La fattispecie tentata dell’art. 73 d.P.R. 309/1990 e l’aggravante dell’ingente quantità
1. Brevi cenni sul delitto tentato
Il nostro ordinamento prevede all’art. 56 c.p. la fattispecie del delitto tentato, che si configura autonoma ipotesi di reato e, come tale, non può essere considerata una circostanza attenuante, non soggiacendo, quindi, al giudizio di bilanciamento con eventuali circostanze aggravanti. La prima osservazione, in relazione a questo istituto, è la seguente: il tentativo non riguarda le contravvenzioni ma soltanto i delitti; tale circostanza, trova conferma nella dizione letterale del c.p.[1]. Due sono gli elementi, desumibili dalla lettura del dettato normativo, che costituiscono il delitto tentato: 1. l’idoneità degli atti; 2. la non equivocità degli stessi. In relazione al primo requisito cui all’art. 56 c.p., secondo consolidata giurisprudenza di legittimità[2], l’idoneità degli atti deve essere valutata con giudizio ex ante, cioè nel momento in cui viene posta in essere la condotta, tenendo conto: delle circostanze in cui opera l’agente e delle modalità dell’azione, così da determinare la reale adeguatezza causale e l’attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice, indipendentemente dall’insuccesso determinato poi da fattori estranei all’agente. Infatti, se la valutazione della idoneità venisse compiuta ex post, non si configurerebbe mai tentativo punibile, poiché, in assenza di azione nei reati di mera condotta, ed in assenza di evento nei reati ad evento naturalistico, si avrebbe sempre la prova della idoneità degli atti compiuti. Il concetto di “idoneità”, come da unanime dottrina, deve essere letto in senso oggettivo: si ritengono idonei quegli atti che presentano un potenziale offensivo che non si è però realizzato per cause indipendenti, estranee alla volontà del reo. Pertanto, pur non realizzandosi la fattispecie delittuosa (c.d. delitto consumato) questi atti idonei sfociano, comunque, in una situazione di pericolo per il bene tutelato dalla norma. Per quanto concerne il secondo essenziale elemento, dottrina e giurisprudenza concordano sul fatto che, gli atti idonei possono considerarsi “diretti in modo non equivoco a commettere un delitto”, quando, per il grado di sviluppo raggiunto, lasciano prevedere come verosimile la realizzazione del delitto voluto. Inoltre, il giudizio di non equivocità deve riferirsi non all’ultimo degli atti posti in essere, bensì a tutti gli atti facenti parte del disegno criminoso, ovvero agli atti legati da contestualità e connessione teleologica. Per quanto riguarda l’elemento soggettivo è certo che il tentativo richieda il dolo, nella sua forma più “forte”, ovvero il dolo diretto; sul punto la Suprema Corte ha affermato che “nel delitto tentato il dolo deve essere diretto, in quanto soltanto da tale specie di elemento psicologico, non realizzandosi alcun evento, è possibile dedurre l’inequivoca direzione degli atti concretizzati dall’agente verso l’evento non realizzatosi per cause indipendenti dal suo comportamento, così come espressamente voluto dal legislatore con l’espressione – diretti in modo non equivoco a commettere un delitto – usata nel comma 1 dell’art. 56 c.p. per qualificare gli atti, già di per sé idonei, posti in essere dall’agente del delitto tentato”[3].
2. L’ipotesi tentata dell’art. 73 D.P.R. 309/1990
Per meglio analizzare la questione, occorre in via principale comprendere l’esatto momento consumativo del reato cui all’art. 73 D.P.R 309/1990. Due i principali orientamenti giurisprudenziali creatisi sul punto:
una parte della giurisprudenza di legittimità, ed in particolar modo la sentenza della Cassazione n.44621/2005[4], è conforme nell’affermare il principio della non necessarietà della traditio dell’illecito compendio, per la consumazione del reato di cessione e correlativo acquisto di sostanze stupefacenti. La consegna del bene è, infatti, ritenuta un post-factum non punibile, atteso che, per il perfezionamento dell’illecito, in presenza di un accordo di volontà convergenti su un oggetto e su una causa, la consegna della cosa non assume nessuna funzione costitutiva della fattispecie. In questo modo si anticipa il momento consumativo del reato cui all’art. 73, correlando tale scelta all’indubbio fine di tutela della salute pubblica, fine che, tra l’altro, risulta già assolto dalla previsione di una rilevanza penale, a titolo di reato consumato, di situazioni normalmente idonee a venire in considerazione in termini di tentativo, quali la messa in vendita e l’offerta[5] (ravvisabili anche senza un rapporto materiale tra l’agente e la sostanza stupefacente). Da questi elementi si ricava la non configurabilità del tentativo di cessione.
