La Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica e l’origine del concetto di dignità della persona umana
L’uomo, colto nella sua concretezza storica, rappresenta il cuore e l’anima dell’insegnamento sociale cattolico. Tutta la dottrina sociale si svolge, infatti, a partire dal principio che afferma l’intangibile dignità della persona umana. Mediante le molteplici espressioni di questa consapevolezza, la Chiesa ha inteso anzitutto tutelare la dignità umana di fronte ad ogni tentativo di riproporne immagini riduttive e distorte; essa ne ha, inoltre, più volte denunciato le molte violazioni. La storia attesta che dalla trama delle relazioni sociali emergono alcune tra le più ampie possibilità di elevazione dell’uomo, ma vi si annidano anche i più esecrabili misconoscimenti della sua dignità.
La locuzione «dottrina sociale» risale a Pio XI[1] e designa il corpus dottrinale riguardante temi di rilevanza sociale che, a partire dall’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, si è sviluppato nella Chiesa attraverso il Magistero dei Romani Pontefici e dei Vescovi in comunione con essi. La sollecitudine sociale non ha avuto certamente inizio con tale documento, perché la Chiesa non si è mai disinteressata della società; nondimeno, l’anzidetta enciclica dà l’avvio ad un nuovo cammino: innestandosi su una tradizione plurisecolare, essa segna un nuovo inizio e un sostanziale sviluppo dell’insegnamento in campo sociale. Nella sua continua attenzione per l’uomo nella società, la Chiesa ha accumulato così un ricco patrimonio dottrinale. Esso ha le sue radici nella Sacra Scrittura, specialmente nel Vangelo e negli scritti apostolici, ed ha preso forma e corpo a partire dai Padri della Chiesa e dai grandi Dottori del Medio Evo, costituendo una dottrina in cui, pur senza espliciti e diretti interventi a livello magisteriale, la Chiesa si è via via riconosciuta.
Gli eventi di natura economica che si produssero nel XIX secolo ebbero conseguenze sociali, politiche e culturali dirompenti: gli avvenimenti collegati alla rivoluzione industriale sovvertirono secolari assetti sociali, sollevando gravi problemi di giustizia e ponendo la prima grande questione sociale, la questione operaia, suscitata dal conflitto tra capitale e lavoro. In tale quadro la Chiesa avvertì la necessità di dover intervenire in modo nuovo: le res novae, costituite da quegli eventi, rappresentavano una sfida al suo insegnamento e motivavano una speciale sollecitudine pastorale verso larghe masse di uomini e di donne. Occorreva, invero, un rinnovato discernimento della situazione, in grado di delineare soluzioni appropriate a problemi inconsueti e inesplorati.
I principi permanenti della dottrina sociale della Chiesa costituiscono dunque i veri e propri cardini dell’insegnamento sociale cattolico: il principio della dignità della persona umana è quello nel quale ogni altro principio e contenuto della dottrina sociale trova fondamento: bene comune, sussidiarietà e solidarietà[2].
Per giungere al cuore della trattazione è quanto mai doveroso guardare da una prospettiva laica il concetto di dignità della persona umana non intendendo però questo come una discontinuità concettuale bensì come prosecuzione naturale di quanto affermato dalla Rerum Novarum; questa prospettiva è possibile tenendo in considerazione un documento che richiama fortemente i principi della Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica: la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 la quale postula la convinzione che tutti gli uomini nascano liberi e uguali per dignità “da allora è stata accolta in numerose costituzioni e trattati internazionali”.
La Seconda Guerra Mondiale aveva imperversato dal 1939 al 1945, e verso la sua fine le città di tutta l’Europa e dell’Asia erano ridotte a cumuli di macerie. Milioni di persone erano morte e altri milioni erano prive di casa o morivano di fame. Le armate russe stavano circondando quanto restava della resistenza tedesca bombardando la capitale, Berlino. Nel Pacifico, la marina statunitense stava ancora combattendo contro le forze giapponesi, trincerate su isole come Okinawa. Ed è in questo scenario apocalittico che, nell’aprile del 1945, i delegati di cinquanta paesi si riunirono a San Francisco, dando vita all’Assemblea delle Nazioni Unite sull’Organizzazione Internazionale che aveva lo scopo di costituire un corpo internazionale per promuovere la pace e prevenire guerre future. Gli ideali dell’organizzazione erano asseriti nel preambolo dello statuto proposto: “Noi, popoli delle Nazioni Unite, siamo determinati a preservare le generazioni future dal flagello della guerra, che già due volte nella nostra vita ha portato indicibili sofferenze all’umanità”.
