La frode alla legge e il negozio indiretto alla luce della nuova nozione di causa del contratto
La causa del contratto è da sempre un tema quanto mai dibattuto, al punto che autorevole dottrina lo ha definito come un oggetto vago e misterioso ben rendendo, con questa espressione, la difficoltà che l’interprete ha sempre incontrato quando si è cimentato con lo studio concernente il problema dell’elemento giustificativo della convenzione e con la necessità di fornirne una chiara definizione.
A tal riguardo occorre dire che il vigente codice non ha facilitato l’opera esegetica, mancando totalmente, fra le norme positive dedicate a tale argomento, una che ponga la definizione legalmente accolta di causa del contratto; essa infatti è indicata dall’art. 1325 come uno dei requisiti essenziali del contratto stesso e, nella sezione II del capo II del libro IV è oggetto di tre specifiche norme quelle degli articoli 1343 – 1345, la prima delle quali è riferita alle ipotesi di sua illiceità, la seconda a quel particolare tipo di causa illecita che ricorre quando la pattuizione è posta in essere per eludere una disposizione di legge che viene frodata e la terza è rivolta a regolare un qualcosa che non è strutturalmente inerente alla causa in quanto tale, ma che caratterizza comunque come illecito il contratto posto in essere dalle parti: ci riferiamo, cioè, al motivo comune ai contraenti, determinante per la formazione del loro consenso ma contrario ad ordine pubblico, norme imperative e buon costume.
Le norme esposte si collegano tutte a quella dell’art. 1418, il quale, nel suo primo comma, sanziona con la nullità la contrarietà del contratto alle norme imperative e quindi risulta applicabile anche alle ipotesi ora viste di illiceità della sua causa e, al secondo comma, prevede la stessa reazione dell’ordinamento per le ipotesi di mancanza della causa o per il caso di presenza di un motivo illecito avente le caratteristiche menzionate di comunanza alle parti stipulanti e di capacità determinatrice del loro consenso.
È dunque sulla base di queste norme codicistiche che si è sviluppato l’imponente dibattito dottrinale avente ad oggetto il senso e la portata del concetto di causa del contratto nella vigente legislazione civilistica, fermo restando che altrettanto ampie discussioni il medesimo tema aveva sollevato anche in riferimento alle norme del codice del 1865: si deve qui notare come negli ultimi anni ha ripreso vigore, tale dibattito, soprattutto in virtù della Corte di Cassazione la quale, dopo anni di pressoché pacifico utilizzo del concetto oggettivo di causa del contratto come funzione economico – sociale della convenzione, ha con decisione optato per l’opposta concezione della causa come funzione individuale della stipulazione, nota anche come teoria della c.d. “causa concreta”.
Nel codice civile del 1865 la causa veniva riferita all’obbligazione e non al contratto propriamente inteso: così, l’art. 1104 poneva la sussistenza di una valida causa per obbligarsi fra i requisiti per la validità della stipulazione e l’art. 1119, in accordo con questa disposizione, considerava del tutto inefficace l’obbligazione senza causa o fondata su causa illecita.
Ad ogni modo, chiarito il ruolo della causa nella codificazione del 1865, è da dire che in questa fase storica era intesa in senso soggettivo: secondo questa prospettiva, dunque, essa veniva fatta coincidere con lo scopo in vista del quale la parte si obbligava; l’obbligazione non era perciò che il mezzo per arrivare ad uno scopo, e tale scopo informava di sé il consenso dei contraenti.
Ne segue che in tale esegesi la causa veniva vista come la motivazione del consenso ad obbligarsi, che veniva prestato all’atto della stipulazione del contratto.
Abbiamo rilevato come quella esposta fosse la dottrina dominante : occorre però dare atto del fatto che la descritta linea interpretativa non aveva la caratteristica dell’unanimità, infatti vari erano gli autori che si erano orientati a considerare tale elemento del contratto come inerente alla sua sostanza obbiettiva, cioè come quel quid che consente all’ordinamento di riconoscere tutela ad una stipulazione tra privati in quanto capace di soddisfare non solo i loro particolari bisogni, ma anche in grado, astraendosi dai loro personali motivi, di produrre un minimo di utilità sociale ; questo perché, altrimenti, la legge dovrebbe riconoscere rilievo giuridico anche ad una mera manifestazione di volontà, con tutti i rischi di incertezza che ciò comporterebbe sul piano della stabilità dei rapporti giuridici.
