La fruizione del periodo triennale per assegnazione termporanea è replicabile per ogni figlio
La fruizione del periodo triennale previsto dalla normativa sul diritto di assegnazione temporanea del pubblico dipendente ad altra sede di lavoro è replicabile anche per i figli successivi al primo genito. Nota a Consiglio di Stato, Sez. II, 10 agosto 2023, n. 7725
avv. dott. Renzo Cavadi
Sommario: 1. Premessa introduttiva – 2. La particolare vicenda da cui si è sviluppato il contenzioso – 3. Le doglianze sollevate di fronte al T.A.R. Lombardia e la decisione dei giudici di primo grado – 4. I motivi di appello sollevati dal Ministero dell’Interno davanti al Collegio del Consiglio di Stato – 5. La decisione liberale adottata dai giudici di Palazzo Spada (Consiglio di Stato, Sez. II, 10 agosto 2023, n. 7725) – 6. Riflessioni finali
1. Premessa introduttiva
L’art. 42-bis del d.lgs. n. 151 del 2001, recante il “Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità”, laddove individua in tre anni il termine massimo di durata dell’assegnazione temporanea per avvicinarsi alla sede di lavoro dell’altro genitore, va interpretato nel senso che l’assegnazione può essere estesa anche ai figli successivi al primo genito.
Non sussiste dunque ragione alcuna, per limitare la fruibilità dell’assegnazione provvisoria anche laddove si sia già esaurito per il primo figlio il limite temporale di tre anni, previsto e disciplinato ex lege e concesso in precedenza al richiedente dalla propria amministrazione.
Sulla base di tali interessanti presupposti, il Consiglio di Stato, sez. II, attraverso un’importante pronunzia di considerevole rilievo motivazionale, datata 10 agosto 2023 n. 7725 (Est. A. Manzione), si è espresso in ordine al diniego opposto dal Ministero dell’Interno alla domanda di concedibilità di fruizione del periodo di tre anni, da assegnazione temporanea ad altra sede per assistere il secondo figlio, traendo spunto per una lettura in chiave più moderna e liberale, relativa all’interpretazione dei criteri normativi concernenti i presupposti e il vincolo temporale fissati dall’art. 42-bis del d.lgs. n. 151 del 2001.
La pronunzia lascia spazio ad importanti riflessioni espresse dai giudici di Palazzo Spada, sulla corretta applicazione del significato semantico da attribuire al “limite di validità temporale triennale” potenzialmente concedibile per assistenza e cura di ogni figlio, garantendo il pieno esercizio della paternità, anche al fine di non lasciare sulle spalle di uno solo dei genitori, di solito la madre, l’intero onere connesso alla genitorialità. Il caso è di particolare interesse in quanto, nell’economia della decisione assunta dal Collegio Amministrativo, occorreva prendere nella dovuta considerazione la circostanza che già in passato il richiedente, aveva legittimamente fruito per l’intero periodo di tre anni del distacco ad altra sede di assegnazione, concesso dalla stessa amministrazione per assistere il primo genito.
2. La particolare vicenda da cui si è sviluppato il contenzioso
Un agente della Polizia di Stato, aveva chiesto la conferma di avvicinamento al coniuge attraverso l’assegnazione provvisoria (di cui fruiva già nella qualità di genitore di un figlio minore di anni tre), ad altra sede, per la cura del figlio secondogenito.
Tale diniego opposto dall’amministrazione al dipendente, poggiava sulla circostanza che lo stesso richiedente, aveva già fruito[1] per il primo figlio dell’intero periodo massimo concedibile consentito dalla normativa (tre anni) e, con successivo diniego, integrava la motivazione con riferimento alle carenze di organico della Questura, anche in ragione della richiesta di fruizione dello stesso istituto da parte di altri sette operatori (con altrettante domande in istruttoria), che costituirebbe fattore di aggravamento delle difficoltà di un ufficio «che opera in un contesto territoriale ad alta densità di popolazione e gravato da innumerevoli e complesse esigenze operative».
Ritenendosi leso nei propri diritti e nella convinzione delle proprie ragioni, il dipendente decideva d’impugnare le decisioni adottate dal Ministero dell’Interno davanti al Tribunale Amministrativo competente.
3. Le doglianze sollevate di fronte al T.A.R. Lombardia e la decisione dei giudici di primo grado
Con ricorso innanzi al T.A.R. Lombardia, chiedeva l’annullamento del provvedimento ministeriale del 28 settembre 2020 di rigetto della sua istanza del 16 giugno 2020, tesa ad ottenere la conferma dell’assegnazione provvisoria, di cui già fruiva nella qualità di genitore di un figlio minore di anni tre, ad altra sede, in scadenza il 4 settembre 2020, per la cura del secondogenito.
Con successivi motivi aggiunti, impugnava altresì il provvedimento ministeriale del 12 marzo 2021, confermativo del precedente diniego. Quest’ultimo, integrava e rafforzava ribadendo la motivazione con riferimento alle carenze di organico della Questura (anche in ragione della richiesta di fruizione dello stesso istituto da parte di altri sette operatori con altrettante domande in istruttoria), come fattore di aggravamento delle difficoltà di un ufficio, “che opera in un contesto territoriale ad alta densità di popolazione e gravato da innumerevoli e complesse esigenze operative”.
