, in una condizione di naturale contrapposizione”, giunge alla conclusione che, per tale motivo, “l’opinione dissenziente non potrà mai costituire punto di imputazione di quei medesimi effetti riconducibili alla decisione del Giudice costituzionale come organo unitariamente inteso”, ragion per cui sembra “esclusa l’appartenenza delle opinioni dissenzienti e concorrenti agli elementi costitutivi dell’atto giudiziale”, ravvisando invece nel regolamento della Corte lo strumento più idoneo per una loro introduzione nel sistema di giustizia costituzionale.
22. Così A. RUGGERI, Per la introduzione del dissent nei giudizi di costituzionalità, cit., 100. In merito a quest’ultima riflessione, concorda S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 256, che il dissent non può fungere da precedente giudiziale, giusta l’inapplicabilità dei principi del giudicato costituzionale, benché le stesse opinioni separate non debbano comunque considerarsi come “semplici punti di vista”, non foss’altro per “il loro potere di incidere sulla successiva giurisprudenza (in primis costituzionale)”. E’ utile ricordare che la proposta Mortati di introduzione dell’opinione dissenziente attraverso la modificazione dell’art. 18 N.I., stabiliva che la formulazione motivata dell’opinione dissenziente doveva risultare in calce alla decisione.
23. Sul punto, v. anche R. ROMBOLI, L’introduzione dell’opinione dissenziente nei giudizi costituzionali, cit., 80.
24. In questi termini S. BARTOLE, Opinioni dissenzienti, cit., 3.
25. E’ questo il suggerimento proposto da S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 195.
26. Così G. BRANCA, Collegialità nei giudizi della Corte costituzionale, Padova, 1970, 5. Rileva tra l’altro L. MENGONI, Intervento, cit., 55, che “l’ammissione della dissenting opinion non ferisce il principio della collegialità della decisione. … L’atto rimane imputato indivisibilmente all’intero collegio, ma i dissenzienti, che pure hanno partecipato alla sua formazione, sono autorizzati a rendere pubblici il contenuto e le ragioni del loro voto diverso da quello della maggioranza nella forma appunto dell’<<opinione dissenziente>>. La deroga al vincolo del segreto … non è coessenziale alla collegialità.” Aggiunge infine A. CORASANITI, Intervento, in A. ANZON, Le opinioni dissenzienti, cit., 18, che “nel caso poi della giustizia costituzionale, nella cui organizzazione si è volutamente esclusa la comune estrazione professionale dei giudici (salvo per quanto concerne la frequentazione di studi in materia giuridica), la collegialità si riferisce alla diversità di orientamenti ideologici e culturali”.
27. Un’interessante descrizione della scansione del percorso di lavoro che conduce alla formazione della decisione della Corte ci è ancora una volta offerta da G. BRANCA, Collegialità nei giudizi della Corte costituzionale, cit., 6: “qualche mese prima dell’udienza, il relatore affida il fascicolo al suo assistente di studio (magistrato ordinario o assistente universitario) e questi, sotto la guida del relatore, fa le ricerche di dottrina e giurisprudenza che riguardano la questione proposta nel giudizio di costituzionalità. Dopodiché redige una relazione nella quale brevemente ricorda i fatti e isola le questioni sottoposte al giudizio (non può esprimere assolutamente alcun parere sulla decisione); inoltre raccoglie i brani di dottrina e giurisprudenza che possono essere utili per il giudizio. La relazione viene poi riprodotta in diversi esemplari, di modo che ciascuno dei giudici, non relatori, ne abbia una copia. … Così si arriva alla camera di consiglio. Discussione. Il relatore imposta il problema e illustra la sua tesi avanzando una proposta o comunque segnando le diverse strade che, in teoria, si possono prendere alternativamente. Poi parlano i singoli giudici a cominciare dal più giovane. Per ultimo il presidente. Accade raramente che si limitino a semplici dichiarazioni di voto; anzi spesso la discussione si fa pesante … Insomma tutti parlano e tutti vogliono dire qualcosa di proprio anche quando aderiscono, per la decisione, alla tesi di chi li ha preceduti nel discutere. Perciò, collaborazione attiva, non solo alla decisione ma alla preparazione dei motovi con cui essa verrà giustificata. Poi il relatore redige uno schema di sentenza che sarà sottoposto a lettura collegiale. … La partecipazione di tutti è spesso fastidiosa per il relatore; il quale molte volte resiste ma poi deve cedere … Insomma, partecipazione attiva sia alla formazione sia alla redazione della pronuncia”. Su quest’ultima considerazione finale di Giuseppe Branca, parzialmente obietta V. DENTI, Per il ritorno al “voto di scissura” nelle decisioni giudiziarie, in C. MORTATI (a cura di), Le opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali ed internazionali, Milano, 1964, 1 ss., in part. 12 ss., su cui, amplius, la nota 33 di questo paragrafo.
