La fiscalizzazione dell’abuso edilizio
L’art. 38 del T.U. edilizia (d.P.R. n. 380 del 2001) dispone testualmente che: “In caso di annullamento del permesso, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione comunale. La valutazione dell’agenzia è notificata all’interessato dal dirigente o dal responsabile dell’ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa (comma 1). L’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo 36 (comma 2)” .
La suddetta previsione normativa contempla la c.d. “fiscalizzazione dell’abuso edilizio” equiparando quoad effectum il pagamento integrale della sanzione pecuniaria al rilascio del permesso in sanatoria di cui all’art. 36 del medesimo T.U., purché beninteso ricorrano talune condizioni.
Si tratta dunque di una deroga al principio generale che impone di demolire sempre le opere abusive e che rinviene la propria giustificazione in un’ottica di salvaguardia dell’affidamento del titolare del permesso di costruire in ordine alla legittimità della progettata e realizzata edificazione conseguente al rilascio del titolo.
Il bilanciamento dei delicati e contrapposti interessi che vengono in rilievo, ossia da un lato la tutela del legittimo affidamento del privato e dall’altro l’interesse al corretto sviluppo urbanistico edilizio del territorio, è pertanto rimesso dalla legge a una sorta di “compensazione monetaria” (da qui l’invalsa denominazione di fiscalizzazione dell’abuso edilizio) pari al valore venale delle opere o a loro parti abusivamente eseguite.
Si ricordava prima, tuttavia, che la fiscalizzazione dell’abuso edilizio soggiace al rispetto di talune condizioni, individuate dalla norma nell’espressione di una motivata valutazione circa l’impossibilità della rimozione dei vizi delle procedure amministrative nonché di restituzione in pristino.
Se la prima afferisce alla sfera amministrativa presupponendo che sia oggettivamente impossibile disporre la convalida del permesso di costruire ex art. 21 nonies co. 2 legge n. 241/1990, la seconda condizione attiene alla sfera del privato, riguardando l’effettiva sussistenza della possibilità di procedere alla restituzione dei luoghi in pristino stato.
L’importanza di questi requisiti è del tutto evidente: dato che la norma pone un’eccezionale deroga al principio di necessaria repressione degli abusi edilizi con la sanzione della demolizione, è fondamentale che le condizioni della fiscalizzazione dell’abuso siano chiarite con rigore.
In ciò si annida il punto dolente dacché la disposizione non chiarisce che cosa si debba intendere per “vizi delle procedure amministrative” né che cosa significhi impossibilità di riduzione in pristino.
Proprio sulla corretta esegesi della locuzione “vizi delle procedure amministrative” si è soffermata in tempi recenti l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sentenza n. 17 del 2020), sollecitata dai quesiti posti dall’ordinanza di rimessione n. 1735/2020 della IV sezione.
Orbene, un cospicuo numero di sentenze muove dall’assunto che la fiscalizzazione dell’abuso prescinda dalla tipologia di vizio che nel caso concreto si presenta (procedurale o sostanziale che sia) per incentrarsi piuttosto sulla valutazione discrezionale dell’amministrazione. In altri termini qualsivoglia vizio che sia suscettibile di invalidare il provvedimento, sia esso attinente alla forma e al procedimento o sia esso attinente alla conformità sostanziale del provvedimento rispetto alle norme urbanistiche-edilizie, potrebbe rientrare nel campo applicativo della norma: l’importante è che l’amministrazione motivi attentamente la scelta di ricorrere a questa eccezionale forma di sanatoria pecuniaria.
La Plenaria dimostra tuttavia di non concordare con la prospettata ricostruzione, in virtù di una serie di argomenti di carattere testuale e sistematico.
In primo luogo si osserva che l’art. 38 del T.U. edilizia fa letteralmente riferimento a “vizi delle procedure”, preoccupandosi in un certo modo di distinguere le cause di invalidità suscettibili di dar luogo alla compensazione monetaria dagli altri vizi provvedimentali, i quali estranei al procedimento, ineriscono piuttosto alla conformità della costruzione al quadro programmatorio e regolamentare edilizio.
Ed invero la norma, seppur implicitamente, pone in capo all’amministrazione un obbligo di rimediare preliminarmente al vizio, tramite un’attività di secondo grado, segnatamente con la convalida di cui all’art. 21 nonies co.2 legge generale sul procedimento. Siffatta convalida presuppone necessariamente che venga in rilievo un’illegittimità di carattere procedurale, giacché ogni diverso vizio attinente alla sostanziale conformità del provvedimento al quadro normativo vigente potrebbe essere superato solo mediante una modifica di quest’ultimo: uno ius superveniens appunto che sarebbe del tutto estraneo al concetto di “rimozione del vizio” cui allude la norma sulla fiscalizzazione dell’abuso.