Per questo già nella vigenza del vecchio codice si era arrivati a dire che era necessario che l’effetto del contratto si giustificasse in virtù di una sua funzione economico – sociale e non meramente individuale.
Tuttavia, l’abbandono della teoria soggettiva e il passaggio ad una concezione oggettiva dell’elemento causale del contratto avviene solo dopo l’entrata in vigore del codice civile del 1942 : il nuovo testo normativo, per la verità, nelle disposizioni che abbiamo ricordato nella premessa non pone una scelta chiara, positiva e di ordine testuale in tal senso.
È frutto di autorevole dottrina che la teoria oggettiva della causa trova la sua formulazione migliore, stilisticamente più alta e scientificamente più persuasiva e che, poi, viene fatta propria in modo anche dalla giurisprudenza di legittimità : partendo dal presupposto essenziale a tenore del quale così come i diritti soggettivi, anche i poteri di autonomia privata debbono essere esercitati in maniera tale da non contrastare con la funzione sociale cui essi sono in ultima analisi rivolti, la dottrina definisce la causa del contratto come la funzione sociale dell’intero negozio, dei cui elementi essenziali e costitutivi rappresenta la sintesi.
La causa è allora il risvolto sociale dell’autonomia privata, frutto del combinarsi e del ridursi ad unità degli elementi indispensabili per la valida costituzione del vincolo convenzionale, i quali divengono dunque anche indici per il corretto svolgimento della funzione che di quel negozio è tipica ; in ultima analisi, la causa così ricostruita assume il ruolo di ragione giustificativa della perdita e dell’acquisto di diritti che da quel negozio sono destinati a scaturire come effetti pratici, giuridicamente rilevanti e percepibili.
Se tale funzione giustificativa non ricorre, il negozio è dunque nullo per difetto di causa, in quanto la legge può e deve tutelare e assistere con la sua forza le manifestazioni dell’autonomia privata dotate di una valenza non solo particolare ma anche collettiva; non può in alcun modo invece proteggere, pena il contraddire la sua finalità di garanzia della pace sociale, il mero capriccio fine a sé stesso.
Alla teoria della causa come funzione economico – sociale del contratto sono state apportate varie critiche da parte della dottrina.
Innanzitutto, si è notato come tale concezione porta a ritenere che alla causa intesa nel senso anzidetto viene in definitiva attribuito il ruolo di strumento per il tramite del quale verificare se, nel caso concreto, i fini perseguiti dai privati siano o meno armonici rispetto a quelli fissati dall’ordinamento: la conseguenza è che, così interpretando il requisito causale, gli si attribuisce la funzione di esprimere non tanto il punto di vista proprio delle parti che concludono il contratto, quanto quello dello Stato, andando a limitare quella signoria del volere che invece deve contraddistinguere la contrattazione.
Lungo questa direttrice argomentativa si muove anche la dottrina che ritiene come la causa intesa in maniera obbiettiva potrebbe portare alla repressione, in un’ottica di generale controllo sociale, non solo di contratti dannosi, ma anche di convenzioni socialmente indifferenti, con causa futile o comunque rivolte alla soddisfazione di interessi meramente individuali ; ciò contrasterebbe col fondamento ultimo della democrazia, che è la libertà personale intesa come potere di fare tutto ciò che la legge non vieta o, di converso, non comanda.
In generale, poi, viene posto in evidenza che la causa considerata come funzione economico – sociale della convenzione conduce l’interprete dell’atto negoziale a pretermettere la valutazione della concreta situazione in cui si stipula il patto, la verifica delle circostanze pratiche e contingenti in cui esso viene ad esistere e quindi l’analisi degli scopi pratici la cui tendenziale persecuzione ha indotto le parti a concluderlo ; conseguenza di ciò, si dice, è che nessun contratto tipico potrà mai essere dichiarato nullo per mancanza od illiceità della sua causa, in quanto essa appunto finisce per coincidere con quella che è stata individuata, per il tramite di un giudizio svolto a monte dal legislatore, come tipica funzione dei contratti appartenenti a quel dato tipo.
