La fiaba del Fisco: cresce l’onere, si raddoppia l’evasione

La fiaba del Fisco: cresce l’onere, si raddoppia l’evasione

La riduzione dell’evasione fiscale in Italia è uno dei compiti più difficili per ogni governo. Tuttavia, pensare che questo si limiti a una revisione delle fasce di reddito o delle agevolazioni fiscali significa affrontare solo parzialmente un problema molto più ampio, trascurando settori rilevanti come i patrimoni illeciti. A trent’anni dall’introduzione della tassazione dei proventi illeciti, questa misura continua a essere caratterizzata da un percorso non sempre lineare, principalmente a causa delle diverse interpretazioni giuridiche che hanno alimentato un ampio dibattito dottrinale. La questione centrale è se sia possibile considerare la condotta penalmente rilevante come base imponibile, legittimando così la tassazione dei proventi illeciti, o se sia più opportuno utilizzare strumenti giuridici già esistenti, come le misure ablatorie.

L’ordinamento italiano permette di tassare i proventi derivanti da attività illecite, se rientrano nelle categorie di reddito previste dall’art. 6 del T.U.I.R. Tuttavia, l’inquadramento di questi proventi nelle categorie reddituali è stato oggetto di dibattito e ha visto posizioni contrastanti. Inizialmente, la questione sembrava risolta dall’articolo 80 del D.P.R. 597/1973, che includeva ogni altro reddito non espressamente considerato. Parte della dottrina riteneva che questa norma fosse troppo generica e potenzialmente lesiva dell’art. 23 della Costituzione. Anche il legislatore, durante l’introduzione del T.U.I.R., preferì non riprodurre questa disposizione. Era quindi necessaria una norma di principio generale che assoggettasse tali proventi a tassazione, portando a un vivace dibattito dottrinale e a due orientamenti giurisprudenziali: uno giuridico, contrario alla tassazione dei proventi illeciti, e uno economico, favorevole. La tesi giuridica sosteneva che i proventi illeciti non fossero soggetti a imposizione, poiché non potevano essere considerati base imponibile. La tesi economica, invece, riteneva che il possesso di un reddito, indipendentemente dalla sua origine, fosse sufficiente per l’imposizione fiscale. Entrambe le tesi concordavano sull’incompatibilità tra imposizione tributaria e misure ablatorie. La Cassazione ribadì che la reazione dello Stato alle attività illecite era la confisca e non la tassazione. Tuttavia, se la confisca non fosse stata disposta, i proventi illeciti sarebbero diventati ricchezza lecita e tassabile. L’unica deroga all’imponibilità dei proventi illeciti era rappresentata dal sequestro o confisca. Tuttavia, se la confisca fosse intervenuta dopo l’accertamento fiscale, l’obbligazione tributaria sarebbe rimasta valida. La Cassazione stabilì che l’esclusione dell’imponibilità richiedeva che il provvedimento ablatorio intervenisse nello stesso periodo d’imposta cui il provento si riferiva, escludendo la possibilità di richiedere il rimborso dei tributi pagati in precedenza.

1. L’illusione della forza

Per un contribuente che esercita un’attività d’impresa o di lavoro autonomo, ai fini del giudizio di indeducibilità, è necessario considerare solo gli elementi passivi sostenuti in relazione alla fattispecie penalmente rilevante imputata, e non l’intero ammontare degli elementi passivi sostenuti nell’esercizio dell’attività. «Questo è stato chiarito dall’Agenzia delle Entrate nella risposta a interpello n. 149 del 24 gennaio 2023. Nella risposta, l’Agenzia delle Entrate ha fornito indicazioni sul principio di inerenza e indeducibilità dei costi sostenuti per il pagamento in Bitcoin di un riscatto dati».[1] Come chiarito nella circolare n. 32/E del 3 agosto 2012, il legislatore ha vietato in modo inequivoco la deducibilità dei componenti negativi di reddito direttamente connessi al compimento di reati gravi (delitti non colposi) che abbiano subito un primo vaglio dall’autorità giudiziaria. Le ipotesi di indeducibilità sono circoscritte, ai fini delle imposte sui redditi, ai soli costi e spese relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per i quali il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale, o il giudice dell’udienza abbia emesso il decreto che dispone il giudizio, o ancora sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione del reato. «Il legislatore ha stabilito che siano indeducibili i costi e le spese direttamente utilizzati per la commissione di delitti, escludendo che l’indeducibilità colpisca anche i costi utilizzati per la commissione di reati contravvenzionali».[2] In relazione all’elemento soggettivo del reato, il comma 4­bis dell’art. 14, legge n. 537/1993 prevede che, ai fini dell’indeducibilità dei relativi costi, rilevino solo i delitti non colposi, mentre fa salva la deducibilità degli oneri correlati al compimento dei delitti colposi. Se l’indeducibilità del costo presuppone un rapporto diretto tra il bene o servizio acquisito e il reato, potrà considerarsi indeducibile sia il costo direttamente collegato all’attività illecita, sia il costo inizialmente sostenuto per l’acquisizione di fattori produttivi funzionali allo svolgimento di un’attività lecita che vengano successivamente impiegati per il compimento di un reato. Sotto il profilo procedurale, l’indeducibilità del costo o della spesa può essere contestata se, in relazione al delitto non colposo, il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale, formulando l’ipotesi accusatoria con la richiesta di rinvio a giudizio dell’indagato. Non sono ammessi in deduzione i costi e le spese afferenti al delitto per il quale il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio o sentenza di non luogo a procedere per prescrizione del reato.

