La forza d’intimidazione e i “nuovi” sodalizi mafiosi

La forza d’intimidazione e i “nuovi” sodalizi mafiosi

Sommario: 1. Inquadramento dell’art. 416 bis e profili costitutivi – 2. L’interpretazione dell’avvalimento della forza d’intimidazione – 3. La cd. “mafia silente” in rapporto con le mafie storiche e straniere. I “nuovi” sodalizi mafiosi.

1. Inquadramento dell’art. 416 bis e profili costitutivi.

L’introduzione nel nostro codice penale dell’articolo 416 bis (rubricato “Associazioni di tipo mafioso anche straniere”), risalente al 1982, ha suscitato notevoli spunti dottrinali e giurisprudenziali, primo fra tutti il rapporto tra la nuova disposizione e quella di cui all’art. 416 bis, il cui dettato lasciò emergere le diverse lacune del reato associativo così costruito.

A ben vedere, l’associazione mafiosa ha in sé tutte le caratteristiche strutturali tipiche dell’associazione per delinquere – richiedendo, quantomeno, un minimo di profilo organizzativo – ma, al tempo stesso, è connotata da suoi peculiari elementi costitutivi che la qualificano come fattispecie speciale rispetto alla cd. associazione semplice.

Già ponendo a confronto le due rispettive rubriche, si nota come l’art. 416 bis c.p. sia privo, a differenza dell’articolo che lo precede, dell’inciso “per delinquere”: dato, questo, non neutro, come precisato anche dalla giurisprudenza, in quanto l’associazione di tipo mafioso non necessariamente è posta in essere al fine di commettere delitti, essendo anche diretta a realizzare taluno degli scopi indicati dallo stesso articolo 416 bis. In particolare, il IV comma richiama anche attività come “la gestione” o “il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici” di per sé permesse, ma che a causa dell’illiceità del mezzo utilizzato per perseguirle, assumono rilevanza penale.

Detto ciò, il quid pluris che tipizza la condotta è dato dalle modalità con le quali il reato associativo mafioso si manifesta: il sodalizio, infatti, si avvale della forza d’intimidazione scaturente dal vincolo associativo, dalla quale conseguono le condizioni di assoggettamento ed omertà in cui versano le persone offese. Gli elementi dell’intimidazione, dell’assoggettamento e dell’omertà integrano il c.d. metodo mafioso, ponendo il soggetto passivo in un vero e proprio stato di dipendenza psicologica, tale da imporgli comportamenti non voluti, cui non può sottrarsi per il timore di gravi conseguenze, anche solo insinuate.

Quanto all’espressione “forza d’intimidazione” – le cui interpretazioni offerte dalla dottrina e giurisprudenza saranno oggetto del successivo paragrafo – occorre fin da ora sottolineare come venga in rilievo non un qualunque atteggiamento, anche se sistematico, di sopraffazione o prevaricazione, bensì una vera e propria vis intimidatoria derivante dalla potenza criminale del vincolo associativo, tale da incutere timore in considerazione della predisposizione del sodalizio ad esercitare violenza.

Invece le condizioni di assoggettamento e di omertà, sebbene in concreto siano difficilmente scindibili, sono due profili del metodo mafioso che, a ben vedere, sono dotati, almeno in astratto, di un’autonomia concettuale.

Infatti mentre per assoggettamento deve intendersi lo stato di sottomissione alla volontà del gruppo e al suo potere, per omertà, invece, sebbene non sia affatto necessaria una generalizzata adesione alla sub-cultura mafiosa, né una situazione di così generale terrore da impedire qualsiasi atto di ribellione, è da intendersi il rifiuto, dettato essenzialmente dal timore di vendette o ritorsioni, a collaborare con organi dello Stato.

Sia l’assoggettamento che l’omertà devono riguardare terzi estranei al sodalizio, respingendo la tesi secondo cui sarebbero modi di essere in cui si esprima il vincolo associativo anche al suo interno, oltre che all’esterno: ciò significherebbe fraintendere la realtà del fenomeno, in quanto il legame che stringe tra loro gli associati è costituito piuttosto dalla comune adesione agli scopi associativi.