È dunque su queste basi logiche che da parte di autorevole dottrina viene a prospettarsi il nucleo fondamentale della teoria della causa come funzione economico – individuale, ovvero della concezione della causa in concreto.
In questa prospettiva proprio la causa diventa la sintesi ultima non più dei soli elementi essenziali del contratto, ma quella di tutti gli indici costitutivi del negozio, sia primari che secondari, in maniera tale che la si possa considerare come l’espressione oggettivata delle finalità soggettive che le parti contraenti, per il tramite del negozio medesimo, volevano perseguire.
La causa così ricostruita diventa dunque la superiore unità che collega l’operazione economica posta in essere al contratto e ai suoi stipulanti, assumendo perciò il ruolo di giustificazione razionale della convenzione e, quindi, di ultima e superiore sintesi degli interessi dei soggetti che ad essa hanno dato vita.
Per lungo tempo la giurisprudenza di legittimità ha comunque mantenuto fermo il concetto di causa in senso oggettivo, come funzione economico – sociale del negozio e solo occasionalmente utilizzava degli schemi decisionali che, direttamente od indirettamente, si riallacciavano alla tesi della causa concreta.
Infatti, in alcune ipotesi, la giurisprudenza ha ritenuto che la causa in concreto sia un elemento essenziale del contratto, in base al quale va valutata la liceità e la meritevolezza della complessiva operazione economica e in altre ha stabilito che la causa va valutata nel suo ricorrere specificamente nella concreta operazione negoziale, anche se essa è tipica, in quanto occorre verificare che la funzione concreta della stipulazione effettuata corrisponda a quella astrattamente e tipicamente determinata per quel tipo di contratto.
Negli ultimi anni, tuttavia, è costante l’orientamento del giudice di legittimità a favore proprio della teoria della causa concreta; il caso tipico ha infatti definito tale elemento del contratto come la sintesi degli interessi reali delle parti che la pattuizione mira soddisfare, cioè come lo scopo pratico del negozio, il quale va a sua volta inteso come funzione economico – individuale della singola e specifica stipulazione, da cogliersi al di là del modello astratto utilizzato.
Sulla base di tale precedente, il Supremo Collegio ha poi successivamente applicato un principio di diritto nella sostanza analogo in altre decisioni di casi controversi sottoposti al suo autorevole vaglio in cui ha avuto modo di affermare che la causa concreta del contratto di viaggio tutto compreso è la finalità turistica che anima il contraente – consumatore, la quale finalità, dunque, va fatta coincidere con l’intento dell’acquirente del pacchetto di godere di un periodo di svago al di fuori della sua usuale quotidianità.
Lo stesso principio è stato utilizzato per la risolubilità di un contratto di soggiorno alberghiero dovuto alla morte, il giorno prima dell’inizio della sua esecuzione, di uno dei due coniugi che lo aveva stipulato.
Proprio da questo punto di vista, allora, si ritiene di poter affermare che la teoria della causa concreta che si va ormai consolidando nelle decisioni del Supremo Collegio si regge in realtà su un equivoco di fondo : ci sembrerebbe, infatti, che tale elaborazione sia frutto di una confusione, metodologicamente e sostanzialmente erronea, tra l’elemento oggettivo del negozio giuridico tipico e l’elemento soggettivo di esso.
A tal riguardo, dobbiamo notare che parlare di sintesi degli interessi reali delle parti sembra dimenticare che proprio l’elemento soggettivo del negozio è composto, innanzitutto, dall’interesse della persona che lo pone in essere, il quale interesse va a sua volta inteso come uno stato di tensione dell’individuo verso un dato bene, che egli reputa idoneo a soddisfare uno stato di bisogno, cioè a dire una sua situazione carenziale che può appunto essere superata e rimossa soltanto con l’acquisizione, alla propria sfera giuridico patrimoniale, di una realtà materiale od immateriale che, per il tramite del contratto che ci si accinge a stipulare, si vuol raggiungere.
Questo interesse dunque naturalmente informa di sé il negozio perché è il fine cui la parte tende, la soddisfazione del quale fine è l’obiettivo cui mira l’intento pratico del contraente : tale intento pratico è infatti da considerarsi come un elemento stabilmente presente nei contratti in quanto costituisce l’essenza di quella volontà che poi si fonde nell’accordo, dando vita proprio alla convenzione.
