La fisionomia del principio “chi inquina paga” rimessa all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato, sez. IV, con ordinanza del 15 settembre 2020, n. 5454 – Pres. Maruotti ed Est. D’Angelo -, ha rimesso all’Adunanza Plenaria il contrasto giurisprudenziale relativo all’estensione degli obblighi discendenti dal principio di derivazione europea “chi inquina paga“, previsti dall’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, nei confronti del curatore fallimentare.
Il profilo controverso si inserisce all’interno di una problematica più ampia concernente il titolo di imputazione della responsabilità per abbandono di rifiuti, in violazione del divieto sancito dall’art. 192 del codice ambiente. La responsabilità in materia ambientale si fonda sul principio chi inquina paga, contenuto nella direttiva n. 2004/35/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004, che assolve una primaria funzione di prevenzione generale attraverso la minaccia di una sanzione tesa a scoraggiare l’esercizio di attività produttive o comportamenti umani in vario modo fonti di inquinamento e potenzialmente dannose/i per la salubrità dell’ambiente e per la salute pubblica. La ratio della disposizione è quella di traslare i costi del danno dalla collettività che lo subisce all’autore del fenomeno inquinante, generando una maggior autoresponsabilizzazione dell’impresa oppure del singolo cittadino. La disciplina della responsabilità per danno ambientale, difatti, persegue il proposito di salvaguardare l’integrità del territorio, alla luce dei principi di prevenzione e di precauzione, oltreché di retribuire il responsabile con misure di ripristino delle condizioni ambientali alterate. Le sanzioni comminate a fronte della violazione del codice ambiente si incentrano prevalentemente sulla riparazione “primaria“, ovvero l’adozione di qualsiasi misura in grado di riportare le matrici ambientali alterate nello status quo ante, e solo quando non sia possibile un ripristino delle condizioni originarie (ad esempio poiché il danno è irreversibile) il codice predispone delle misure complementari o compensative. In tale contesto la responsabilità civile di tipo risarcitorio di cui all’art. 2043 c.c. assume una dimensione residuale, di rimedio esperibile nei soli casi in cui non sia possibile la prevenzione o riparazione del danno, tanto che non risulta richiamata per relationem dal d.lgs. n. 152/2006.
In tale quadro di garanzie generali, la violazione del divieto di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo comporta ai sensi dell’art. 192, comma 3, del d.lgs. 152/2006 la costituzione in capo all’autore dell’illecito amministrativo degli obblighi di procedere alla rimozione, all’avvio a recupero, allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi, in solido con il proprietario del fondo oppure con il titolare di diritti reali o personali di godimento sull’area. A differenza dei casi in cui la responsabilità per danno ambientale è attribuita oggettivamente (come a carico delle imprese che esercitino attività pericolose ai sensi dell’art. 3 della direttiva 2004/35/CE), in materia di abbandono di rifiuti la norma richiama il principio di colpevolezza, esigendo che la sanzione sia comminata nei soli casi di dolo o colpa, accertati in contraddittorio con i soggetti interessati. Il medesimo comma 3 attribuisce al sindaco, quale rappresentante della comunità locale, il potere di adottare ordinanze per disporre le misure idonee per rimuovere i rifiuti, stabilire il termine entro il quale adottarle e ordinare il pagamento delle somme eventualmente anticipate dallo Stato per il ripristino.
Per quanto concerne la responsabilità del proprietario o del titolare di diritti reali o personali sull’area interessata dal deposito dei rifiuti, solidale con l’autore dell’abbandono oppure esclusiva nel caso di mancata individuazione del soggetto responsabile, sono sorti dei contrasti interpretativi in merito al perimetro applicativo di tale responsabilità. Sebbene non vi siano dubbi sulla responsabilità solidale del proprietario nel caso in cui anche questo ultimo abbia abbandonato dolosamente o colposamente rifiuti nella medesima area, la giurisprudenza ha assunto posizioni diverse in merito alla configurabilità di una responsabilità di tipo omissivo per colpa (negligenza) nella ipotesi di mera inerzia del proprietario, ovvero quando costui sia consapevole dell’altrui condotta di deposito di rifiuti sul proprio fondo e non si attivi per rimuoverli. La giurisprudenza maggioritaria ha ritenuto che in tal caso non sia configurabile una responsabilità per colpa del proprietario inerte poiché l’illecito omissivo richiede la violazione di uno specifico obbligo di impedire l’evento dannoso (deposito di rifiuti) o di adottare misure cautelari, non disposti da alcuna disposizione vigente (Corte di Cassazione, Sez. III pen., 28 marzo 2019, n. 13606).