Pertanto, i vizi della procedura che giustificano il ricorso all’eccezionale compensazione monetaria dell’abuso edilizio sono vizi astrattamente convalidabili ma che in concreto risultano non esserlo, alla luce della motivata valutazione espressa dall’amministrazione; seguendo il filo del ragionamento allora, il sindacato del giudice, chiamato ad esprimersi sulla legittimità della fiscalizzazione dell’abuso, dovrà focalizzarsi proprio sulla natura del vizio.
Il massimo consesso della giustizia amministrativa ha cura di ricordare, poi, che l’esegesi restrittiva della locuzione in parola trova conforto nella giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale trovandosi a valutare la legittimità di una norma di interpretazione autentica di una disposizione provinciale volta ad estendere la fiscalizzazione ai vizi sostanziali, ha sostenuto che l’espressione “vizi delle procedure amministrative” non è in grado di assumere molteplici significati, tali da ricomprendere finanche vizi di carattere sostanziale, rimandando quest’ultimi a concetti ben distinti rispetto a quelli sottesi a vizi procedurali.
Laddove non fossero sufficienti le evidenziate riflessioni, la Plenaria adduce altresì argomentazioni di carattere sistematico.
La pur rilevante esigenza di tutela dell’affidamento che anima il peculiare potere di sanatoria predisposto dall’art. 38 del T.U. edilizia non può spingersi sino a permettere la creazione di un onnicomprensivo condono amministrativo affidato alla valutazione discrezionale dell’amministrazione, in spregio a qualsivoglia previsione urbanistica edilizia; la tutela è limitata unicamente a quei vizi che afferiscono al procedimento autorizzativo, in quanto è ragionevole che i predetti vizi non debbano ripercuotersi sul privato che legittimamente abbia confidato sulla legittimità del titolo rilasciatogli.
Dato poi che l’art. 38 non precisa la natura giurisdizionale o amministrativa dell’annullamento, è agevole constatare che in quelle ipotesi in cui l’annullamento del titolo sia avvenuto in sede giurisdizionale su istanza del proprietario limitrofo o di associazioni rappresentative di interessi diffusi, la tutela dell’affidamento del costruttore a mezzo della fiscalizzazione dell’abuso edilizio frustrerebbe la tutela del terzo ricorrente, poiché quest’ultimo, all’esito del giudizio, non conseguirebbe alcun utilità dal momento che la sanzione pecuniaria è incamerata dall’erario.
L’individuato punto di equilibrio tra gli interessi contrapposti, affidamento da una parte e tutela del territorio dall’altra, è a giudizio della Plenaria meritevole di condivisione e non risulta scalfito nemmeno dalla giurisprudenza della Corte Edu sul carattere fondamentale del diritto all’abitazione e sul necessario rispetto del principio di proporzionalità nell’irrogazione della sanzione demolitoria.
Ed invero, il bene della vita cui il soggetto aspira è meritevole di protezione piena a prescindere dalla qualificazione giuridica inerente alla posizione al quale il medesimo si correla, essendo ormai tramontato da tempo il dogma dell’irrisarcibilità degli interessi legittimi, a seguito della celeberrima sentenza delle S.U. della cassazione del 1999.
Pertanto, indipendentemente dalla qualificazione giuridica della posizione del costruttore dell’opera abusiva, è ben possibile che, costui, a fronte dell’annullamento in via amministrativa o giurisdizionale del permesso di costruire, agisca per ottenere il ristoro dei danni patiti in ragione del legittimo affidamento risposto sulla legittimità dell’opera realizzata.
L’obbligazione gravante sull’amministrazione all’integrale risarcimento per equivalente del danno provocato conferisce coerenza e ragionevolezza al sistema rimediale in tutti quei casi in cui la conservazione dell’immobile nella sua integrità si ponga in insanabile contrasto con i principi urbanistici e ambientali.
Alla luce dunque del ragionamento svolto, la Plenaria ha risolto il quesito sollevato dall’ordinanza di rimessione asserendo che “i vizi cui fa riferimento l’art. 38 sono esclusivamente quelli che riguardano forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione”.
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Arianna Franceschi
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