2. I proventi da attività illecita hanno rilevanza fiscale?

Siamo spesso portati a pensare che un guadagno derivante da un’attività illecita, sia essa civile, penale o amministrativa, non sia considerato reddito e quindi non debba essere dichiarato a fini fiscali. Per molti anni in Italia questo è stato l’orientamento prevalente, escludendo i proventi da attività illecita da qualsiasi rilevanza fiscale. Tuttavia, nel 2006, il legislatore ha stabilito chiaramente che anche questi proventi concorrono alla definizione del reddito complessivo di una persona. A sostegno di questa svolta legislativa c’è il principio secondo cui l’illiceità di un’attività sul piano giuridico non esclude la tassabilità del reddito da essa derivante, poiché il reddito è un dato economico e non giuridico. Per questa ragione, qualsiasi ricchezza ottenuta da una persona, sia essa derivante da attività lecite o illecite, deve essere dichiarata a fini fiscali e soggetta al pagamento delle relative imposte. Per comprendere meglio questi concetti, è necessario prima inquadrare normativamente le imposte sui redditi, per poi delineare dove si collocano effettivamente i proventi da attività illecita nel nostro sistema tributario.

3. Inquadramento delle imposte sui redditi: cosa sono?

«Nel nostro ordinamento, la legge non fornisce una definizione precisa di reddito fiscale, quindi è necessario dedurlo in via interpretativa: esso consiste in un incremento patrimoniale, misurabile in un determinato periodo di tempo, derivante da una fonte produttiva. I due tributi previsti in relazione al reddito sono l’Irpef e l’Ires».[3] Entrambi sono disciplinati dal d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), che stabilisce che il loro presupposto è il possesso di redditi in denaro o in natura, rientranti nelle categorie indicate dall’art. 6.

L’articolo 6 del TUIR, nel disciplinare il rapporto tra il reddito e la sua fonte produttiva, riconosce sei categorie reddituali, ciascuna rappresentante una specifica fonte da cui il reddito può generarsi. Esse sono:

1.    Redditi fondiari;

2.    Redditi di capitale;

3.    Redditi da lavoro dipendente;

4.    Redditi da lavoro autonomo;

5.    Redditi di impresa;

6.    Redditi diversi.

«Il reddito fiscale è quindi inteso come reddito complessivo di una persona, ossia come somma algebrica di ogni categoria reddituale e delle perdite derivanti dall’esercizio di imprese o di lavoro autonomo. Il contribuente ha l’obbligo periodico di presentare la dichiarazione dei redditi, che contiene tutte le informazioni necessarie per la quantificazione del debito tributario. Un tema che ha interessato il legislatore in relazione al reddito e alle relative imposte è quello dei proventi da attività illecita. Con la legge n. 537/1993, il legislatore ha stabilito che anche i proventi da attività illecita, sia essa civile, penale o amministrativa, devono essere inclusi nelle categorie di reddito di cui all’art. 6 TUIR, a meno che non siano già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono quindi determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria».[4] Tuttavia, spesso la rilevanza penale della condotta rendeva difficile inquadrare una data attività, ad esempio, nella categoria del lavoro autonomo o di impresa. «Si pensi ai proventi generati dallo sfruttamento della prostituzione, attività che non costituisce reato: essi rappresentano certamente una forma di arricchimento per lo sfruttatore, ma non possono essere ricondotti nella categoria dei redditi di impresa».[5] «Successivamente, con un altro intervento legislativo, il legislatore ha affermato che qualora tali proventi non siano classificabili nelle suddette categorie, essi rientrano nei redditi diversi, mantenendo quindi rilevanza a fini fiscali (D.L. 223/2006)».[6] «I redditi diversi sono categorie particolari e disomogenee che presentano una serie di particolarità: è una categoria disomogenea e residuale rispetto alle altre, in quanto vi sono incluse, ai sensi dell’art. 67 TUIR, una serie di fattispecie non accomunabili tra loro sul piano strutturale».[7] Il suo carattere residuale non deve essere confuso con il concetto di “chiusura”, poiché le fattispecie rientranti in essa sono comunque tassativamente indicate dalla legge. L’elenco di tali fattispecie, previsto dall’art. 67, non comprende i proventi da attività illecita, che però sono ricondotti nei redditi diversi dal D.L. 223/2006. Su questo punto è intervenuta anche una recente sentenza della Cassazione, che afferma che “in tema di imposte sui redditi, i proventi illeciti, anche ove derivanti da frodi fiscali, devono essere ricondotti alla categoria dei redditi diversi, sebbene non ricompresi nell’elencazione di cui all’art. 67 del d.P.R. n. 917 del 1986, secondo quanto espressamente previsto dall’art. 36, comma 34-bis, del D.L. n. 223 del 2006, convertita in l. n. 248 del 2006”. (Cassazione civile, sez. trib., 19/10/2018, n. 26440).