a parere del secondo orientamento, ed in particolare con la sentenza di Cassazione, I, 1 giugno 1998, n.10460, per dirsi consumato il reato di acquisto cui all’art. 73 D.P.R. 309/1990 non basta l’accordo verbale tra le parti, ma è necessaria l’effettiva traditio della sostanza dal venditore all’acquirente o fra persone di rispettiva fiducia.
Pur dovendo riconoscere che il bene tutelato dalla norma è la salute collettiva e che, per tale motivo, va sanzionata la messa in pericolo della stessa, non può accettarsi lo stravolgimento interpretativo operato nei confronti di una condotta specifica che, da punibile in funzione della sua effettiva materialità, è divenuta punibile esclusivamente sotto il profilo formale. Anzi, proprio il fatto che la tutela della salute è fine informatore della legge in esame, appare necessario contrastare una messa in pericolo concreta (e non meramente teorica) di tale bene giuridico. Vale a dire che, non può proseguirsi nell’apprezzamento di situazioni di pericolo astratto, come avviene, invece, con l’anticipazione del momento di punizione delle condotte descritte dall’art. 73 D.P.R. 309/1990. A contrario, si deve osservare, invece, che all’indicato scopo, maggior profitto può trarsi, laddove si possa intervenire, togliendo dal mercato non solo personaggi che delinquono, quanto piuttosto (soprattutto) quantitativi di stupefacenti, sì da fare crollar l’offerta illecita. Va, infatti, ribadito che l’anticipazione temporale della soglia di punibilità della condotta si risolve in una mera presunzione di colpevolezza svincolata da un accertamento concreto della sussistenza effettiva dell’illecito. La condotta punibile di cessione (e correlativa di acquisto) implica, invece, una preliminare verifica probatoria rigorosa e sicura che il soggetto venditore abbia la effettiva disponibilità della sostanza oggetto del negozio di alienazione.
3. La compatibilità tra delitto tentato e circostanze del reato:
La questione è stata per lungo tempo al centro di discussioni, sia dottrinali che giurisprudenziali; in proposito vengono in rilievo due figure: IL DELITTO TENTATO CIRCOSTANZIATO: qualora le circostanze accompagnino il delitto; Il DELITTO CIRCOSTANZIATO TENTATO: quando sono posti in essere atti idonei e diretti a commettere un reato circostanziato. Il delitto tentato circostanziato concreta l’ipotesi nella quale l’agente ha posto in essere atti idonei diretti in modo non equivoco alla commissione di un delitto, accompagnato dalla presenza di elementi circostanziati aggravanti o attenuanti. Il fondamento sostanziale di questo istituto si rinviene:
nella conformità al principio di offensività e di individuazione dell’illecito;
nel principio di uguaglianza che verrebbe violato ove venissero equiparate le ipotesi del delitto tentato semplice e del delitto tentato accompagnato dall’effettiva integrazione di elementi circostanziali;
nel principio di personalità della responsabilità penale ai sensi dell’art. 27, comma 1, Cost.;
dal conseguente principio di proporzionalità della sanzione alla complessiva gravità del fatto concretamente posto in essere (non sarebbe, infatti, possibile sostenere che il legislatore abbia graduato il trattamento sanzionatorio ex art. 133 c.p. per il delitto perfetto e non per quello semplicemente tentato).