28. “…il tutto secondo un andamento che non vede nuove deliberazioni collegiali ma il coagularsi delle posizioni dei vari giudici attorno ai singoli documenti, anche con ribaltamenti di posizione rispetto agli atteggiamenti originariamente assunti, che non credo siano possibili nel nostro ordinamento nel passaggio dalla camera di consiglio dedicata alla decisione a quella convocata per l’approvazione del testo redatto”: così S. BARTOLE, Opinioni dissenzienti, cit., 4, il quale prosegue osservando che la dinamica che porta alla deliberazione della Supreme Court “non dà la sensazione di una lenta preparazione ad un incontro collegiale dei nove protagonosti per una decisione finale, ma offre, invece, l’immagine di uno scontro-incontro fra personalità appunto arroccate nelle rispettive stanze, e tese a trovare un punto di equilibrio fra le rispettive posizioni senza per questo mettere in discussione la propria indipendenza o comprometterla nella definizione di una volontà collegiale”.
29. Così definisce il principio della collegialità G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, 89.
30. G. ZAGREBELSKY, ibidem, 90.
31. Così M. D’AMICO, Riflessioni sul ruolo della motivazione nella Corte Suprema statunitense, in A. RUGGERI (a cura di), La motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, Atti del seminario di Messina 7-8 maggio 1993, Torino, 1994, 63 e 65, la quale altresì aggiunge come le dissenting e le concurring opinions consentano “di sviluppare tesi parallele sull’interpretazione dei diritti e sulla giustizia costituzionale, rispetto a quella accettata come principale nella motivazione”.
32. TERENZIO, Phormio, II, 4, 14.
33. In questi termini S. FOIS, Le opinioni dissenzienti, cit., 23 e 24, il quale tuttavia oppone, in ordine alla prima obiezione, che “la suddetta tradizione non può rappresentare un ostacolo veramente <<giuridico>>, a meno di non ritenere che essa abbia prodotto una <<consuetudine>> nel senso proprio del termine; per di più, dovrebbe trattarsi di una consuetudine capace di valere anche a livello costituzionale (perché dovrebbe riguardare anche le <<forme>> di esercizio delle funzioni della Corte); ma appunto un simile livello mi sembra da escludere del tutto”, mentre contro la seconda obiezione si limita a rilevare che, se un tale principio fosse anche ipoteticamente esistito, non si capisce come sarebbe riuscito a conciliarsi con le decisioni di organi giurisdizionali monocratici, e dunque a giustificarne la presenza nell’ordinamento. In merito a quest’ultima considerazione, poi, si ritiene utile riportare le belle riflessioni a suo tempo formulate da V. DENTI, Per il ritorno al “voto di scissura” nelle decisioni giudiziarie, cit., 12 ss., il quale acutamente rileva che “in realtà, come nessun credito potrebbe incontrare la tesi che le decisioni dei giudici monocratici godano di minor prestigio di quelle dei giudici collegiali per il loro carattere <<personale>>, non sembra, per gli indici sociologici di cui disponiamo, che l’impersonalità della deliberazione sia motivo di maggiore <<autorità>> delle sentenze. … Lo scarso funzionamento degli organi collegiali, per le insufficienze ben note della vita giudiziaria, ha da tempo portato alla <<personalizzazione>> della decisione, la cui paternità è attribuita nella comune esperienza all’istruttore o al relatore, giudice esclusivo del fatto, quando non anche del diritto, senza che da ciò sia derivata alcuna menomazione del credito di cui la decisione gode nel mondo dei giuristi. Credito che è, per unanime consenso, fondato sull’eccellenza delle ragioni giuridiche, sulla ricchezza di umanità, sulla sapiente conciliazione fra la giustizia astratta e la giustizia del caso singolo, e non certo sulla <<impersonalità>> o sulla <<anonimità>> della decisione. Talché il dissenso del quale si consentisse la manifestazione e la motivazione, non costituirebbe, soprattutto nei casi più gravi e delicati, alcun motivo di scandalo, ma sarebbe la conferma del senso di responsabilità, della appassionata dedizione, della assidua opera di ricerca, sul piano culturale ed umano, attraverso la quale i giudici sono pervenuti alla decisione”. Sempre in merito al giudizio monocratico, seguono ancora le considerazioni di C. MORTATI, Relazione illustrativa della proposta di emendamenti dell’art. 18 <<Norme Integrative>>, in A. ANZON, (a cura di), L’opinione dissenziente, cit., 407, ad avviso del quale “se fosse vera la tesi che vede compromessa l’indipendenza del giudice della pubblicità della propria opinione, dovrebbe giungersi all’eliminazione del giudice unico, mentre la tendenza attuale è di estenderne l’impiego a tutti i giudizi di primo grado”, sebbene vi sia ancora di parziale ostacolo “quella irrazionale fede in tutto quello che si è chiamato <<il feticcio della collegialità universale>>”. Sui principi generali dell’ordinamento italiano cfr, per tutti, F. MODUGNO, Principi generali dell’ordinamento, in Enc. giur. Treccani, XXIV, cit., 1991, 1 ss.
34. Così G. ZAGREBELSKY, Intervento, cit., 156. E’ interessante osservare come l’Autore, a distanza di più di dieci anni, abbia ancora tenuto fede a questa sua concezione di pensiero, venendo essa ad essere sostanzialmente ribadita in occasione del recente incontro con la stampa a seguito della nomina dello stesso prof. Zagrebelsky alla presidenza della Consulta. In particolare, alla domanda circa l’eventualità della riproposizione dell’introduzione dell’istituto del dissent, dopo che due anni addietro la maggioranza dei giudici della Consulta (ben 13 su 15!) ha respinto la possibilità di introdurla per via regolamentare, aprendo così la via alla legge costituzionale, il neo Presidente risponde che, con l’introduzione del dissent, sarebbe “proprio la concezione di fondo della Corte che verrebbe toccata. Secondo la disciplina vigente la Corte esiste come organo unitario, e i giudici non esistono come singoli, a differenza di altri ordinamenti dove i singoli giudici costituzionali sono considerati ciascuno un organo costituzionale dotato di un suo status specifico. La disciplina della Corte costituzionale in Italia è tale per cui esiste solo la Corte che parla con una voce sola anche se naturalmente discute al suo interno … è una modifica di grande rilievo perché … si tratterebbe di trasformare un organo che ha questa sua configurazione unitaria in un organo che risulta essere la somma di tanti giudici aventi ciascuno un suo status costituzionale autonomo”.