4. Cosa succede se i proventi sono sottoposti a sequestro o confisca penale?

La legge prevede che, oltre all’obbligo di dichiarare i proventi da attività illecita, vi sia un’eccezione nel caso in cui questi siano stati sottoposti a sequestro o confisca penale. La confisca penale è una misura di sicurezza che comporta l’espropriazione a favore dello Stato dei beni utilizzati per commettere il reato e dei proventi o prodotti derivanti da esso. Questa misura patrimoniale serve a prevenire nuovi reati sottraendo tali beni, che se rimanessero nella disponibilità del reo, potrebbero incentivare ulteriori attività illecite. Il sequestro, invece, è temporaneo e ha natura cautelare. Questi provvedimenti, se avvenuti nello stesso periodo d’imposta in cui si realizza il possesso fiscale del reddito, sono esclusi dalla tassazione poiché viene meno la titolarità giuridica del reddito, che non è più imputabile al soggetto. Anche la Cassazione ha chiarito che, sebbene il reato di dichiarazione infedele possa essere integrato quando l’evasione riguarda redditi illeciti, la seconda parte dell’articolo individua una condizione negativa di imponibilità nel caso di spossessamento dei proventi illeciti per effetto di sequestro o confisca. Questo meccanismo è valido solo se il provvedimento ablatorio avviene nello stesso periodo d’imposta cui il provento si riferisce. In tal caso, il sequestro e la confisca dei proventi sono opponibili al fisco, determinando una riduzione del reddito. Al contrario, tali vincoli non hanno rilevanza se disposti contestualmente alla sentenza di condanna di primo grado.

5. La rilevanza dei proventi da attività illecita ai fini IVA

Il legislatore, con la legge n. 537/1993, ha stabilito la rilevanza fiscale dei proventi da attività illecita per quanto riguarda le imposte sul reddito. Tuttavia, la prassi applicativa tende ad estendere questa rilevanza anche all’IVA. La Cassazione ha affermato che l’idea secondo cui i proventi da attività illecita non sarebbero soggetti a IVA è errata. Questo contrasta con l’art. 14, comma 4, della legge n. 537/1993, che stabilisce che i proventi derivanti da attività illecite devono essere inclusi nelle categorie di reddito di cui all’art. 6 del TUIR. Anche se la norma si riferisce alle imposte sul reddito, è una norma di principio che non permette l’esenzione tributaria per i proventi da attività illecite. Non vi è motivo di escludere l’applicazione dell’IVA ai proventi da attività illecita, poiché molte imprese che operano in modo illecito ne trarrebbero vantaggio, creando concorrenza sleale. L’articolo 14 della legge n. 537/1993 rappresenta quindi un principio applicabile anche alle imposte indirette, non solo a quelle dirette.

6. La Corte di cassazione sentenza n. 829 del 13 gennaio 2023

La Cassazione ha consolidato ulteriormente l’indirizzo sulla legittima tassabilità di redditi originati da illecito. Tramonta, quindi definitivamente, l’ipotesi che il presupposto di fatto, cioè la causa giuridica di un’obbligazione tributaria, non possa in alcun modo essere costituito da un fatto illecito, civile, amministrativo o penale, compiuto dal soggetto passivo dell’obbligazione. «Si radica, invece implicitamente, il principio secondo cui gli illeciti determinano un incremento patrimoniale, che estende la capacità contributiva del soggetto»[8] L’Agenzia delle entrate proponeva ricorso, affidato a due motivi, per la cassazione della sentenza della competente Commissione tributaria regionale, che aveva rigettato l’appello notificato a un contribuente nell’ambito di un contenzioso riguardante un avviso di accertamento, con il quale l’ufficio impositore, sulla base di un pvc della Gdf (innescato a sua volta da un procedimento penale nei confronti del medesimo contribuente), aveva recuperato a tassazione, per il 2008, una consistente somma, poiché l’interessato, come acclarato in sede di indagini penali, nella qualità di direttore di una Cassa edile, ponendo in essere condotte con abuso d’ufficio in concorso con altri, aveva distratto somme in suo favore, a titolo di “incentivo all’esodo” per la cessazione volontaria del rapporto di lavoro, in modo difforme da quanto deliberato dal comitato di gestione in sede di approvazione dell’incentivo stesso. «Tale condotta, secondo l’atto impositivo poi emesso, aveva dato luogo a un maggior reddito (inquadrabile nella categoria dei “redditi diversi”) quale provento illecito (articolo 14, n. legge n. 537/1993 e successive modificazioni). Instauratosi il contraddittorio processuale, dopo il verdetto di primo grado, favorevole al ricorrente, il giudice tributario d’appello aveva ritenuto illegittimo l’avviso di accertamento in questione in quanto:

1) in base a quanto verbalizzato nel pvc della Guardia di finanza, non emergeva l’esatta individuazione della somma sospettata di costituire “provento illecito” suscettibile di essere recuperata a tassazione»[9].