2. L’interpretazione dell’avvalimento della forza d’intimidazione.

Il profilo della disposizione in esame particolarmente dibattuto, intorno al quale ruota l’intero sviluppo sodale, è dato dall’esatto significato – alla luce del dibattito dottrinale e giurisprudenziale sul punto – dell’espressione, adoperata dal legislatore del 1982, “si avvalgono della forza d’intimidazione”. Aspetto che è tornato fortemente in auge con le recenti cronache giudiziarie che testimoniano l’irrequieto dinamismo del fenomeno associativo in questione, rinvenibile sempre più nelle nuove forme dei sodalizi mafiosi e nel loro modo di estrinsecarsi, anche silentemente (v. § 3). Le diverse posizioni che si sono sviluppate dimostrano come il tema – dalle evidenti ricadute pratiche – non sia affatto pacifico tra gli interpreti.

Un primo orientamento intende l’espressione in senso finalistico, come se l’enunciato fosse “intendano avvalersi”: ciò comporterebbe il ricostruire il delitto di associazione mafiosa al pari dell’associazione per delinquere, ossia come un reato associativo puro. Questa lettura risponde evidentemente all’esigenza di ampliamento della tutela, che sarebbe frustrata laddove occorresse di volta in volta provare l’utilizzo effettivo della forza d’intimidazione.

Altro orientamento, invece, ha dato vita ad un’interpretazione più conforme alla lettera della disposizione, ritenendo indispensabile, per l’integrazione del reato de quo, l’esteriorizzazione, nel concreto esercizio da parte degli associati, della forza d’intimidazione, dando risalto al verbo all’indicativo impiegato dal legislatore: la fattispecie, dunque, richiederebbe una manifestazione all’esterno di atti dimostrativi della vis intimidatrice, così da connotare l’associazione mafiosa come reato associativo a struttura mista. Tale impostazione parrebbe ispirata ad esigenze di garanzia dell’imputato, in quanto tende ad individuare una maggiore materialità nella fattispecie, richiedendo un requisito esterno che dovrà essere visibile nell’ambiente circostante, oltre che dimostrato in sede processuale.

Dal canto suo, la giurisprudenza di legittimità si è assestata nel senso di ritenere mafioso quel sodalizio in grado di sprigionare, autonomamente e per il solo fatto della sua esistenza, una carica intimidatrice effettiva ed obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano in contatto con gli affiliati dell’associazione.

3. La cd. “mafia silente” in rapporto con le mafie storiche, straniere. I “nuovi” sodalizi mafiosi.

L’impostazione seguita dagli Ermellini, confermata in diverse pronunce ed accolta anche dai giudici di merito, non si pone in contrasto col dato fenomenico di una particolare manifestazione del metodo intimidatorio descritto con l’espressione “mafia silente”. Infatti, sebbene non sia mancato scetticismo circa la compatibilità concettuale con la tipologia normativa del reato associativo mafioso – facendo presente che, nel disegno normativo, il metodo ex art. 416 bis sia sempre inteso come segno di esteriorizzazione – va evidenziato, al tempo stesso, che la mafiosità del sodalizio ben può palesarsi anche senza ricorrere a forme eclatanti di minaccia o violenza, come omicidi o attentati di tipo stragistico, bensì attraverso messaggi intimidatori indiretti o larvati o, addirittura, in assenza di avvertimenti diretti. In tal caso l’associazione si avvale della sua fama criminale conseguita nel corso degli anni: in tale prospettiva, la mafia “silente” costituisce una forma di mafiosità autentica, in quanto non ha bisogno di dimostrare ciò di cui è capace, perché la sua fama la precede, costituendo l’esercizio violento dell’intimidazione l’extrema ratio cui ricorrere quando il silenzio non è più sufficiente.