In senso contrario, è stata rinvenuta una responsabilità di tipo omissivo in capo all’A.N.A.S., concessionaria della gestione e della manutenzione ordinaria e straordinaria delle strade pubbliche e delle relative pertinenze, sussistendo in tal caso un obbligo specifico di pulizia delle strade ai sensi dell’art. 14 d.lsg. n. 285/1992. L’A.N.A.S., difatti, è stata ritenuta responsabile a titolo di omissione colposa in via solidale per l’illecito di abbandono di rifiuti allorché, consapevole dello scarico di sostanze tossiche o rifiuti su strade pubbliche, non si sia attivata per rimuoverle/i, stante la posizione di garanzia di cui è titolare in virtù dello specifico obbligo di pulizia delle strade (T.A.R. Campania-Napoli, sentenza 9 gennaio 2019, n. 117 e T.A.R. Puglia, sez. I distaccata Lecce, 1 marzo 2019, n. 351 ).
Al rispetto del principio di colpevolezza è tenuto anche il sindaco nella emanazione delle ordinanze contingibili ed urgenti ai sensi dell’art. 50, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000 quando sussistano ragioni di tutela della salute e sicurezza pubbliche (artt. 9 e 32 della Costituzione). Tuttavia, il Consiglio di Stato, valorizzando la funzione delle ordinanze del sindaco non tanto sanzionatoria e ripristinatoria ma improntata alla prevenzione generale, ha statuito che l’ordine di rimozione dei rifiuti possa essere imposto anche al proprietario o detentore incolpevole a prescindere, dunque, dall’eventuale responsabilità, determinando una differenziazione dei poteri del sindaco rispetto a quelli dell’autorità amministrativa che può imporre le misure ripristinatorie ai soli soggetti responsabili dell’illecito ed al proprietario dell’area, quantomeno a titolo di colpa (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 8656/2019 e n. 1509/2016).
In questo quadro normativo fonte di dubbi esegetici non ancora completamente risolti, è sorta la questione se anche il curatore fallimentare, quando la società proprietaria dell’area su cui insistono i rifiuti abbandonati sia stata dichiarata fallita con sentenza, possa essere destinatario degli obblighi derivanti dall’art. 192 del codice ambiente.
Secondo un I orientamento, il curatore fallimentare non può divenire destinatario degli obblighi di smaltimento dei rifiuti e di ripristino dei luoghi in qualità di mero amministratore del patrimonio dell’impresa fallita. Tale posizione si incentra sull’art. 42 del R.D. n. 267/1942 il quale, nel sancire che la sentenza che dichiara il fallimento determina la sottrazione alla impresa fallita dell’amministrazione e della disponibilità materiale dei beni patrimoniali, non determina una successione del curatore nelle posizioni giuridiche attive e passive facenti capo al fallito bensì la titolarità di diritti ed obblighi e lo stesso regime proprietario rimangono in capo al fallito. Per tali motivi, non essendo il curatore fallimentare né rappresentate né subentrante nei diritti ed obblighi dell’impresa fallita, non possono costituirsi in capo al medesimo gli obblighi previsti dall’art. 192 del codice ambiente che riguardano il proprietario o il possessore (e non il mero detentore) dell’area che versi in uno stato di dolo o colpa;
Una diversa corrente di pensiero, invece, ritiene il curatore fallimentare responsabile degli obblighi ex art. 192 in quanto detentore dei rifiuti depositati presso un’area industriale. Tale ricostruzione esegetica si incentra sulla valorizzazione dei principi europei e nazionali di prevenzione e di responsabilità, per come interpretati dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che impongono una rimozione dei rifiuti nocivi per la salubrità dell’ambiente e, di riflesso, per la salute dell’uomo anche quando non vi sia una situazione dominicale sul fondo od un possessore titolare di diritti reali di godimento. L’esigenza di salvaguardia dell’ambiente sussiste anche quando sia cessata una determinata attività produttiva e quando l’impresa sia stata dichiarata fallita e tale esigenza garantista richiede comunque la