La durata massima della misura di sicurezza detentiva conseguente alla declaratoria di abitualità
La presente questione[1] trae spunto da una recente ordinanza emessa dal Magistrato di Sorveglianza di Udine in data 22 marzo 2018 (dep. 27 marzo 2018), Est. Fiorentin.
Si tratta di un interessante provvedimento nel quale viene affrontata una questione di non poco momento relativa ai criteri per individuare il termine massimo della misura di sicurezza della casa di lavoro anche, come si vedrà, in un’ottica di rispetto convenzionale e costituzionale.
Il caso riguarda un internato, dichiarato dal Magistrato di Sorveglianza di Viterbo delinquente abituale ai sensi dell’art. 103 cod. pen. ed inizialmente sottoposto alla misura di sicurezza della casa di lavoro per il periodo minimo di anni 2 (due); successivamente prorogata per il periodo minimo di anni uno.
Ebbene, allo scadere dei primi due anni, l’internato chiedeva l’immediata scarcerazione poiché essendo la declaratoria di abitualità del reato fondata su un richiamo generico dei precedenti commessi, sarebbe mancato un reato sul quale operare la parametrazione, con la conseguenza che la durata massima della misura doveva essere individuata nel termine di due anni[2].
Tale approdo interpretativo conseguirebbe ad una lettura costituzionalmente orientata della norma di cui all’art. 217 cod. pen., in forza della quale, laddove la evocata disposizione stabilisce che, in caso di abitualità, la durata minima è di due anni, dovrebbe leggersi come se dicesse “la durata massima della misura” stessa è, appunto, di due anni.
Diversamente argomentando, secondo la predetta tesi, si porrebbe un insanabile contrasto della normativa con la Convenzione EDU atteso che una carcerazione di durata potenzialmente illimitata integra una detenzione inumana e degradata sotto l’aspetto dell’art. 3 della Convenzione[3].
Del resto, anche la Corte costituzionale, con l’arresto n. 274/2009, ha constatato che le misure di sicurezza possano «risultare, in concreto, di gran lunga più afflittive della pena irrogata con una sentenza di condanna».
La predetta tesi appare certamente suggestiva ed è confortata dalla considerazione che l’art. 1, comma 1-quater, del d.l. 52/2014, individua nella pena massima edittale per il reato più grave il parametro sulla cui base calcolare la durata massima della misura ma, come sopra già rappresentato, nel caso in questione l’interessato è stato dichiarato delinquente abituale con generica declaratoria[4].
Tanto premesso, deve però subito evidenziarsi che l’art. 217 cod. pen. (“Durata minima”) recita: «L’assegnazione a una colonia agricola o ad una casa di lavoro ha la durata minima di un anno. Per i delinquenti abituali, la durata minima è di due anni (…)».
Già quindi la dizione letterale della disposizione in esame sembra chiaramente lontana dall’interpretazione costituzionalmente orientata proposta dall’internato secondo cui laddove non sia possibile adottare un criterio di parametrazione certo in ordine al termine di durata massima della misura, occorra interpretare la detta disposizione assumendo il termine minimo di durata della casa di lavoro (anche) come termine massimo di durata della stessa.
Invero, la norma contiene un inequivoco riferimento letterale al limite “minimo” di due anni previsto ai fini della misura di sicurezza detentiva applicabile.
La questione, allora, concerne la legittimità dell’assetto normativo emergente dalla riforma introdotta dal d.l. 52/2014 nella parte in cui non stabilisce la durata massima della misura di sicurezza detentiva della casa di lavoro e della colonia agricola.
Il decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52, recante disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, all’art. 1, comma 1-quater, come convertito dalla legge n. 81 del 30 maggio 2014, prevede: «Le misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima. Per la determinazione della pena a tali effetti si applica l’articolo 278 del codice di procedura penale. Per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo non si applica la disposizione di cui al primo periodo».
La regola sancita dalla citata disposizione stabilisce dunque che ai fini della determinazione del tetto massimo temporale di esecuzione della misura di sicurezza detentiva, debba individuarsi la pena edittale massima per il reato commesso, avuto riguardo ai criteri di cui all’art. 278 cod. proc. pen[5].
Nessun dubbio può aversi circa il fatto che l’art. 1, comma 1-quater, del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52, ove dispone che: «Le misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva [massima] prevista per il reato commesso» si applichi a tutte le misure di sicurezza detentive.