35. Ossia, secondo le parole di G. SILVESTRI, Relazione di sintesi, in A. RUGGERI (a cura di), La motivazione delle decisioni, cit., 568 ss., in part. 570, dei giuristi, alle cui valutazioni la Corte guarda con particolare attenzione ogni qual volta emette le sue decisioni, affinché possano di queste esserne “convinti, perché un’insurrezione maggioritaria dei chierici contro determinate operazioni di spostamento in avanti della Corte porterebbe ad una sua delegittimazione agli occhi dei non chierici, che costituiscono la più vasta opinione pubblica, quell’uditorio universale che non dispone degli strumenti tecnici e culturali per controllare la plausibilità delle argomentazioni della Corte, ma pone a presupposto del proprio giudizio quello degli <<esperti>>”.
36. In questi termini G. AMATO, Osservazioni sulla <<dissenting opinion>>, in C. MORTATI (a cura di), Le opinioni dissenzienti, cit., 24 e 25. Assume posizioni in favore dell’opinione dissenziente anche U. SPAGNOLI, Intervento, in A. ANZON (a cura di), L’opinione dissenziente, cit., 125, il quale, nel sostenere e ribadire l’intangibilità del principio di collegialità e della compattezza dell’immagine della Corte anche a seguito dell’introduzione del dissent, afferma: “si può forse supporre che la voce dissenziente anche di un solo componente del collegio possa rendere meno accettabile all’opinione pubblica generale e a quella scientifica, la decisione voluta dai tanti? Direi di no, dal momento che – come è stato da più parti sottolineato – l’accettazione di una pronunzia deriva dalla validità del suo contenuto e non da una sua unanimità di consensi solo presunta”.
37. La definizione richiamata è del Presidente emerito della Corte costituzionale Renato Granata, tratta dall’intervista rilasciata per “Il Messaggero” del 23 febbraio 1999: “Basta delegittimare la Consulta. Esamineremo la dissenting opinion”.
38. L’osservazione è di G. AZZARITI, in Seminario sulla revisione della costituzione. Incontro del 12 giugno 1998 sul tema “La Corte costituzionale”, tratto dal sito internet dell’Università degli Studi L.U.I.S.S. di Roma, all’indirizzo www.luiss.it.
39. Così A. ANZON, Per l’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 437. Sostanzialmente conforme alle valutazioni della prof.ssa Anzon è il pensiero del giudice della Supreme Court C. E. HUGHES, The Supreme Court of the United States, New York, 1928, 67, riportato da S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 83, nota 34, il quale, con riferimento ai rapporti tra il dissent e le garanzie d’indipendenza dei giudici costituzionali, asserisce che, “se può essere spiacevole che essi non siano sempre in grado di trovarsi uniti in una soluzione comune, è comunque preferibile che la loro indipendenza venga riconosciuta e mantenuta, piuttosto che sacrificata sull’altare dell’unanimità.”
40. Si specifica che in questa sede si fa riferimento all’istituto della dissenting opinion in senso lato, ricomprendente quindi sia l’opinione dissenziente in senso proprio, che si ha quando la difformità d’intenzione riguarda il solo dispositivo della decisione, sia l’opinione concorrente, la cui dissonanza concerne invece la motivazione della medesima.
41. Cfr., tra i tanti, F. RIGANO, L’obbligo di motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, in A. RUGGERI (a cura di), La motivazione delle decisioni, cit., 276 ss., spec. 278, il quale asserisce che “la previsione che <<tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati>> integra – come ha osservato Alessandro Pizzorusso – una regola di diritto processuale generale, doverosamente applicabile anche alle decisioni della Corte in considerazione del carattere giurisdizionale del metodo a cui l’attività di giustizia costituzionale si ispira”.
42. La definizione è di Vittorio Denti, riportata in A. SAITTA, Logica e retorica nella motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, Milano, 1996, 15.
43. Così L. D’ANDREA, La Corte commenta … se stessa (attraverso le conferenze-stampa del suo presidente), in A. RUGGERI (a cura di), La motivazione delle decisioni, cit., 383.
44. In questi termini A. SAITTA, Logica e retorica nella motivazione, cit., 53, il quale riporta utilmente il pensiero di Piero Calamandrei sulla natura della motivazione, quale “parte ragionata della sentenza che serve a dimostrare che la sentenza è giusta e perché è giusta: e a persuadere la parte soccombente che la sua condanna è stata il necessario punto di arrivo di un meditato ragionamento e non frutto improvvisato di arbitrio o di sopraffazione”.