2) “a prescindere dalla suddetta carenza nell’individuazione della somma che si (voleva) assumere come ulteriore importo da recuperare a tassazione”, la mancata definizione (quantomeno alla data della sentenza di primo grado) della questione penale, impediva di essere certi in ordine all’ammontare da sottoporre a tassazione tra i “redditi diversi” (nella versione vigente ratione temporis del richiamato articolo 14, non ancora modificata dall’articolo 1 della legge n. 205/2015) non potendosi prescindere, in un’interpretazione della norma costituzionalmente orientata, dal giudicato penale o quantomeno dalla presenza di elementi che potessero supportare adeguatamente l’esistenza dell’illecito fonte del provento illecitamente ottenuto.

La Suprema Corte ha annullato la sentenza impugnata, evidenziando inizialmente l’importanza delle argomentazioni della sentenza d’appello riguardanti la mancata conclusione del procedimento penale al momento della pronuncia. Successivamente, ha accolto il motivo del ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate, che contestava tale argomentazione.

La decisione si basa sull’articolo 14, comma 4, della legge n. 537/1993, che prevedeva che i proventi derivanti da attività illecite, se non già sottoposti a sequestro o confisca penale, fossero inclusi nelle categorie di reddito previste dal testo unico delle imposte sui redditi. La Corte di Cassazione aveva già stabilito che tali proventi, se non classificabili nelle categorie reddituali, devono essere considerati come redditi diversi, in base all’articolo 36, comma 34-bis, del Dl n. 223/2006, norma con efficacia retroattiva.

La Corte ha confermato il principio secondo cui non è necessario che la sussistenza del delitto presupposto sia accertata da una sentenza di condanna definitiva. È sufficiente che il fatto costitutivo del delitto non sia stato escluso giudizialmente in modo definitivo e che il giudice procedente ne abbia ritenuto incidentalmente la sussistenza.

Nel caso concreto, la Corte ha ritenuto che il giudice d’appello non avesse applicato correttamente questo principio, concentrandosi invece sulla mancata formazione di una sentenza di condanna penale definitiva o sulla mancanza di elementi sufficienti a supportare l’esistenza dell’illecito. Secondo i giudici di legittimità, ciò non rispettava il principio di autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale, che richiede una valutazione incidentale della sussistenza del reato di appropriazione illecita.

Per tutte queste ragioni, la Suprema Corte ha accolto il motivo principale del ricorso, annullato la sentenza impugnata e rinviato la causa alla competente Corte di giustizia tributaria di secondo grado, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.

7. Relazione sui proventi e sui costi derivanti da reato in Italia

7.1. Proventi da reato

I proventi derivanti da attività illecite devono essere tassati, anche se il contribuente è stato condannato alla restituzione delle somme illecitamente incassate e al risarcimento dei danni causati. Questo principio è stato ribadito dalla Corte di Cassazione in diverse sentenze, tra cui la n. 7511/2000 e la n. 21746/2005. L’articolo 14, comma 4, della legge n. 537/1993, stabilisce che i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illeciti devono essere inclusi nelle categorie reddituali di cui all’articolo 6, primo comma, del D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917. La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza numero 4965 del 26 febbraio 2024, ha stabilito che i proventi illeciti non possono essere utilizzati come prova contraria per superare la presunzione derivante dall’accertamento sintetico. Anche se può sembrare ovvio, è stato necessario un intero processo fino alla Suprema Corte per chiarire questo concetto. Nel caso specifico, la controversia è nata dall’impugnazione di un avviso di accertamento da parte del contribuente, con cui veniva rettificato il reddito per l’anno di imposta 2009. La Commissione Tributaria Regionale delle Marche aveva respinto l’appello dell’Agenzia delle Entrate contro la sentenza di primo grado, che aveva accolto il ricorso del contribuente[10]. Il Giudice di appello aveva rilevato che l’Amministrazione Finanziaria aveva erroneamente omesso di considerare l’effetto giustificativo delle somme ottenute dal contribuente come provento del reato di appropriazione indebita, che superavano la presunzione di maggiore capacità contributiva derivante dall’accertamento sintetico. I giudici di merito avevano osservato che il contribuente aveva fornito ampie prove della condotta illecita, dimostrando una capacità di spesa compatibile con il reddito dichiarato. L’Agenzia delle Entrate aveva quindi presentato ricorso per cassazione, sostenendo che la Commissione Tributaria Regionale aveva commesso un evidente errore di diritto nel ritenere che i proventi illeciti potessero giustificare il reddito non dichiarato. La Cassazione ha accolto il ricorso, sottolineando che l’accertamento sintetico del reddito non impedisce al contribuente di dimostrare, con idonea documentazione, che il reddito determinato sinteticamente è costituito da redditi esenti o soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta, o che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore. Tuttavia, i proventi illeciti non costituiscono redditi esenti e devono essere tassati. La sentenza impugnata era quindi palesemente errata nel riconoscere che l’appropriazione indebita di somme considerevoli potesse costituire prova contraria idonea. La pronuncia offre anche l’occasione per un accenno alla tassazione dei proventi illeciti, che devono essere considerati redditi imponibili e tassabili, indipendentemente dalla classificazione nelle categorie reddituali. In conclusione, l’importanza di contrastare i proventi illeciti è rilevante sia dal punto di vista etico che economico/giuridico, come giusta imposizione su redditi non dichiarati.