Le “residenze” costituiscono, infatti, le strutture sanitarie dove, a partire dal 31 marzo 2015, trovano esecuzione le misure di sicurezza del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario e del ricovero in una casa di cura e di custodia (art. 3-ter del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211, recante «Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 17 febbraio 2012, n. 9), ed è perciò del tutto ovvio che tale specificazione sta ad indicare che la norma non disciplina esclusivamente la durata massima dell’internamento presso tali “residenze“, ma ha un contenuto più ampio[6].
In buona sostanza, il legislatore, per superare il triste fenomeno del protrarsi sine die dei ricoveri, giornalisticamente definito, in maniera invero toccante, “ergastolo bianco”, ha individuato un termine massimo di tutte le misure di sicurezza detentive, termine in precedenza non previsto dall’ordinamento, parametrandolo sul limite massimo di pena detentiva prevista, in linea astratta, per il fatto commesso.
I primi commentatori hanno opportunamente messo in rilievo alcuni dei rilevanti problemi che la nuova normativa senza dubbio pone, sia quanto al profilo teorico-sistematico relativo alla giustificazione delle misure di sicurezza quali autonome sanzioni penali (ora rapportate alla durata stabilita in astratto per le pene detentive, e non più alla concreta pericolosità sociale dell’agente), sia quanto al profilo della tutela della collettività (la nuova disciplina consente, come detto, allo spirare del termine di durata massima della misura di sicurezza detentiva, di mettere in libertà gli internati ancora socialmente pericolosi), sia, ancora, in ordine al profilo di diritto intertemporale relativo all’applicabilità della nuova disciplina alle misure in esecuzione al momento della sua introduzione sia, infine, a proposito della determinazione del termine massimo di durata della misura di sicurezza qualora l’internato abbia commesso più reati (posto che il richiamo della regola stabilita dall’art. 278 cod. proc. pen. per la determinazione della pena ai fini dell’applicazione della custodia cautelare in carcere fa sì che non si possa considerare la continuazione[7]).
Ciò posto, con riguardo a quest’ultimo aspetto, si rileva che la particolarità del caso in esame deriva anche dalla circostanza, affatto trascurabile, secondo cui l’internato è stato dichiarato delinquente abituale ai sensi dell’art. 103 cod. pen. poiché condannato per avere commesso un terzo delitto non colposo dopo essere stato precedentemente condannato per la commissione di due delitti non colposi.
L’ordinanza emessa dal Magistrato di Sorveglianza di Viterbo, tuttavia, non specifica quali condanne siano state ritenute rilevanti ai fini della relativa declaratoria, limitandosi ad un generico rinvio al certificato penale, dal quale però emerge che l’internato «ha riportato otto condanne per detenzione di armi, associazione per delinquere (del 1983), ricettazione, minaccia, violazione l. stupefacenti, evasione tentato omicidio e associazione per delinquere di stampo mafioso (…)».
In questo caso, pertanto, considerato anche l’alto numero di reati commessi è necessario individuare quello la cui pena deve fungere, nel suo massimo, da parametro per l’individuazione del limite temporale di applicazione della misura di sicurezza detentiva.
Il Magistrato ipotizza, quindi, una serie di soluzioni all’intricato problema, di seguito ripercorse.
Si legge nell’ordinanza che «Una possibile soluzione, considerato che nella fattispecie vengono in linea di conto una pluralità di condanne (e quindi di fatti-reato), potrebbe individuarsi nell’indicazione offerta dall’art. 278 cod. proc. pen., che esclude, ai fini del calcolo che qui interessa, l’istituto della continuazione. Tale esclusione, letta in bonam partem, porterebbe a identificare il limite per l’applicazione della misura di sicurezza nel massimo edittale previsto per il delitto più grave senza procedere, quindi, ad alcun ulteriore aumento, secondo il principio di assorbimento che appartiene alla complessiva disciplina delle misure di sicurezza (si veda, al proposito, la disciplina di cui all’art. 209 cod. pen., in tema di persona giudicata per più fatti)».