45. In questi termini A. SAITTA, ibidem, 59. Cfr. altresì A. MELONCELLI, Giurisdizione (disciplina costituzionale della), in Enc. giur. Treccani, XV, cit., 1989, 1 ss., spec. 4.
46. Cfr. R. ROMBOLI, La mancanza o l’insufficienta della motivazione come criterio di selezione dei giudizi, in A. RUGGERI (a cura di), La motivazione delle decisioni, cit., 334 ss., spec. 335, secondo cui la necessità che le decisioni costituzionali siano sempre compiutamente motivate sussiste “non tanto ai fini di una eventuale impugnazione, data l’inoppugnabilità delle stesse, quanto per il fattto di rivolgersi ad una pluralità di interlocutori e di poter essere quindi in tal senso controllata”
47. Così, ancora, A. SAITTA, Logica e retorica nella motivazione, cit., 63 ss., in part. 75, laddove rileva, tra l’altro, che “l’obbligo di motivare la sentenza costituzionale risponde, così, ad un’opzione logica e politica ad un tempo: politica perché funzionale ad una concezione sostanzialmente democratica della Stato, dei rapporti istituzionali e della sovranità, in cui è possibile il continuo confronto con i detentori della stessa sovranità; logica, perché costituisce lo strumento necessario per mantenere l’effettività del dialogo fra società civile e Corte costituzionale, presupposto indispensabile perché si rinnovi la legittimazione sostanziale della stessa Corte”. Si ritiene opportuno rilevare, però, che, sebbene il potere giudiziario (come gli altri poteri dello Stato) trovi legittimazione nel principio della sovranità popolare, giusta l’emissione delle pronunce giudiziali in nome del popolo italiano, è anche vero come sia necessario ben definire una linea di demarcazione tra l’attività propria della giustizia, che vede nella legge la sua fonte primaria, e le istanze della collettività, cui la giustizia deve non adeguarsi, bensì recepire e ad esse rapportarsi, attraverso un’operazione di bilanciamento dei rispettivi interessi. A tale proposito, si rivelano particolarmente fitte di significato le riflessioni di G. SILVESTRI, Relazione al Convegno di studio Esposito, Crisafulli, Paladin. Tre costituzionalisti nella cattedra padovana. La sovranità popolare, Padova, 19-20-21 giugno 2003, in www.costituzionalismo.it le quali, sebbene riguardino la magistratura ordinaria, confermano la loro validità anche riguardo la giustizia costituzionale. A giudizio dell’Autore, “l’influsso dell’opinione pubblica sul comportamento dei giudici può essere positivo ed anzi auspicabile, se inteso come stimolo perché gli stessi non indulgano ad iniziative apertamente faziose o stravaganti. Il timore di perdere la propria legittimazione può essere un argine a scorrettezze politicamente orientate, sia nel senso dell’azione che in quello dell’omissione. La ricerca del consenso non può e non deve tuttavia porre remore eccessive alla coraggiosa elaborazione di principi non immediatamente percepiti dalla maggioranza dei cittadini. … Escluso dunque che i giudici debbano seguire o, peggio, inseguire il favore dell’opinione pubblica, non si può tuttavia ignorare … che la produzione giudiziale di diritto pone certamente, specie in un ordinamento di civil law un problema costituzionale di connessione del potere giudiziario con la rappresentanza democratica dalla quale promana la legge cui il giudice è soggetto (art. 101, comma 2 della Costituzione italiana)”.
48. Così M. TARUFFO, La motivazione della sentenza civile, Padova, 1975, 214.
49. In questi termini L. VENTURA, Motivazione degli atti costituzionali e valore democratico, Torino, 1995, 201, il quale – è da precisare – qui riporta sostanzialmente il pensiero di Perelman sulla questione in oggetto.