Non condivisibile, invece, altra impostazione secondo cui la mafia silente sarebbe da interpretare come mafia in potenza, ovvero come un’organizzazione dalle caratteristiche mafiose che non si sia però ancora proiettata all’esterno in iniziative delinquenziali per la realizzazione del suo programma criminoso. Questa prospettiva contrasterebbe con la formulazione testuale del III comma dell’art. 416 bis, il quale, come visto, al fine di definire mafioso un sodalizio e distinguerlo da qualsiasi altra consorteria, pretende che lo stesso si avvalga del relativo metodo operativo, che, come elemento strutturale ed imprescindibile, deve necessariamente ricorrere.

Negli ultimi anni, il tema della mafia silente ha impegnato i giudici di legittimità sia con riguardo a quelle che vengono denominate come mafie “storiche”, sia alle mafie “nuove” e straniere.

Quanto alle prime – che vanno intese come quei sodalizi radicati storicamente nel territorio di appartenenza, da non ridursi nell’alveo delle mafie tipizzate dall’VIII comma dell’articolo 416 bis – l’esperienza giudiziaria ha consentito di appurare un costante fenomeno di “delocalizzazione” di realtà associative mafiose (le cd. locali) in regioni diverse da quelle di origine e presenti in altre zone del territorio nazionale (le regioni “refrattarie”): basti pensare all’accertato insediamento della ‘ndrangheta nel Nord Italia come in Lombardia, Piemonte o in Liguria. Il primo profilo oggetto di verifica consiste nel chiarire se tale gemmazione implichi di per sé sola l’esteriorizzazione del metodo mafioso. In altri termini ci si è chiesti se la dislocazione di una struttura appartenente ad una mafia storica sia sufficiente ad integrare la fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p. pur se, nella specifica articolazione territoriale, non risulti ricorrente e pienamente dimostrata l’estrinsecazione del metodo mafioso.

L’inevitabile accertamento dell’unitarietà dell’organizzazione mafiosa a livello nazionale consentirà di porre in essere un fondamentale distinguo tra strutture criminale autonome ed originarie e quelle non dotate di indipendenza, quest’ultime risultando essere mere articolazioni della tradizionale organizzazione mafiosa, in stretto rapporto di dipendenza o, comunque, di collegamento funzionale con la casa-madre.

Tale distinzione assume ricadute pratico-applicative di notevole rilievo in quanto se la neonata compagine associativa risultasse una gemmazione dell’organizzazione mafiosa, collegata con la casa-madre, la giurisprudenza ha introdotto una sorta di presunzione probatoria di sussistenza del requisito della mafiosità, essendo sufficiente accertare la conformità del suo operato ai canoni tipizzati dall’art. 416 bis.

Ne consegue invece che, affinché possa accertarsi che dalla dislocazione si sia costituito un nuovo sodalizio, autonomo ed indipendente, sarà necessario appurare in concreto la sussistenza dei presupposti costitutivi della fattispecie, in primis la capacità d’intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale ed effettiva che il gruppo possiede, non essendo, di contro, necessario che sia stata effettivamente indotta una condizione di assoggettamento ed omertà nei consociati attraverso il concreto esercizio di atti intimidatori. In altri termini, è necessario che la forza di assoggettamento del sodalizio venga, pur nella sua potenzialità, esteriorizzata e percepita all’esterno per organizzazione del territorio, distinzione interna dei ruoli, rituali di affiliazione, sebbene non possa pretendersi, al fine di valutare la natura dell’associazione, una penetrazione globale della forza d’intimidazione nel territorio, in quanto non può ricercarsi l’assoggettamento della generalità delle persone residenti, come avviene nelle zone con presenza mafiosa tradizionale.

A corollario di ciò, si consideri altresì il problema concernente la competenza territoriale a conoscere un reato associativo in presenza di un’organizzazione criminale composta da vari gruppi operanti su un vasto territorio nazionale oppure estero, i cui raccordi prescindono dallo stesso: l’impostazione preferibile ritiene che la competenza per territorio a conoscere del reato associativo vada, in questi casi, determinata con riferimento al luogo di programmazione e di ideazione dell’attività riferibile all’associazione, salvo che la diramazione dell’organizzazione non abbia assunto da questa un’autonomia tale da costituire essa stessa, sul piano giuridico e non solo fattuale, una nuova e diversa consorteria.