7.2. Costi da reato

«I costi e le spese direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo non sono deducibili».[11] Questo significa che se un’azienda o un individuo sostiene costi per attività che costituiscono un reato, tali costi non possono essere dedotti dalle imposte sui redditi. Tuttavia, i costi relativi a beni o servizi che non sono direttamente utilizzati per il compimento del reato possono essere deducibili, purché rispettino i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità.

7.3. Orientamenti giurisprudenziali

La giurisprudenza italiana ha stabilito che i proventi derivanti da attività illecite devono essere tassati, anche se il contribuente è stato condannato alla restituzione delle somme illecitamente incassate e al risarcimento dei danni causati. Questo principio è stato ribadito dalla Corte di Cassazione in diverse sentenze, tra cui la n. 7511/2000 e la n. 21746/2005. Gli economisti hanno opinioni diverse sulla tassazione dei proventi illeciti in Italia. Alcuni ritengono che tassare i proventi derivanti da attività illecite sia legittimo e necessario per garantire l’equità fiscale e combattere l’evasione fiscale. Secondo questa visione, i proventi illeciti dovrebbero essere tassati come “redditi diversi” anche in assenza di una sentenza penale definitiva. Altri economisti, invece, sostengono che tassare i proventi illeciti possa portare a complicazioni giuridiche e pratiche. Ad esempio, potrebbe essere problematico chiedere ai contribuenti di dichiarare proventi ottenuti illegalmente, poiché ciò potrebbe costituire un’autodenuncia e violare il principio secondo cui nessuno è tenuto a incriminarsi da solo. Inoltre, c’è un dibattito sulla possibilità di utilizzare strumenti giuridici già esistenti, come le misure ablatorie patrimoniali, per affrontare il problema dei proventi illeciti senza doverli tassare direttamente. In sintesi, la questione è complessa e le opinioni degli economisti variano a seconda delle loro prospettive giuridiche ed economiche. La sentenza n. 1309 del 2024 della Corte di Cassazione riguarda il reato di riciclaggio. La Corte ha stabilito che «il reato di riciclaggio può essere integrato anche da condotte aventi ad oggetto proventi di delitti commessi prima dell’entrata in vigore della legge che disciplina tale reato. Inoltre, la Corte ha chiarito che le somme auto riciclate possono essere confiscate autonomamente, cumulandosi all’ablazione del provento del delitto tributario presupposto».[12] Tra le novità della Legge di Stabilità 2016, è di particolare interesse l’ampliamento della disciplina sulla tassazione dei proventi illeciti. La legge prevede che l’Autorità Giudiziaria debba informare l’Agenzia delle Entrate della possibile esistenza di “proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo”. In particolare, l’articolo 1, comma 141, della Legge 28 dicembre 2015, n. 208 ha modificato l’articolo 14, comma 4, della Legge 24 dicembre 1993, n. 537, aggiungendo che “in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per qualsiasi reato da cui possa derivare un provento o vantaggio illecito, anche indiretto, le autorità inquirenti competenti devono informare immediatamente l’Agenzia delle Entrate, affinché proceda al conseguente accertamento”.

7.4. Disciplina e finalità della tassazione dei proventi illeciti

In generale, il presupposto dell’imposizione è il solo possesso di un reddito, indipendentemente dalla sua provenienza. Per questo motivo, dopo un lungo dibattito, il Legislatore ha previsto che tali proventi vengano tassati, purché sussistano due condizioni: che i redditi derivanti da illecito siano classificabili in una delle categorie reddituali di cui all’articolo 6, comma 1, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e che non siano già stati sottoposti a sequestro o confisca penale. Inoltre, tassare i proventi illeciti risponde a un principio di giustizia sostanziale, per impedire che l’autore di un illecito possa beneficiare di una ricchezza derivante da una condotta antigiuridica. In particolare, nell’ambito dell’illecito penale, la realizzazione di un reato comporta spesso un vantaggio economico per l’autore, che rappresenta una motivazione a delinquere. Tra i fenomeni che agevolano la creazione di proventi illeciti ci sono il riciclaggio, il traffico di stupefacenti e il mercato parallelo gestito dalla criminalità organizzata. Anche la corruzione genera ampi guadagni per i pubblici ufficiali e indebiti vantaggi per i privati corruttori, a discapito degli altri operatori economici. Il Legislatore tributario ha specificato che i proventi illeciti possono derivare da qualsiasi illecito penale, non solo da delitti dolosi, ma anche da reati colposi e contravvenzionali.