L’importanza e la normale ricorrenza dell’intento pratico nel negozio non deve, tuttavia, condurre a far dimenticare all’interprete che il suo ruolo, in quella complessa realtà dinamica che è il contratto, non può essere sopravvalutato.
È vero infatti che l’intento pratico si estrinseca nella manifestazione dell’intenzione di perseguire, per il tramite della stipulazione, determinati effetti, ma è anche vero che la sua rilevanza non può spingersi oltre ; questo perché, una volta manifestato tale intento e, quindi, posto in essere l’elemento di fatto del negozio, l’autonomia privata si ferma e si esaurisce in quanto proprio gli effetti del contratto, pur voluti nel senso ora specificato, si produrranno ope legis e non in forza di siffatta volontà.
Perciò, da quanto detto consegue che l’intento pratico deve restare cosa diversa, nella sua struttura soggettiva, dallo scopo pratico del negozio, il quale va inteso come la ragione economico sociale per la quale la legge lo tutela e lo riconosce rilevante per l’ordinamento in quanto, cioè, è in grado di svolgere quella funzione oggettiva e materiale che, per ogni contratto tipico, il sistema positivo ha puntualmente individuato.
È vero poi che, nella generalità dei casi, l’intento pratico sarà comprensivo anche della causa : in quanto requisito in cui si fondono gli elementi essenziali del negozio, è infatti usuale che in tutti i casi in cui la stipulazione non sia affetta da patologie che ne mettano in forse la funzione giustificatrice, la volontà abbraccerà pure il requisito che della contrattazione rappresenta una sintesi degli elementi costitutivi e, in ultima analisi, anche degli effetti di essa.
Infatti si rileva che all’aspetto oggettivo della causa fa sempre riscontro il suo riflesso soggettivo e quando, conseguentemente, rileva che essi costituiscono due profili logicamente correlati e non due nozioni necessariamente e rigidamente in antitesi fra loro.
Nemmeno ciò, tuttavia, ci legittima a confondere l’elemento soggettivo con quello oggettivo del contratto, altrimenti la ricostruzione esegetica che di tale atteggiamento sarebbe il frutto non identificherebbe la causa concreta del negozio, ma la causa della specifica concreta condotta negoziale posta in essere dagli autori dell’atto, finendo per sussumere quella causa concreta in questa specifica concreta condotta negoziale e, quindi, incorrendo in un fraintendimento che si pone come lesivo della coerenza ordinamentale.
Ancora, altro limite in cui potrebbe incorrere la concezione della causa intesa come sintesi degli interessi reali delle parti sembra potersi cogliere in una esorbitante ed eccessiva sopravvalutazione dei motivi che hanno spinto le parti a contrarre o, se si vuole riprendere quanto appena detto, a manifestare quel dato intento pratico che è alla base del loro negozio.
Dall’analisi delle principali sentenze che hanno fatto applicazione della categoria logica in analisi, infatti, si ricava proprio che la giurisprudenza ha attribuito un ruolo decisivo, nell’esegesi, a delle mere rappresentazioni interne ed interiori dei contraenti, intese come pulsioni soggettive, come soggettivi intendimenti concernenti gli effetti e le conseguenze del proprio agire i quali sono stati interpretativamente posti a fondamento giustificativo della pattuizione stipulata.
È così avvenuto, ad esempio, che la finalità turistica dei contratti di viaggio tutto compreso, intesa come lo scopo pratico di godere di un viaggio e di un periodo di relax e riposo, lontano dalla quotidiana routine, sia divenuta la causa concreta di tale tipico schema contrattuale quando, invece, potrebbe apparire che in un tale contratto ricorra piuttosto una tipica causa di scambio tra prestazioni cioè il pacchetto tutto compreso da un lato e il pagamento del prezzo forfettario dall’altro e che la supposta finalità turistica sia invece l’insieme dei motivi soggettivi che hanno spinto la parte ad acquistare il viaggio, in quanto tale irrilevanti.