rimozione dei rifiuti (CGUE, sez. IV, n. 113/2012) . Pertanto, l’interpretazione che estende gli obblighi di smaltimento dei rifiuti anche sul detentore che si trovi nella materiale disponibilità dell’area (non proprietario e non possessore) trova fondamento nel diritto europeo, art. 3, par. 1 punto 6, della direttiva n. 2008/98/CE, e nell’art. 5, lett. r-bis), del codice ambiente che qualifica come gestore qualsiasi persona fisica o giuridica che detiene o gestisce, nella sua totalità o in parte, l’istallazione o l’impianto. Non è, pertanto, rilevante la distinzione operata dal diritto nazionale tra possesso e detenzione bensì assume importanza la sussistenza di un regime gestorio, di “amministrazione del patrimonio altrui“, che senz’altro connota l’attività del curatore fallimentare, secondo un criterio di tipo sostanziale che privilegia la funzione di salvaguardia dell’ambiente e della salute pubblica in luogo della sussistenza di un formale regime di proprietà o di possesso. In ambito europeo, in aggiunta, i costi della gestione dei rifiuti sono attribuiti dall’art. 14 della direttiva n. 2008/98/CE, non solo sul produttore iniziale ma anche sul detentore successivo dei rifiuti. Il principio chi inquina paga e l’effetto utile che discende dalle norme europee poste a presidio della tutela dell’ambiente sarebbero vanificati qualora, in caso di cessazione dell’attività produttiva o fallimento dell’impresa, non venissero traslati gli obblighi di gestione dei rifiuti sul curatore fallimentare. In conclusione, tale indirizzo interpretativo sostiene che la detenzione dei rifiuti, intesa come disponibilità materiale, determina il sorgere automatico di una duplice obbligazione: il divieto di abbandonare i rifiuti e l’obbligo di smaltire i medesimi.
In conclusione, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato dovrà pronunciarsi sulla interpretazione dell’art. 192 del codice ambiente, aderendo ad una lettura formale degli obblighi di gestione e smaltimento dei rifiuti, generati soltanto dalla sussistenza di un regime dominicale o possessorio sul fondo, oppure avallare l’interpretazione sostanziale, in linea con il diritto europeo e la giurisprudenza della CGUE, che include tra le situazioni fondanti gli obblighi di gestione dei rifiuti anche la detenzione (materiale disponibilità degli stessi), al fine di salvaguardare al massimo grado l’ambiente e la salute della collettività. Inoltre, dovrà esaminare la natura della responsabilità medesima quale responsabilità per colpa (come descritta dal tenore letterale dell’art. 192 del codice ambiente) oppure come responsabilità oggettiva, tenendo conto che la normativa europea e la CGUE non attribuiscono rilevanza all’elemento soggettivo del dolo o della colpa. Nel diritto europeo, per non sconfinare in una responsabilità da mera posizione, ciò che rileva è l’accertamento del nesso di causalità tra la condotta e l’evento mentre non assume importanza il profilo soggettivo conferente all’abbandono dei rifiuti, alla luce della funzione di prevenzione generale che la disciplina a tutela dell’ambiente persegue.
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Sara Cimini
E' laureata in giurisprudenza alla luce di un percorso di studio che ha favorito il sorgere della passione e dedizione per il diritto amministrativo, le tematiche ambientali, il diritto pubblico ed il diritto penale. L'approfondimento delle materie è avvenuto attraverso la specializzazione nelle professioni legali (SSPL), la pratica forense svolta presso uno studio legale specializzato in diritto civile, condominio, diritto penale e amministrativo. Inoltre, ha svolto il tirocinio ex art. 73 d.l. n. 69/2013 presso il T.A.R. Lazio-Roma, Sez. III Principale. Durante la formazione ha acquisito competenze principalmente sugli appalti pubblici, servizi e trasporti pubblici, A.S.N., test di accesso alla facoltà di medicina e scuole di specializzazione nonché sulla organizzazione degli uffici pubblici e giudiziari.
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