Quindi i rappresentati delle Nazioni si soffermarono a guardare quelle macerie e provarono a ricostruire in modo diverso le sorti del mondo, ricostruendo sul vuoto causato dalla guerra , un vuoto anzitutto valoriale.
E’ in questo scenario che la nuova Commissione delle Nazioni Unite per i Diritti Umani aveva ormai catturato l’attenzione del mondo. Sotto l’attiva presidenza di Eleanor Roosevelt (vedova del presidente Franklin Roosevelt, paladina lei stessa dei diritti umani e delegata degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite) la Commissione decise di redigere il documento che divenne la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Eleanor Roosevelt, sua ispiratrice, parlò della Dichiarazione come della Magna Carta internazionale dell’intera umanità. Essa fu adottata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948.
Ed è proprio nel primo articolo che si definisce la dignità umana in termini di libertà e di uguaglianza: “Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e in diritti”. Si tratta di vedere come questa dignità, che è declinata come libertà e uguaglianza, può essere effettivamente tutelata e promossa nella convivenza umana[3].
Si percepiva chiaramente di partecipare ad un evento storico e veramente significativo, in cui era stato raggiunto un consenso (laico) sul valore supremo della persona umana, un valore che non era originato dalla decisione di un potere terreno, ma piuttosto dall’intrinseca dignità dell’uomo, che ha dato origine al diritto inalienabile di ogni uomo a vivere libero da violenza ed oppressione ed a sviluppare pienamente la propria personalità; per cui l’idea originaria di dignità dell’uomo, pur avendo radici concettuali precristiane ed extracristiane, universalizzata e culturalmente fondante com’è, è dovuta in primo luogo e in particolare al cristianesimo, nonché alla concezione della imago Dei dell’uomo. “Nient’altro che la fede nell’incarnazione di Dio rende più manifesta che la natura dell’uomo in quanto tale abbia parte all’assoluto e ad ogni uomo spetti la più elevata nobiltà che si possa concepire”. Emerge così un quadro quanto mai reale sulla distinzione tra individuo e persona e dunque sul valore della persona che “non va trattata come semplice mezzo, ma sempre come un fine. [Per cui] La persona non può mai essere un mero strumento per realizzare il bene comune”. Si può agevolmente capire come in gioco vi è anche l’elaborazione codificata della categoria dei diritti umani, mai totalmente esplicitati, tutt’altro che pacifici e quindi a loro volta oggetto pure di accese dispute internazionali: “la dignità dell’uomo è una caratteristica originaria, prestatuale dell’uomo, secondo cui egli è soggetto giuridico, vale a dire detentore di diritti. Per cui la dignità dell’uomo non è altro che il “diritto di avere diritti”[3]. Per questo dignità dell’uomo e diritti umani sono intimamente connessi, sia nell’origine che negli esiti.
Per quello che qui più interessa, ovvero il fondamento storicamente e marcatamente cristiano del concetto di dignità umana come l’abbiamo apprezzato e conosciuto nella società occidentale, resta centrale la nozione precedentemente accennata della imago Dei usata nel passo che l’antropologia biblica reputa di centrale importanza, ovvero Gn 1,26-28, lo stesso passo su cui oggi si pone una sfida antropologica epocale. Di contro il Salmo 8, in particolare ai versetti 6 e 7 (“Davvero l’hai fatto poco meno di Dio, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi…”) tende a sottolineare nuovamente quell’inedita – e in parte ancora misteriosa – identificazione tra Dio e l’Uomo che troverà poi il definitivo compimento nel Nuovo Testamento.
Insomma, si tratta di dimostrare come “caricando progressivamente l’ordine giuridico, nei secoli, di elementi del patrimonio ideale cristiano, si è arrivati a inserire il concetto di dignità dell’uomo anche nel diritto, sotto forma di diritti umani o come fondamento e punto di partenza di ciascuno di questi…”. Non vale qui l’obiezione che il cristianesimo riprese semplicemente la sapienza classica pagana in quanto vi sono scritti di figure eminenti dell’antichità, ad esempio Cicerone, che dimostrano come tanto nella celebrata democrazia ateniese quanto nella grande Roma la dignità umana, come la intendiamo noi oggi, era obiettivamente inesistente: invero “per i Romani era inimmaginabile un ordinamento politico che ignorasse le gradazioni sociali esplicite. Neppure il diritto penale poteva essere uguale per tutti: le dimensioni e soprattutto la tipologia e l’esecuzione della pena erano comminate non solo secondo il delitto, ma anche in base alle condizioni sociali del colpevole. Gli honestiores venivano puniti in modo più mite rispetto agli humiliores; ricevevano un trattamento migliore, per via del gradus dignitatis, anche sotto altri aspetti”[3].