7.5. Indeducibilità dei costi da reato

Oltre a quanto sopra, il Legislatore ha previsto anche l’indeducibilità dei costi da reato, ai sensi dell’articolo 14, comma 4 bis, della Legge 24 dicembre 1993, n. 537. Questa norma dispone che «per la determinazione del reddito non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale».[13] Tale indeducibilità è sancita per legge in relazione a spese effettivamente sostenute dal contribuente, ma utilizzate per commettere un delitto, e può essere assimilata a una sorta di sanzione. A differenza della disciplina sulla tassazione dei proventi illeciti, l’indeducibilità dei costi è prevista solo per i delitti dolosi, escludendo le fattispecie contravvenzionali e quelle punibili a titolo di colpa. Inoltre, l’indeducibilità è subordinata alla condizione che il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale in relazione al delitto per il quale sono stati sostenuti i costi. Pertanto, l’indeducibilità opera quando vi sia una evidenza indiziaria tale da indurre il pubblico ministero a formulare un giudizio di fondatezza della notizia di reato e, quindi, ad esercitare l’azione penale. Infine, in caso di assoluzione o proscioglimento del contribuente-imputato, è previsto il diritto di rimborso delle maggiori imposte versate.

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza numero 4965 del 26 febbraio 2024, ha stabilito che i proventi illeciti non possono essere utilizzati come prova contraria per superare la presunzione derivante dall’accertamento sintetico. Anche se può sembrare ovvio, è stato necessario un intero processo fino alla Suprema Corte per chiarire questo concetto. Nel caso specifico, la controversia è nata dall’impugnazione di un avviso di accertamento da parte del contribuente, con cui veniva rettificato il reddito per l’anno di imposta 2009. «La Commissione Tributaria Regionale delle Marche aveva respinto l’appello dell’Agenzia delle Entrate contro la sentenza di primo grado, che aveva accolto il ricorso del contribuente».[14] Il Giudice di appello aveva rilevato che l’Amministrazione Finanziaria aveva erroneamente omesso di considerare l’effetto giustificativo delle somme ottenute dal contribuente come provento del reato di appropriazione indebita, che superavano la presunzione di maggiore capacità contributiva derivante dall’accertamento sintetico. I giudici di merito avevano osservato che il contribuente aveva fornito ampie prove della condotta illecita, dimostrando una capacità di spesa compatibile con il reddito dichiarato. L’Agenzia delle Entrate aveva quindi presentato ricorso per cassazione, sostenendo che la Commissione Tributaria Regionale aveva commesso un evidente errore di diritto nel ritenere che i proventi illeciti potessero giustificare il reddito non dichiarato. La Cassazione ha accolto il ricorso, sottolineando che l’accertamento sintetico del reddito non impedisce al contribuente di dimostrare, con idonea documentazione, che il reddito determinato sinteticamente è costituito da redditi esenti o soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta, o che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore. Tuttavia, i proventi illeciti non costituiscono redditi esenti e devono essere tassati. La sentenza impugnata era quindi palesemente errata nel riconoscere che l’appropriazione indebita di somme considerevoli potesse costituire prova contraria idonea. In conclusione, l’importanza di contrastare i proventi illeciti è rilevante sia dal punto di vista etico che economico/giuridico, come giusta imposizione su redditi non dichiarati.

8. Notifica all’Agenzia delle Entrate da parte delle autorità inquirenti

Concentrandosi sulla recente modifica dell’art. 14 della L. n. 537/1993, è importante capire chi è obbligato a dare questa notizia. La norma si riferisce alle “autorità inquirenti”, indicando quindi il Pubblico Ministero e gli Ufficiali di Polizia Giudiziaria. La legge non specifica il contenuto e le modalità della segnalazione, ma si può dedurre che non si tratti di una comunicazione generica. La notizia deve descrivere le circostanze concrete che indicano il presunto percepimento di un provento illecito. L’autorità giudiziaria deve anche esplicitare le prove già acquisite, poiché l’Agenzia delle Entrate non ha il potere di condurre indagini approfondite. Pertanto, l’autorità inquirente potrebbe trasmettere tutti gli atti di indagine con autorizzazione all’uso in sede tributaria. Questo perché i poteri dell’Agenzia delle Entrate non sono sempre sufficienti per accertare l’esistenza di reati e il conseguente profitto illecito. Tuttavia, questa procedura potrebbe limitare il diritto di difesa e contraddire il principio di autonomia tra procedimento penale e amministrativo. Infine, il Legislatore non ha previsto espressamente il diritto al rimborso in caso di assoluzione, ma tale diritto dovrebbe essere implicito.

8.1. Quando trasmettere la notizia

La norma indica che le autorità inquirenti devono procedere “immediatamente” alla segnalazione. Ci si chiede se il Pubblico Ministero debba farlo subito dopo aver ricevuto la notizia di reato o dopo aver raccolto sufficienti prove. È ragionevole ritenere che l’Autorità Giudiziaria debba disporre di prove sufficienti per fondare la comunicazione di reato, anche per orientare l’accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate.

8.2. Per quali reati ricorre l’obbligo

L’obbligo di segnalazione riguarda i reati per cui è prevista la denuncia d’ufficio ai sensi dell’art. 331 codice procedura penale, escludendo quindi i reati procedibili a querela di parte.