50. Così ancora L. VENTURA, ibidem, 21 e 203, ove altresì si considera che “se la motivazione … dovesse avere lo scopo di convincere, di persuadere …incorrerebbe verosimilmente nel pericolo di essere (più che apparire) fuorviante. Pare indiscutibile che la persuasione e la propaganda abbiano un confine labilissimo. E poi persuadere chi e che cosa? Se si tratta di persuadere la comunità dei tecnici, basta l’argomento logico che conduce la giustificazione; se occorre persuadere l’opinione pubblica (che per definizione non è soggetto statico), bisogna intanto vedere come la stessa si dispone: se è, per così dire, naturalmente pronta a farsi convincereo è <<ostile>> … Insomma, la <<persuasione>> non è <<arte>> da utilizzare nella struttura dell’atto. L’importante è che in esso vi siano gli elementi giustificativi adatti oggettivamente a provare la sua legittimità.” Sostanzialmente non dissimile alla tesi ora esposta è l’opinione di R. E. KOSTORIS, Giudizio (diritto processuale penale), in Enc. giur. Treccani, XV, cit., 1989, spec. 3, il quale rileva ulteriormente che, “anche se la motivazione dovrebbe riportare il pensiero del giudice allorché ha deciso, nulla garantisce che ciò accada veramente. Ed, anzi, è ormai divenuto quasi un luogo comune quello della funzione autoapologetica della motivazione, che, avendo lo scopo di giustificare una scelta già presa in precedenza, di accreditarne il valore con argomenti <<razionali>>, finirebbe più spesso per nascondere che non per palesare le reali ragioni della decisione, dove incidono anche componenti psicologiche, momenti intuitivi, illuminazioni”.
51. Così S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 266.
52. In questi termini A. SAITTA, Logica e retorica nella motivazione, cit., 199, 201 ss. Prosegue poi l’Autore rilevando, ed ulteriormente ribadendo, che “a seguito della pubblicazione delle opinioni dissenzienti la struttura della motivazione si arricchirebbe notevolmente, sia perché la Corte dovrebbe argomentare meglio le sentenze per superare le obiezioni espresse dai giudici a favore della tesi minoritaria, sia perché il discorso motivante non sarebbe più ricavabile dalla lettura della sola sentenza, ma dal confronto dialettico fra quest’ultima e la contromotivazione dissenziente. Il destinatario della sentenza costituzionale avrebbe così la disponibilità di strumenti migliori per scandagliare le ragioni della decisione costituzionale e della sua fondatezza. Avrebbe, per dirlo in altre parole, una motivazione molto più sofisticata e molto più leggibile, idonea non soltanto a conferire maggiore persuasività alle decisioni validamente fondate, ma anche a far diminuire quelle delle sentenze frutto di forzature o di distorte esegesi della Costituzione”.