Per quanto concernono le mafie straniere, è da ritenersi pacifica l’estensione ad esse della fattispecie criminosa anche se le diversità territoriali e socio-ambientali nelle quali esse operano impongono un adattamento dei parametri valutativi ex art. 416 bis c.p. In particolare, la giurisprudenza di legittimità presta particolare attenzione all’estrinsecazione del metodo mafioso, non essendo cristallizzata o sufficientemente diffusa la fama ed il prestigio criminale dei gruppi, che risultano prevalentemente confinati nelle rispettive comunità nazionali di riferimento. Di guisa che l’interprete, trovandosi di fronte ad un fenomeno trapiantato in località non affette da delinquenza di tipo mafiosa, non può pretendere una penetrazione globale della forza d’intimidazione nel territorio, ritenendo configurabile il reato di cui all’art. 416 bis nel caso in cui i gruppi criminali stranieri, attraverso l’esteriorizzazione della metodologia mafiosa, riescano ad affermarsi come gruppo egemone all’interno della comunità etnica di riferimento.

Venendo alle “nuove” mafie, esse nascono e si sviluppano come consorterie piccole e/o nuove slegate dalle grandi organizzazioni mafiose tradizionali o storiche ma che, per la metodologia adottata, possono senz’altro essere ricondotte alla fattispecie ex art. 416 bis c.p. Sul punto la Corte di Cassazione recupera l’assunto per cui la dimostrazione della sussistenza del sodalizio mafioso si ha dall’accertamento dell’essersi avvalsi del metodo tipizzato e quindi dall’intenzionalità della compagine criminale di usare la forza intimidatrice, al di là del luogo d’origine della stessa, non assumendo rilievo decisivo la circostanza di fatto che il sodalizio possa avere dei collegamenti con le mafie storiche quali la mafia siciliana, la camorra o la ‘ndrangheta.

Ragion per cui occorre compiere una valutazione caso per caso dell’entità associativa in esame, al di là del nomen più o meno tradizionale, al fine di poterla qualificare di tipo mafioso: ciò è possibile attraverso l’utilizzo di svariati parametri di giudizio come le regole date all’interno dell’organizzazione, i suoi connotati strutturali, le dimensioni operative e le sue articolazioni territoriali. Ne consegue che ad ogni fenomeno associativo risulteranno annesse caratteristiche peculiari, non necessariamente rinvenibili ad altri sodalizi.

Di recente, i giudici di legittimità si sono pronunciati su una vera e propria occupazione dello spazio amministrativo ed istituzionale da parte di un sodalizio mafioso, con sostituzione di quest’ultimo agli organi istituzionali nella preparazione e nell’assunzione delle scelte proprie dell’azione amministrativa, avvalendosi di una carica intimidatoria orientata a condizionare pubbliche gare, a controllarne i relativi esiti fino a gestire meccanismi di funzionamento di interi settori dell’attività pubblica. Al fine di realizzare tali fini, l’associazione ha agito direttamente sugli amministratori pubblici, servendosene per aggregarli al suo apparato organizzativo o per indurli a favorire il gruppo attraverso accordi corruttivi e collusivi che hanno deformato l’intero funzionamento della P.A. interessata.

Da ultimo, la Corte di Cassazione è approdata a ritenere possibile che la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo possa essere diretta a minacciare anche, e persino, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti, oltre che la vita o l’incolumità personale.

Gianluca Conturso


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Gianluca Conturso

Nato a Napoli nel 1991, nell'ottobre 2017 ha conseguito, a pieni voti e con lode, la laurea magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Napoli - Federico II. Socio dell'associazione ELSA (The European Law Students’ Association). Dallo scorso dicembre è tirocinante ex art. 73 d.l. 69/2013 presso il Tribunale del Riesame di Napoli.

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