Per questa serie di considerazioni, non vi è alcun ostacolo all’ammissibilità del tentativo circostanziato di delitto. La circostanza si realizza integralmente accompagnando gli atti del tentativo. In tal caso, l’unico aspetto meritevole di verifica riguarda la compatibilità con le singole circostanze, essendovi, infatti, incompatibilità con quelle che presuppongono la consumazione del reato, o perché suscettibili di sussistere in una fase precedente, o perché prescindono dalla consumazione. Più discussa, invece, è la figura del delitto circostanziato tentato, dal momento che la circostanza attiene al momento perfezionativo del reato e, dunque, non viene materialmente ad esistenza. Giova, a tal punto, ricordare che il nostro ordinamento non conosce la figura del tentativo di circostanza. Sul piano dell’astratta configurabilità giuridica si da atto di una tesi negativa secondo la quale, il tentativo di delitto circostanziato sarebbe inammissibile in quanto nessuna previsione legislativa accorda rilievo a circostanze tentate ed, inoltre, l’art. 59, commi 1 e 2, c.p. prendendo in considerazione soltanto le circostanze effettivamente presenti, non da rilevanza, non solo al putativo (ovvero a ciò che l’agente vi riteneva vi fosse), ma neppure all’ipotetico (ciò che vi sarebbe stato se si fosse avuta la consumazione). Invero, l’art. 56 c.p. limita la sua applicazione alle fattispecie delittuose, laddove nessuna previsione da rilievo a circostanze tentate o al tentativo di circostanza (fattispecie del quale sono, inoltre, completamente sconosciuti i fattori strutturali), onde l’imputazione della circostanza ne presupporrebbe la concreta realizzazione. Secondo la prevalente giurisprudenza, questa figura è ammessa allorché, in base ad un giudizio prognostico, si accerti che l’azione criminosa sarebbe sfociata in un delitto circostanziato; ciò è in particolare ipotizzabile nel caso delle circostanze intrinseche. In tal caso, il rispetto del principio di legalità sarebbe garantito dalla funzione estensiva dell’art. 56 c.p., sostenendo che, con la previsione di “atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto”, si farebbe riferimento anche ai delitti circostanziati. Le circostanze, infatti, sono una forma di manifestazione del reato (circostanze comuni), oltre che singoli reati (circostanze speciali), sicché nessuna preclusione può derivarne rispetto al delitto tentato ogni qualvolta il reato e la circostanza siano compatibili da un punto di vista logico-giuridico con la struttura del tentativo. L’operazione da compiere si sostanzia nel verificare se gli atti sono idonei ed univocamente diretti a realizzare un delitto circostanziato, attraverso l’esame delle concrete modalità del fatto. I principi costituzionali di uguaglianza, personalità della responsabilità penale e finalità rieducativa della pena, valgono anche per l’ipotesi in esame, pena un’ingiustificabile disparità, posto che una diversa soluzione porterebbe a risultati contrari al principio di uguaglianza, in quanto l’entità della pena determinata dall’esistenza della circostanza varia a seconda che essa sia riferita ad una fattispecie tentata o consumata: l’aumento di pena è, infatti, in rapporto proporzionale all’entità della pena base.
4. Il rapporto tra il reato di tentata cessione di sostanze stupefacenti e la circostanza aggravante dell’ingente quantità cui all’art. 80, comma 2, d.p.r. 309/1990
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità, in due successive sentenze[6], ha affermato che, dal momento che la disciplina del reato tentato coinvolge tutti gli aspetti della tipicità, compresi quelli inerenti alle circostanze, è configurabile, in materia di delitti concernenti gli stupefacenti, l’aggravante di cui all’art. 80, comma 2, D.P.R. 309 del 1990, allorché vi sia prova che, se l’operazione illecita di traffico di droga fosse riuscita, essa avrebbe riguardato un quantitativo ingente di sostanza. Nella prima sentenza (Cassazione n. 2631/2006), i ricorrenti deducevano l’erronea applicazione della legge penale in relazione alla configurazione dell’aggravante di cui al D.P.R. 309/1990, art. 80, comma 2, dal momento che i giudici di merito:
non avevano considerato che la somma inquestione ben avrebbe potuto essere destinata in parte a fini anche illeciti, ma non afferenti all’acquisto di droga;
secondo i ricorrenti, si era in presenza non di un tentativo circostanziato di delitto, ma di tentativo di delitto circostanziato; la mancata prova della compiuta concretizzazione del fatto che integra l’aggravante in questione, infatti, escludeva la possibilità di applicare il relativo aumento di pena.