Per quanto belle le idee dei filosofi pagani restarono confinate a un ridotto gruppo di intellettuali. Ebbero degli effetti sul piano pratico, come durante il regno dell’imperatore stoico Marco Aurelio, ma non segnarono in profondità la cultura. L’universalizzazione dell’idea di dignità dell’uomo fu riservata al cristianesimo, sia nel senso di una fondazione teorica che in quello di una messa in pratica di tipo culturale, nella vita reale della maggioranza della popolazione, con l’attività e la guida pastorale di ogni giorno.
Con l’incarnazione di Dio in Cristo il concetto di dignità poté essere radicalmente universalizzato, e si aggiunsero le idee dell’umiltà e della grazia divina, la dignità, ora, spettava individualmente ad ogni uomo, e non a causa dell’approvazione sociale, ma esclusivamente sulla base della natura umana in rapporto con Dio[4].
Il problema di oggi pare invece essere – a livello di classi dirigenti, come di gente comune – che tutto questo si dà oramai quasi per scontato senza riconoscere affatto né da dove provenga né quanto sia costato arrivarci. Il discorso è, o dovrebbe essere, particolarmente evidente soprattutto se si guarda alla nascita di quelle istituzioni sorte a specifica salvaguardia e tutela della dignità umana in quanto tale come gli ospedali, le case di cura e gli enti di assistenza socio-sanitaria in generale. Sarà un caso che la gran parte di essi sono stati fondati da esperienze vive della carità cristiana? E, se non è un caso, che cosa dedurne in rapporto all’affermazione del valore della dignità umana a livello sociale in Europa e quindi in Occidente? Per avere un’idea della delicata questione attuale, appare particolarmente significativo l’aspetto legato alla dignità dell’uomo che assume a partire dal rinascimento ove, in seguito ad un nuovo percorso culturale e filosofico, la dignità è stata riposta nell’autonomia dell’uomo: “Noi saremo ciò che vogliamo essere” affermerà Pico della Mirandola.
Questa posizione si è poi radicalizzata fino all’affermazione, nei confronti della Dottrina della Chiesa, di avere promosso la svalutazione del mondo terreno e, che l’uomo, è un essere dotato di assoluta autonomia e decide per sé con la ragione. A ciò Kant ha cercato di dare una fondazione teoretica, affermando che è la ragion pratica a trovare la finalità dell’azione nell’autonomia di ciascun uomo che incontra quella dell’altro. Qui entriamo nel campo più propriamente giuridico: vedere come è stata tutelata la dignità dell’uomo dal diritto nel suo percorso storico.
Con l’Umanesimo e l’avvento dell’Era Moderna vi è stato un capovolgimento culturale profondo. Anche per l’influsso di correnti filosofiche e per la riscoperta della cultura classica, oltre che per situazioni politiche nuove, si è affermato il primato del volere dell’uomo. Sul piano filosofico, contro l’intellettualismo della filosofia scolastica sospettato di assoggettare la persona umana all’ordine della natura, il volontarismo esaltò la volontà dell’uomo[5].Un esempio emblematico è rappresentato dalla Costituzione (Grundgesetz) tedesca, risalente al 1949, ove Martin Schlag – docente di dottrina sociale presso la Pontificia Università della Santa Croce ne rievoca brevemente le premesse: “al termine del regime dispotico nazionalsocialista, il popolo tedesco si diede un catalogo di diritti fondamentali alla cui sommità furono posti la proclamazione dell’intangibilità della dignità dell’uomo e il riconoscimento degli inviolabili e inalienabili diritti umani. Tutto questo aveva il fine di introdurre consapevolmente un nuovo inizio, capace di esprimere con chiarezza che lo Stato è al servizio dell’uomo e non l’uomo al servizio dello Stato. I politici costituenti partirono dal presupposto che i diritti fondamentali sono fondati sulla dignità dell’uomo e sono garantiti – non concessi – dallo Stato in quanto diritti di immediata validità. Si tratta di diritti fondamentali precostituzionali che lo Stato ha il dovere di rispettare. Tutti i partiti della Costituente tedesca avevano familiarità con l’idea di diritto naturale. C’era un vasto consenso sul fatto che i diritti fondamentali si basano su diritti prestatuali, dati dalla natura”[6].