53. Così A. ANZON, Per l’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 433.
54. G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, cit., 90. Particolarmente incisive sono, in argomento, le riflessioni del giudice SPAGNOLI, Intervento, cit., 122 ss., il quale non esita a dichiarare, fornendo peraltro una spiegazione molto valida, che “la dottrina è spesso critica nei confronti del modo in cui vengono motivate le sentenze della Corte. Le <<note>> alle nostre pronunzie accennano spesso alla contraddittorietà e a volte incomprensibilità delle motivazioni, alla incoerenza e sovrapposizione delle argomentazioni, al difetto di omogeneità nello stile di redazione. … Il fenomeno non ha certamente a che vedere né con un preteso scarso impegno né con difetti di attenzione dei giudici: anzi è vero il contrario. Esso è prodotto infatti proprio dal forte impegno dei giudici nella discussione della bozza di sentenza predisposta dal redattore … In simili casi l’impossibilità per i giudici rimasti in minoranza di rendere pubbliche le ragioni del proprio dissenso li induce a cercare di modificare il testo preparato dal redattore, a sopprimere le frasi meno accette, a cercare di conquistare, nel corpo di una sentenza preparata da un altro giudice, spazi nei quali far rientrare parte del proprio pensiero. … La motivazione di una sentenza che decide della legittimità costituzionale di una legge esigerebbe, invece, intuitivamente, il massimo di chiarezza. … Ed allora – proprio ai fini di chiarezza – è di gran lunga preferibile che le opinioni dissenzienti possano essere espresse apertamente, senza dover essere ricercate nelle incoerenze dei passaggi e nei vuoti della argomentazione, e che di conseguenza le opinioni della maggioranza possano essere espresse senza interpolazioni o manipolazioni. In altre parole, l’opinione dissenziente consentirebbe di evitare che le opinioni della minoranza siano del tutto escluse dalla sentenza o siano costrette ad entrarvi in modo distorto, a danno della comprensibilità di tutte le posizioni che in essa si vogliono riflettere”. Sulla stessa linea di pensiero si pone G. BRANCA, Collegialità nei giudizi della Corte costituzionale, cit., 10, il quale, partendo dall’assunto che “la motivazione della sentenza non è opera di uno ma di tutti, perciò anche della minoranza”, ci illustra ulteriormente la fase della lettura e dell’approvazione del testo della decisione già abbozzato dall’estensore, rilevando la possibilità, con riferimento ai singoli giusdicenti, che “a taluno le parole del relatore paiono troppo forti: perciò vorrebbe sfumare, attenuare; ma per un altro l’attenuazione toglierebbe forza alla motivazione. Così si finisce spesso con usare una terza espressione che accontenta tutti ma che spesso è meno efficace delle altre due”. Pur tuttavia, l’Autore sembra in qualche modo giustificare siffatto modus operandi, chiedendo l’indulgenza dei critici, ai quali suggerisce di guardare soprattutto alla sostanza della decisione, e non soltanto alla motivazione della medesima.
55. Sul punto, conviene A. SPADARO, Le motivazioni delle sentenze della Corte come “tecniche” di creazione di norme costituzionali, in A. RUGGERI (a cura di), La motivazione delle decisioni, cit, 373, “che le motivazioni che accompagnano i dispositivi costituzionali spesso sono oscure e involute … proprio perché esprimono il faticoso <<compromesso>> raggiunto nell’adozione del dispositivo: si cerca, in altri termini, di <<accontentare>> la minoranza dei giudici – che deve inchinarsi al dispositivo avverso – argomentando anche, sia pure fra le pieghe della motivazione, le opposte <<ragioni>>!”. Concorda altresì R. ROMBOLI, L’introduzione dell’opinione dissenziente nei giudizi costituzionali, cit., 71, quando asserisce che “la necessità … di concordare su un’unica motivazione da approvare a maggioranza fa sì che il carattere compromissorio della stessa si manifesti all’esterno attraverso un prodotto che appare in certi casi di assai difficile lettura o internamente contraddittorio nella parte motiva, o di questa in rapporto al dispositivo. In certi casi si ha l’impressione che la parte rimasta in minoranza con riguardo al dispositivo voglia in qualche modo recuperare qualcosa attraverso la motivazione, limitando così la portata e l’effetto del primo.”
56. Osserva in tema R. ROMBOLI, La mancanza o l’insufficienta della motivazione, cit., 345, come ad una motivazione chiara, esauriente e diffusa delle decisioni della Corte costituzionale corrisponda un’importante valenza biunivoca, giacché produrrebbe “<<all’interno>> l’effetto di costituire un’autolimitazione alla discrezionalità della stessa, imponendo una maggiore coerenza alla sua attività e <<all’esterno>> quello di permettere un controllo da parte dell’opinione pubblica e soprattutto di creare per la Corte una posizione in qualche modo di autonomia rispetto alle scelte ed alle opzioni politiche contingenti operate dal Parlamento”.