Sorge, tuttavia, l’ulteriore problema dato dal fatto che «il concorso di reati non è richiamato (e, dunque, neppure escluso) dall’art. 278 cod. proc. pen., del che dovrebbe, quindi, trovare applicazione la disciplina ordinaria di cui agli artt. 80 e 81, comma 1, cod. pen., con conseguente individuazione del limite massimo di applicazione della misura di sicurezza detentiva mediante il ricorso ai criteri di calcolo del cumulo materiale (per il concorso materiale) e del cumulo giuridico (per il concorso formale)».
Ma tale ipotesi ermeneutica risulterebbe, tuttavia, irrazionale atteso che si prevedrebbe, per il caso di concorso formale, un regime molto più rigoroso di quello stabilito per il reato continuato, con conseguenti profili di illegittimità costituzionale sotto il profilo della violazione dell’art. 3, Cost.
Pertanto, l’unica ipotesi interpretativa plausibile e costituzionalmente percorribile «si palesa quella dell’applicazione analogica del principio dell’assorbimento previsto dal già evocato art. 209 cod. pen.»[8] anche con riferimento alla durata massima della misura.
In quanto analogia favorevole, infatti, non vi sono ostacoli all’applicazione dell’assorbimento previsto dall’art. 209 cod. pen., anche se non può sottacersi l’esistenza di qualche perplessità circa l’effettiva presenza dell’identità di ratio. Del resto, l’art. 278 cod. proc. pen. è norma dettata in materia di misure cautelari, e dunque non necessariamente in piena sintonia con la logica delle misure di sicurezza.
L’applicazione dell’art. 209 c.p. comporta comunque, con riferimento al caso della misura di sicurezza detentiva conseguente alla declaratoria di abitualità, che non opererà il cumulo di pene, bensì il limite massimo di applicazione sarà individuato facendo riferimento al massimo edittale predisposto per il (solo) reato più grave.
Nel caso in esame, tra le condanne rilevanti ai fini della intervenuta declaratoria di abitualità nel reato ex art. 103 cod. pen., la pena edittale massima più alta è quella per il reato di cui all’art. 416 cod. pen. ed è su tale pena – considerata nel suo massimo edittale e avuto riguardo alla previsione generale dell’art. 278 cod. proc. pen. – che il Magistrato ha parametrato il termine di durata massima della misura di sicurezza detentiva in esecuzione.
In conclusione, l’ordinanza in questione ha comunque il pregio di praticare una soluzione ermeneutica convincente e compatibile con l’impianto costituzionale che scongiura anche i rischi di una violazione dei principi convenzionali sotto il profilo dell’assenza di un termine certo di durata massima della misura di sicurezza detentiva in corso di esecuzione.
[1] Giacomo Romano, La durata massima della misura di sicurezza detentiva conseguente alla declaratoria di abitualità, Gazzetta Forense n. 4, Giapeto Editore, Napoli, 2018.
[2] La sentenza costituzionale n. 83/2017, pronunciandosi sulla disposizione dell’art.1, comma 1-quater, d.l. 52/2014, ha stabilito che per tutte le misure di sicurezza detentive – compresa dunque la casa di lavoro – sussiste un limite massimo di durata, che deve essere parametrato sul massimo della pena edittale per il reato commesso.
[3] La Corte di Strasburgo, nel caso Jendrowiak, ha statuito che una carcerazione di durata potenzialmente illimitata integra una detenzione inumana e degradata sotto l’aspetto della evocata disposizione della Convenzione. E ancora, citando il caso M. c. Germania, la Corte EDU ha rilevato come la mancanza di un termine espresso di durata massima della misura di sicurezza celasse un intento punitivo anziché preventivo, poiché, se la finalità della misura di sicurezza è la cura e il recupero sociale dell’individuo, si dovrebbe prevedere un termine per il rientro dello stesso nella società civile. La Corte europea ha, inoltre, accertato, con riguardo all’ordinamento tedesco, una violazione dell’art. 7 CEDU rilevando che le misure di sicurezza tedesche costituiscono in realtà delle vere e proprie pene.