Con altro motivo, i ricorrenti aggiungevano che non vi era la prova concreta in relazione al quantitativo di droga oggetto delle trattative, potendo, pertanto, essere anche di non ingente quantità. La Corte, richiamando una risalente questione risolta in modo sostanzialmente univoco dalla giurisprudenza di legittimità, ha affermato che nel senso che non vi sono ostacoli a considerare la possibilità di configurare una fattispecie tentata, in cui figuri una circostanza parimenti tentata e, quindi, non ancora compiutamente realizzatasi, come nel caso di specie; infatti:
da un lato, dagli 56 e 59 c.p. non si può trarre alcun argomento da cui
desumere che la disciplina del tentativo sia inerente al solo reato base;
dall’altro lato, è razionale che la ponderazione della gravità dell’illecito sia rapportata anche alla configurazione che il fatto e l’offesa avrebbero assunto nel caso in cui il delitto fosse stato portato a compimento; è evidente che, l’opposta soluzione condurrebbe a risultati contrarti al principio di uguaglianza, determinando, così, ad esempio, l’irrogazione della medesima pena, sia nel caso in cui fosse tentato un furto semplice, sia in quello di un bene di grande valore.
inoltre, l’entità della pena, determinata dall’esistenza della circostanza, varia a seconda che essa sia riferita ad una fattispecie consumata o tentata: l’aumento di pena, infatti, è in rapporto proporzionale all’entità della pena base.
Naturalmente, la Corte ha sottolineato l’importanza che le modalità del fatto forniscano concrete ed univoche indicazioni sull’entità del pregiudizio che si sarebbe determinato nel caso in cui l’illecito fosse stato portato a compimento[7]; nel caso oggetto d’esame, quindi, la circostanza aggravante tentata cui all’art. 80, comma 2, è configurabile laddove se l’operazione illecita inerente al traffico di droga fosse stata realizzata, essa avrebbe riguardato un quantitativo ingente di sostanza. Sul punto, la Corte nella presente pronuncia, ha rigettato il motivo di gravame affermando che:
l’entità ingente della sostanza stupefacente si desumesse dal grosso impegno finanziario che aveva comportato (circa 300 milioni di lire);
il danaro esportato fosse destinato ad una specifica operazione illecita, non portata a compimento a causa dell’accidentale sequestro delle banconote presso la banca in cui erano state provvisoriamente depositate;
il fatto che dal danaro investito derivasse l’acquisto di molti chili di droga è argomentato implicitamente, utilizzando le informazioni di comune esperienza sui prezzi d’acquisto all’ingrosso dello stupefacente in questione (cocaina).
Nella sentenza della Cassazione n. 6012/2016, la Corte nel rigettare il motivo di gravame, in forza del quale il ricorrente aveva sostenuto l’incompatibilità dell’aggravante cui all’art. 80 comma 2, con l’ipotesi di tentativo di spaccio, ha ribadito:
in prima battuta, che lo schema dell’art. 56 c.p. non fa esclusivo riferimento alla categoria del reato semplice, potendo quindi essere ricompresa anche quella del reato circostanziato;
che, proprio sulla base del nutrito compendio indiziario emergente nel caso in esame, l’operazione di importazione riguardasse una quantità di sostanza stupefacente da considerare ingente.
In particolare, questa Corte ha affermato che non tener conto, sulla base delle modalità del fatto e di un giudizio ipotetico, che la sostanza stupefacente fosse in quantitativo ingente, porterebbe a risultati contrari al principio di uguaglianza, posto che si irrogherebbe la medesima pena, sia nel caso in cui fosse tentata una condotta di illecita cessione di un modestissimo quantitativo di stupefacente, sia in quello in cui l’attività criminosa riguardasse un ingente quantitativo di droga.