57. Ci si riferisce, specificatamente, alla competenza c.d. penale della Corte costituzionale, ed in particolare all’art. 28, primo comma, l. 25 gennaio 1962, n. 20, il quale dispone espressamente che <<nessuno dei votanti può esprimere per iscritto i motivi del proprio voto>>. Sul punto, cfr. R. ROMBOLI, L’introduzione dell’opinione dissenziente nei giudizi costituzionali, cit., 84; F. SANTOSUOSSO, Aspetti procedurali connessi alla eventuale ammissibilità delle opinioni dissenzienti, in A. ANZON (a cura di), L’opinione dissenziente, cit., 111 ss., spec. 119, il quale tuttavia ritiene che l’eventuale ammissibilità del voto dissenziente negli altri giudizi dovrebbe indurre il legislatore a riconsiderare la permanenza di detta esclusione. Sul processo penale costituzionale v., in generale, A. CERRI, Giudizio e procedimento di accusa, in Enc. giur. Treccani, XV, cit., 1 ss.
58. E’ il caso della correzione degli errori materiali delle sentenze e delle ordinanze della Consulta (art. 21 N.I), sebbene sul punto la dottrina non sia del tutto pacifica: cfr. S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 269, in part. Nota 32.
59. Cfr. S. FOIS, Le opinioni dissenzienti: problemi e prospettive di soluzione, cit., 22; S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 268.
60. Conforme S. PANIZZA, ibidem, 268; R. ROMBOLI, L’introduzione dell’opinione dissenziente nei giudizi costituzionali, cit., 84.
61. Vedi R. ROMBOLI, ibidem, 84; S. PANIZZA, ibidem, 270; L. MENGONI, Intervento, cit., 55 e 56, il quale puntualizza che “nel caso di decisioni di rigetto, l’opinione dissenziente impedisce alla sentenza di assumere valore di precedente … ove fosse sollevata nuovamente la medesima questione, la Corte non potrebbe in nessun modo rigettarla con una ordinanza di manifesta infondatezza. … Nelle sentenze di accoglimento … in quanto comporta un minore consenso sociale alla sentenza, essa non mancherebbe di influire sull’eventuale intervento legislativo diretto a riparare il vuoto aperto dalla pronuncia nell’ordinamento”. Per una concisa esposizione delle diverse decisioni cui può pervenire la Corte costituzionale, v., in particolare, A. CERRI, Sindacato di costituzionalità (ordinamento italiano), in Enc. giur. Treccani, XXVIII, cit., 1993, spec. 13 ss.
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Avv. Fabio Schepis
Laureato in Giurisprudenza ed abilitato all’esercizio della professione forense, ha esercitato per alcuni anni l'attività di Avvocato. Successivamente è stato immesso nei ruoli del Ministero dell’Interno quale vincitore di concorso pubblico, per esami, per Funzionario dell'Amministrazione civile dell'Interno, e presta servizio presso un Ufficio periferico della Polizia di Stato - Dipartimento della Pubblica Sicurezza. Ha approfondito alcuni rami del diritto, specialmente pubblico e giuslavoristico, attraverso il conseguimento di alcuni Master e la frequenza di numerose attività formative. Ha tra l'altro seguito un corso annuale di perfezionamento in Diritto Processuale Penale tenuto dalla Camera Penale presso la Corte di Appello, due corsi Jean Monnet sul diritto italiano e comunitario presso il centro studi universitario "Eurodip - Salvatore Pugliatti" e un seminario sui procedimenti disciplinari nel pubblico impiego presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. Ha inoltre effettuato attività di docenza nei confronti del personale della Polizia di Stato nell'ambito delle attività di formazione ed aggiornamento professionale curate dalla Questura. I settori di competenza riguardano prevalentemente i seguenti rami del diritto: amministrativo, costituzionale, lavoro pubblico, , previdenza e assistenza sociale, salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, gestione del personale e relazioni sindacali, ordinamento e attività istituzionali della Polizia di Stato e del Ministero dell'Interno.
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