[4] Per completezza si evidenzia che l’ordinanza del Magistrato di Sorveglianza di Viterbo fonda la prognosi di pericolosità sociale dell’interessato desunta dal profilo criminologico del soggetto, desumibile dalle numerose condanne subite; dall’inefficacia di precedenti misure di prevenzione applicate nei suoi confronti a contenerne la capacità a delinquere; dalla accertata appartenenza dell’internato al “clan” omonimo, che ha contribuito a fondare; dall’assenza di elementi dai quali ritenere che egli si sia distaccato in qualche modo dal contesto mafioso di appartenenza. L’internato è, altresì, sottoposto al regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis, ord.pen. attesa la persistente vitalità del sodalizio criminale nell’ambito territoriale in cui è radicato; l’assenza di elementi dai quali evincere un mutamento del ruolo e della posizione del detenuto all’interno del clan; la circostanza che il decorso del tempo non ha comportato significativi mutamenti della situazione. Invero, l’interessato è autore di numerosi reati e destinatario, fin dal 1996, di provvedimenti restrittivi dell’autorità giudiziaria. Egli è considerato pienamente organico al clan malavitoso di appartenenza nell’ambito del quale riveste il ruolo di promotore, come accertato in uno dei provvedimenti di condanna.
[5] La norma, scritta per determinare la durata massima delle misure cautelari, stabilisce che si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato; non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, fatta eccezione della circostanza aggravante prevista al numero 5) dell’articolo 61 c.p. e della circostanza attenuante prevista dall’articolo 62 n. 4 c.p., nonché delle circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale.
[6] La Corte costituzionale, con la sentenza n. 83/2017, ha affermato che «l’art. 1, comma 1-quater, del d.l. n. 52 del 2014 è diretto a porre fine al fenomeno dei cosiddetti ergastoli bianchi (sentenza n. 22 del 2017), che si verificava nelle ipotesi in cui a una condanna a pena anche lieve seguiva, in caso di persistente pericolosità sociale, un internamento tendenzialmente senza fine. Si tratta di una situazione che, almeno astrattamente, si sarebbe potuta concretizzare anche con riguardo alle misure di sicurezza detentive diverse dal ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e in una casa di cura e di custodia, e alla quale il legislatore ha inteso in ogni caso porre fine».
[7] Per gli aspetti più problematici del rinvio in questione v. G. L. Gatta, Aprite le porte agli internati! Un ulteriore passo verso il superamento degli OPG e una svolta epocale nella disciplina delle misure di sicurezza detentive: stabilito un termine di durata massima (applicabile anche alle misure in corso, a noi pare), in www.penalecontemporaneo.it, 6 giugno 2014; M. Pelissero, Ospedali psichiatrici giudiziari in proroga e prove maldestre di riforma della disciplina delle misure di sicurezza, in Dir. pen. proc., 2014, f. 8, p. 922 ss.; G. Balbi, Infermità di mente e pericolosità sociale fra OPG e REMS, in www.penalecontemporaneo.it, 20 luglio 2015, pp. 11 ss.
[8] Secondo cui «Quando una persona ha commesso (…) più fatti per i quali siano applicabili più misure di sicurezza della medesima specie, è ordinata una sola misura di sicurezza».
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Avv. Giacomo Romano
Ideatore e Coordinatore at Salvis Juribus
Nato a Napoli nel 1989, ha conseguito la laurea in giurisprudenza nell’ottobre 2012 con pieni voti e lode, presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II, discutendo una tesi in diritto amministrativo dal titolo "Le c.d. clausole esorbitanti nell’esecuzione dell’appalto di opere pubbliche", relatore Prof. Fiorenzo Liguori. Nel luglio 2014 ha conseguito il diploma presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università degli Studi di Napoli Federico II. Subito dopo, ha collaborato per un anno con l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli occupandosi, prevalentemente, del contenzioso amministrativo. Nell’anno successivo, ha collaborato con uno studio legale napoletano operante nel settore amministrativo. Successivamente, si è occupato del contenzioso bancario e amministrativo presso studi legali con sede in Napoli e Verona. La passione per l’editoria gli ha permesso di intrattenere una collaborazione professionale con una nota casa editrice italiana. È autore di innumerevoli pubblicazioni sulla rivista “Gazzetta Forense” con la quale collabora assiduamente da giugno 2013. Ad oggi, intrattiene collaborazioni professionali con svariate riviste di settore e studi professionali. È titolare di “Salvis Juribus Law Firm”, studio legale presso cui, insieme ai suoi collaboratori, svolge quotidianamente l’attività professionale avendo modo di occuparsi, in particolare, di problematiche giuridiche relative ai Concorsi Pubblici, Esami di Stato, Esami d’Abilitazione, Urbanistica ed Edilizia, Contratti Pubblici ed Appalti.
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