Insomma, nell’immediato Dopoguerra era abbastanza chiaro che la dignità dell’uomo rappresentava il principio costituzionale supremo dell’intero ordinamento giuridico in cui l’essere umano non poteva mai, per nessun motivo, essere ridotto a oggetto o mezzo. Ebbene, in appena pochi decenni, però, la Corte Costituzionale Federale tedesca, cioè l’organismo che avrebbe dovuto garantire il rispetto di quanto sopra esposto, lo ha invece clamorosamente smentito operando di fatto una drammatica disgiunzione tra l’affermazione solenne della dignità dell’uomo, come principio non negoziabile, e il diritto alla vita dell’essere umano più innocente e indifeso in assoluto, il nascituro. Il che ha fatto riemergere come la giustizia sociale, persino nei suoi fondamenti, sia sempre di nuovo da riaffermare – nella teoria come nella pratica – e mai conquistata una volta per tutte.
Per cui, se oggi la dignità umana è ancora sulla bocca di tutti il motivo è da ricercarsi soprattutto nella bi-millenaria storia viva della tradizione cristiana che ci precede e di cui siamo eredi, ci piaccia o no: “sono i Padri della Chiesa a riprendere e valorizzare il concetto disgregato della imago Dei dell’uomo rendendolo un luogo antropologico centrale. È a partire dalle prime riflessioni in ambito greco e latino che riscontriamo un legame tra imago Dei e dignità dell’uomo”[7] ovvero il principio etico-sociale che precede e fonda ogni altro diritto.
Ma la storia non sempre è magistra vitae e purtroppo, oggi, assistiamo inerti ad una interpretazione in chiave utilitaristica dei diritti fondamentali che – come ebbe a dire Benedetto XVI proprio nel Discorso davanti all’Assemblea generale dell’ONU – vengono svincolati dal loro radicamento nella dignità umana, per farne strumento di appagamento di semplici interessi, spesso particolari.
Note
[1]Cfr. Pio XI, Lett. enc. Quadragesimo anno: AAS 23 (1931) 179; Pio XII, nel Radiomessaggio per il 50º anniversario della « Rerum novarum »: AAS 33 (1941) 197, parla di « dottrina sociale cattolica », e nell’Esort. ap. Menti nostrae, del 23 settembre 1950: AAS 42 (1950) 657, di « dottrina sociale della Chiesa ». Giovanni XXIII conserva le espressioni « dottrina sociale della Chiesa » (Lett. enc. Mater et magistra: AAS 53 [1961] 453; Lett. enc. Pacem in terris: AAS 55 [1963] 300-301) o ancora « dottrina sociale cristiana » (Lett. enc. Mater et magistra: AAS 53 [1961] 453), o «dottrina sociale cattolica » (Lett. enc. Mater et magistra: AAS 53 [1961] 454).
[2]Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, Compendio della dottrina sociale della chiesa, Città del Vaticano, 2 aprile 2004. passim.
[1] P. Grossi, L’Europa e il diritto, Laterza 2007, passim.
[3] M. Schlag, La dignità dell’uomo come principio sociale. Il contributo della fede cristiana allo Stato secolare, Roma 2013, p. 26
[4] Ibidem, p. 137
[5] Ibidem, p. 187
[6]J. Habermas, Dopo l’utopia, a cura di W. Privitera, Venezia 1992, passim.
[7]M. Schlag, La dignità dell’uomo come principio sociale. Il contributo della fede cristiana allo Stato secolare, Roma 2013, p.247
[8] M. Schlag, La dignità dell’uomo come principio sociale. Il contributo della fede cristiana allo Stato secolare, Roma 2013, p.267; Cf. Documento della Commissione Teologica Internazionale su un’etica universale.
Bibliografia
Benedetto XVI, Discorso del 18 aprile 2008 davanti all’Assemblea generale dell’ONU.
Compendio della dottrina sociale della chiesa, Città del Vaticano, 2 aprile 2004.
Documento della Commissione Teologica Internazionale su un’etica universale.
Grossi, L’Europa e il diritto, Laterza 2007.
Habermas, Dopo l’utopia, a cura di W. Privitera, Venezia 1992.
Schlag, La dignità dell’uomo come principio sociale. Il contributo della fede cristiana allo Stato secolare, Roma 2013.
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Angelo Alessio Nicchi
Classe 1990.
Laureato presso Libera Università Maria Santissima Assunta (LUMSA).
Praticante Avvocato e Consulente Legale.
Segretario del Consiglio Pastorale Diocesano dell' Arcidiocesi di Monreale.
Docente di Diritto Canonico presso Scuola di Teologia di Base Dell'Arcidiocesi di Monreale.
Già Assessore, Consigliere Comunale e presidente di Commissione Consiliare "Regolamenti, Statuto e Servizi sociali" presso il Comune di Cinisi (PA).