8.3. Limite della confisca

I proventi illeciti non sono tassabili, se già sottoposti a sequestro o confisca penale, poiché tale ricchezza è già stata sottratta al soggetto agente. Se l’Autorità Giudiziaria ha già applicato misure cautelari o la confisca, non sussiste, quindi, l’obbligo di segnalazione.

8.4. Accertamento tributario conseguente alla notizia

Si prevede che gli Uffici finanziari difficilmente svolgeranno ulteriori accertamenti, salvo in casi specifici. Il Legislatore sembra aver creato uno strumento per una tassazione più efficace dei proventi illeciti, basata sulla notizia ricevuta dal Pubblico Ministero e sulle indagini svolte. Questa previsione potrebbe costituire un utile strumento “a basso costo” per attuare la tassazione dei proventi illeciti, che è stata scarsamente applicata per la mancanza di scambio di informazioni tra Autorità Giudiziaria e Amministrazione Finanziaria. Il Legislatore si sta allontanando dal modello del “doppio binario”, creando una interdipendenza tra procedimento penale e amministrativo.

9. Il principio del ne bis in idem

Letteralmente, l’espressione ne bis in idem significa «non due volte per la stessa cosa»[15]. Giuridicamente, si riferisce al principio processuale sancito dall’art. 649 c.p.p., che vieta un nuovo giudizio per un imputato assolto o condannato in via definitiva per lo stesso fatto.

Il principio del ne bis in idem ha un ampio spettro semantico e si applica non solo nel diritto tributario penale, ma anche in quello amministrativo, con declinazioni sia sostanziali che procedurali. La legge delega per la riforma tributaria n. 111/2023 si richiama a questo principio, proponendo diverse modalità di attuazione.

In particolare, l’art. 20 co. 1 lett. a) della legge delega prevede una disposizione per razionalizzare il sistema sanzionatorio tributario amministrativo e penale, al fine di adeguarsi completamente al principio del ne bis in idem. Questo è ancora un ambito in fase di riforma. Attualmente, nell’ordinamento giuridico nazionale, è possibile che lo stesso fatto sia soggetto a sanzioni amministrative e penali, purché rispettino il principio di proporzionalità. L’art. 19 del D.lgs. n. 74/2000 sancisce il principio di specialità, per cui si dovrebbe applicare solo la sanzione speciale, ma l’art. 21 permette che i procedimenti amministrativi e tributari siano avviati o sospesi autonomamente. La giurisprudenza nazionale è spesso restia a riconoscere l’applicabilità del principio di specialità tra fattispecie tributaria e penale, preferendo riconoscere la progressione, anche quando i destinatari delle sanzioni sono diversi.

La giurisprudenza comunitaria ha affermato che il divieto di procedere nuovamente per lo stesso fatto rientra tra le garanzie della Convenzione dei Diritti dell’Uomo e che la definitività del procedimento amministrativo preclude l’avvio del processo penale e viceversa. Recentemente, la giurisprudenza europea ha mitigato il rigore del principio del ne bis in idem, affermando che non opera in presenza di una stretta connessione tra i procedimenti, valutando l’entità della sanzione complessivamente irrogata.

Infine, il concetto di misura punitiva include anche sanzioni accessorie come la confisca. L’art. 25-quinquiesdecies del D.lgs. n. 231/2001 prevede che anche i reati tributari rientrino tra i reati presupposto della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche. Giuridicamente, il principio processualistico sancito dall’art. 649 c.p.p. vieta un nuovo giudizio per un imputato assolto o condannato in via definitiva per lo stesso fatto.

Il Decreto Legislativo n. 219/2023 ha modificato lo statuto del contribuente contenuto nella legge n. 212/2000, introducendo l’articolo 9 bis, che vieta il ne bis in idem nel procedimento tributario. Questo significa che, salvo disposizioni specifiche, il contribuente ha il diritto che l’Amministrazione finanziaria eserciti l’azione accertativa una sola volta per ogni tributo e per ogni periodo d’imposta. La relazione illustrativa chiarisce che questa norma mira a bilanciare l’interesse dello Stato con i diritti fondamentali del contribuente. Inoltre, è stato introdotto l’articolo 10ter, che stabilisce il principio di proporzionalità nel procedimento tributario, garantendo che la protezione dell’interesse dello Stato sia bilanciata con la tutela dei diritti del contribuente. La riforma ha quindi positivizzato due principi fondamentali:

  • Unicità dell’azione accertatrice: «un solo atto di accertamento per ciascun periodo d’imposta»[16].

  • Globalità dell’accertamento: l’accertamento deve riguardare la totalità del presupposto impositivo, evitando frammentazioni in più provvedimenti.