E’ accaduto che un contratto di locazione sia stato dichiarato nullo per contrasto diretto della sua causa concreta con norme imperative, in quanto il fondo locato veniva ad essere goduto dal conduttore, in forza di specifica clausola negoziale, in spregio alle disposizioni che lo vincolavano ad un utilizzo boschivo : anche qui, si sopravvalutano i motivi anzi, il motivo illecito unico e determinante e li si fa confluire nella causa del contratto, ancora una volta ignorando la distinzione positiva che sussiste tra l’elemento funzionale e quello soggettivo motivazionale.
Proprio in relazione a quanto da ultimo considerato, possiamo allora rilevare anche come la teoria che ricostruisce la causa in termini concreti finisca per porsi come un mezzo per arrivare all’abrogazione delle norme di cui agli articoli 1344 e 1345 del codice, relative rispettivamente al contratto in frode alla legge e al motivo illecito, unico e determinante il consenso.
Riducendo, infatti, l’elemento causale ad una supposta unità con quello soggettivo e, dunque, finendo per considerare causa del contratto i soggettivi motivi dell’agire negoziale, pur chiamati interessi reali dei contraenti, si arriverebbe a rendere inapplicabili le norme ora ricordate e quindi ad espungerle dal sistema ; questo perché se ogni motivo illecito, se ogni aggiramento di disposizione normativa di matrice imperativa per il tramite di un’attività negoziale singola o frutto di un collegamento fra più contratti finisce per riverberarsi sull’elemento causale, allora gli articoli 1344 e 1345 c.c. esaurirebbero del tutto le loro potenzialità applicative.
Proprio per evitare, allora, un risultato siffatto, sembrerebbe più opportuno mantenere ferma la scelta fatta dalla legge vigente, che è chiaramente orientata nel senso della teoria oggettiva della causa, e affermare contestualmente la necessità di una interpretazione sistematica e coerente delle norme del codice civile.
Infatti, se è vero che il codice medesimo accoglie la nozione di causa come funzione economico – sociale, è altrettanto vero che ciò non impedisce affatto il controllo dell’ordinamento da un lato costituzionalmente legittimo e dall’altro doveroso, come si è chiarito sulla concreta dinamica contrattuale posta in essere.
Tale controllo deve innanzitutto svolgersi nel senso di verificare l’esistenza della causa oggettiva della convenzione tipica, per poi verificare se essa non si ponga in contrasto con l’utilità sociale sotto il profilo della frode alla legge o dei motivi illeciti unici e determinanti : è anch’essa, infatti, una verifica degli interessi reali dei contraenti, che conduce agli stessi risultati cui porta la concezione della causa concreta, ma che a differenza di questa, causa concreta, rispecchia appieno il dettato positivo e, quindi, lo rispetta senza stravolgerlo.
In questo senso, inoltre, potrebbe essere inteso l’inciso finale dell’art. 614 della Relazione al codice, il quale appunto, per ogni singolo rapporto, raccomanda di controllare la causa che in concreto il negozio realizza, sia nella sua conformità a quella tipizzata dalla legge, sia nella sua capacità di realizzare in concreto la funzione che in astratto gli si assegna dalle norme di riferimento.
Ciò infatti non ci pare un indice a favore della teoria della causa concreta, ma ci sembra un dato di fatto che conferma quanto detto circa la possibile coesistenza fra una causa intesa come funzione economico sociale ed elementi come quelli codificati negli articoli 1344 e 1345 c.c., cui più volte si è fatto cenno, che possono renderla concretamente irrealizzabile, pur non sussumendosi in essa .
È infatti di intuitiva evidenza che la frode alla legge e il motivo illecito, unico e determinante, pur non confondendosi con la causa, impediscono al negozio di svolgere quella funzione economico – sociale sul presupposto della quale gli si riconosce rilievo.
E’ normale che alla base della condotta negoziale, vi siano degli interessi che informano di sé l’intento delle parti, così come che vi siano motivi ed aspirazioni che concorrono a determinare la volontà che poi è destinata a fondersi nell’accordo ; ciò non toglie che la causa come elemento materiale della realizzata stipulazione da questo composito elemento soggettivo debba restare assolutamente distinta.
Se così non fosse, la causa finirebbe per coincidere coi motivi della concreta volizione, rendendo così del tutto relativa una realtà quale quella contrattuale che invece conserva il suo valore solo se dotata della massima stabilità e certezza strutturale.
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