5. Un caso specifico di tentativo dell’art. 73 D.P.R. 309/1990: l’ importazione di sostanza stupefacente
Come sostenuto dalla giurisprudenza[8], per aversi tentativo punibile in caso di importazione di sostanza stupefacente, è necessario che l’attività preparatoria, per il grado di sviluppo raggiunto, lasci prevedere come verosimile la realizzazione del delitto voluto. È necessario, quindi, ai fini della configurazione dell’ipotesi tentata, la presenza di un grave quadro indiziario di tentativo di importazione, aderendo, così espressamente, all’indirizzo giurisprudenziale secondo cui il reato è consumato allorché vi siano elementi tali da ritenere che vi sia stata l’autonoma disponibilità all’estero dello stupefacente ancora da trasportare. Invero, sul punto è bene ricordare che la Corte[9], proprio con riferimento al delitto di importazione di sostanza stupefacente, ha stabilito che per la consumazione del delitto non è sufficiente la mera conclusione dell’accordo finalizzato all’importazione dello stupefacente, ma è necessaria l’acquisizione dell’autonoma detenzione della droga da parte dell’importatore, la quale si realizza anche attraverso l’assunzione da parte di quest’ultimo della gestione dell’attività volta all’effettivo trasferimento dello stupefacente nel territorio nazionale. A tale indirizzo si è conformata la sentenza di Cassazione, n. 35643 del 13.6.2012, Prevete, affermando la sussistenza del tentativo di importazione in una vicenda in cui, dagli elementi probatori, risultava una trattativa, pressoché perfezionata, tra venditori sudamericani e compratori italiani, essendo già stato fissato quantità e prezzo della sostanza stupefacente.
[1] Art. 56 comma 1 c.p.: “chi compie atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica”.
[2] Cfr. Cass. Sez. 6, n. 27323 del 20/05/2008; Cass. Sez. 5, n. 43255 del 24/09/2009; Cass. Sez. 2, n. 41649 del 05/11/2010; Cass. Sez. 2, n. 46776 del 20/11/2012.
[3] Cfr. Cass., Sez. I, 17 marzo 1995 – 28 aprile 1995, n. 1639.
[4] Cfr. Cass. pen., Sez. IV, 7 dicembre 2005, n. 44621.
[5] Cfr. Sez. 4, Sentenza n. 44621 del 10/03/2005: “Qualora tra acquirente e venditore della sostanza stupefacente non si raggiunga l’accordo sulla quantità e qualità della sostanza e sul prezzo da pagare, a carico del venditore è ravvisabile il reato consumato di messa in vendita di sostanza stupefacente, e non invece quello di tentata vendita. Quest’ultima figura, infatti, non è concettualmente configurabile, avendo il legislatore, nell’articolo 73 D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, anticipato, quanto alla vendita ed alla cessione di sostanza stupefacente, la soglia di punibilità con la previsione delle condotte di messa in vendita e di offerta, che, sicuramente antecedenti alla vendita ed alla cessione, si connotano, diversamente dalla vendita e dalla cessione, per la non avvenuta “dazione” della droga”.
[6] Cfr. Cass., Sez. 4, Sentenza n. 2631 del 23/11/2006; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 6021 del 19/10/2016.
[7] Da ultimo, a conferma di plurime precedenti pronunzie, cfr. Cass., sez. VI, 10 novembre 1994, n. 2070; Cass., sez. V, 5 febbraio 1999, n. 648.
[8] Cfr. Cass. Sez. VI, 4 giugno 2013, n. 33144.
[9] Cfr. Cass. Sez. VI, n. 27998 del 11/07/2011; Cass. Sez. I, n. 1498 del 07/03/1996.
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Susanna Maderna
Laureata presso l'università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con una tesi di diritto civile dal titolo "Nuovi profili della responsabilità medica".
Attualmente in Tirocinio formativo presso il Tribunale di Milano, Sezione VI Penale, specializzata in "criminalità organizzata".