Tuttavia, sono confermate le disposizioni vigenti in tema di accertamento parziale e integrativo. L’accertamento parziale, disciplinato dall’articolo 41 bis del DPR n. 600/1973, permette l’accertamento di posizioni debitorie aggiuntive basate su elementi che indicano redditi non dichiarati. L’accertamento integrativo, disciplinato dall’articolo 43 co. 3, deve fondarsi su elementi nuovi rispetto a quelli del primo atto impositivo. Queste disposizioni sono apprezzabili perché allineate con valori costituzionali come la certezza dei rapporti giuridici, l’efficienza e l’imparzialità della pubblica amministrazione, la proporzionalità e il diritto di difesa. Tuttavia, non introducono novità sostanziali, ma formalizzano una logica giuridica già adottata dalla giurisprudenza, seppure con contrasti interpretativi. Infine, la Corte di Cassazione dovrà pronunciarsi su come gli istituti procedimentali basati sul riesame degli atti si coordinino con il principio del ne bis in idem, un problema che la riforma non ha risolto. È noto che il reato di dichiarazione infedele, previsto e punito dall’art. 4 del d.lgs. 74/2000[17], si configura anche quando il contribuente omette di indicare nella dichiarazione dei redditi ai fini IRPEF elementi attivi di reddito derivanti da attività illecite (a meno che questi ultimi non siano stati sottoposti a sequestro o confisca nello stesso anno di imposta in cui sono stati prodotti – cfr. Cass., sez. III, sentenza del 19 giugno 2020 n. 18575). In questo contesto, l’art. 14, comma 4, della legge 537/93 stabilisce che: «Nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria»[18]. L’obiettivo fondamentale della norma è equiparare, ai fini fiscali, i soggetti che producono redditi in maniera lecita (e che su questi subiscono l’imposizione fiscale) e quelli che producono redditi in maniera illecita.

Alla luce di queste premesse normative, la Cassazione ha recentemente statuito che il principio della rilevanza reddituale dei redditi da attività illecita si applichi anche al reato di omessa dichiarazione di cui all’art. 5 del d.lgs. 74/2000. La mancata dichiarazione da parte del contribuente dei redditi derivanti da attività illecita non assume rilevanza penale solo in caso di presentazione di una dichiarazione dei redditi infedele. «Assume rilevanza anche qualora il contribuente ometta di presentare la dichiarazione stessa, poiché ai fini della determinazione della base imponibile e dell’ammontare dell’imposta evasa (rilevante per verificare il superamento della soglia di punibilità prevista dall’art. 5 del d.lgs. 74/2000), devono essere considerati anche i proventi da attività illecita che il contribuente è tenuto a dichiarare»[19].

10. Conclusione

Il comportamento del Governo, che ha ritenuto di dare ampia applicazione all’istituto del ne bis in idem, in virtù del principio comunitario che un soggetto non può essere sanzionato due volte, sia pure a titolo diverso, ha lasciato irrisolto il problema delle circostanze di tempo e di luogo in cui il soggetto è esposto al rischio di una duplice sanzione, sia penale che amministrativa. In sostanza, esiste il concreto rischio che non si comprenda bene per quali fatti un cittadino possa essere sanzionato una sola volta e in quali circostanze, come di recente è stato stabilito dalla Corte di Giustizia europea, più volte per il medesimo fatto. Alla luce di queste problematiche, c’è da augurarsi che non si avveri un’antica favola: una fata anziana, molto anziana, che per rispetto nessuno chiamava strega, da anni si era data alla passione, senza successo, della coltivazione dei fagioli. Riempiva enormi buche, per riscuotere abbondanti raccolti, ma otteneva solo foglie e radici fradicie in quantità. Viveva convinta di arricchirsi, ma lei e i suoi folletti finirono marce senza avere mai assaggiato un fagiolo. così raccontano gli anziani del villaggio.

 

 

 

 


[1] Frodi carosello: deducibilità dei costi ed indetraibilità IVA, da studiocerbone.com
[2] Frodi carosello: deducibilità dei costi ed indetraibilità IVA, da studiocerbone.com
[3] L’imponibilità fiscale dei proventi di attività illecita, da dirittoconsenso.it
[4] L’imponibilità fiscale dei proventi di attività illecita, da dirittoconsenso.it
[5] La mancata indicazione di redditi derivanti da attività illecita integra il reato di omessa dichiarazione, da dirittodidifesa.eu
[6] L’imponibilità fiscale dei proventi di attività illecita, da dirittoconsenso.it
[7] Tassazione dei proventi/profitto di reato, da TmdpLex.
[8] Tasse sui proventi da illeciti, da FiscoOggi.it
[9] Tasse sui proventi da illeciti, da FiscoOggi.it
[10] Donazione di quote: quando va tassato il finanziamento soci, da We-wealth.com
[11]Indeducibili dal reddito i costi di manodopera connessi al reato di truffa, da Informazione Fiscale.
[12] Cassazione, sent. N. 1309/2024
[13] Indeducibili i costi e le spese utilizzati per atti o attività nel caso di illeciti penalmente rilevanti, da Fisco Today
[14] Donazione di quote: quando va tassato il finanziamento soci, da We-wealth.com
[15] Il divieto del bis in idem (art. 649 c.p.p.), da De Iure Criminalibus
[16] Ne bis in idem in ambito tributario, da Altalex.
[17] La produzione di redditi da attività illecita rileva anche ai fini del reato di omessa dichiarazione, da Osservatorio reati tributari (2022)
[18] La tassazione dei proventi illeciti, da Fisco Oggi
[19] La produzione di redditi da attività illecita rileva anche ai fini del reato di omessa dichiarazione, da Osservatorio reati tributari (2022)

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