Il Collegio Amministrativo, condivide le doglianze argomentate da parte ricorrente, richiamando a supporto la propria giurisprudenza conforme (T.AR. Lombardia, sez. III, 10 aprile 2018, n. 962 e T.A.R. Trento, 18 febbraio 2020, n. 28), la quale è uniforme nell’evidenziare che “il beneficio dell’assegnazione temporanea viene riconosciuto dal citato articolo 42-bis del D. Lgs. n. 151 del 2001 per ciascun figlio, per cui la nascita del secondo figlio può giustificare un’ulteriore assegnazione temporanea “.
A supporto di tale interpretazione, citava anche l’art. 45 comma 2 bis del medesimo D. Lgs. n. 151 del 2001, il quale, in relazione alle adozioni e agli affidi, si riferisce in maniera esplicita all’entrata del “singolo” minore nella famiglia, con ciò chiaramente consentendo la reiterazione della fruizione dell’assegnazione temporanea in ragione di ciascuno di essi, “per cui sarebbe discriminatorio fornire una lettura diversa e meno garantista nei confronti dei figli naturali”. D’altro canto, la disciplina degli altri istituti a tutela della genitorialità, contenuta nel Capo VI del D. Lgs. n. 151 del 2001, fa chiaramente riferimento a ogni figlio, “per cui l’interpretazione sistematica più corretta spinge a ritenere applicabile lo stesso metro all’assegnazione temporanea dei lavoratori dipendenti alle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 42-bis“.
Infine a conferma di quanto sostenuto il T.A.R. Lombardia, escludeva che il provvedimento adottato dall’amministrazione resistente, fosse logisticamente e adeguatamente motivato sotto il profilo delle ragioni organizzative del Ministero dell’Interno: in tal senso i giudici amministrativi riscontravano la genericità del riferimento alle stesse nonché la mancanza di ogni elemento di “essenzialità” della presenza del dipendente nell’ufficio, ove lo stesso svolgeva mansioni di archivista presso la Segreteria Affari generali – Gestione Risorse umane e strumentali.
4. I motivi di appello sollevati dal Ministero dell’Interno davanti al Collegio del Consiglio di Stato
Contro la decisione adottata dal giudice di prime cure, il Ministero dell’Interno decideva di proporre appello, presentando di fronte ai giudici del Consiglio di Stato, un unico motivo di gravame piuttosto complesso e assai articolato, in cui come filo conduttore della propria impugnazione, si censurava “la violazione e falsa applicazione dell’art. 42 bis del D. Lgs. n. 151 del 2001”.
Secondo la prospettazione sollevata da parte appellante la normativa di riferimento, a differenza della decisione adottata dai giudici del T.A.R. Lombardia “nel necessario raccordo tra l’incipit, che individua i potenziali beneficiari nei genitori con figli minori fino a tre anni di età”, utilizzando volutamente il sostantivo al plurale e la “declinazione dell’istituto, che comunque può essere concesso per un periodo complessivamente non superiore a tre anni“, deve necessariamente farsi riferimento per voluntas legis all’intero lasso di tempo della carriera del dipendente pubblico. A conferma di quanto evidenziato nel ricorso in appello, per il Ministero dell’Interno, tale interpretazione troverebbe effettivo riscontro nel parere n. 192 del 4 maggio 2004 dal Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri in tema di mobilità per ricongiungimento da assegnazione temporanea ad altre P.A.), si presterebbe come l’unica soluzione giuridicamente ponderata “per evitare indebite discriminazioni tra più soggetti aventi egualmente diritto, che si vedrebbero sempre postergati a colleghi che hanno già fruito almeno una volta del relativo beneficio”.
Parte appellante del resto, è dell’avviso che in tutti quei casi evidenti previsti dall’ordinamento, in cui il nostro legislatore ha inteso estendere uno strumento giuridico a tutti i figli, lo ha affermato direttamente e in via espressa “così come accaduto tra l’altro sempre con l’art. 42 comma 5 bis del medesimo D. Lgs. n. 151 del 2001, che peraltro “precede sul piano sistematico la norma in controversia, prevedendo che il congedo retribuito ivi declinato spetti per l’assistenza di ciascuna persona portatrice dell’handicap, seppure ferma restando la durata complessiva di due anni, riferiti chiaramente all'”arco della vita lavorativa”.[2]
Ragionando in senso opposto, per il Ministero dell’Interno, si svierebbe la ratio e lo scopo dell’istituto, quasi a volerne alterare e snaturare la sua finalità “trasformando un trasferimento temporaneo in definitivo di fatto”, con tutte le conseguenze del caso a livello di impatto sull’aspetto organizzativo.
Le doglianze di parte appellante convergono anche sulla circostanza che, altrettanto errata e illegittima sarebbe quella parte della sentenza di primo grado, che constata la carenza di motivazione del provvedimento concernente le problematiche c.d. organizzative. Per il Ministero appellante anzi, al contrario, l’atto di diniego emesso dall’amministrazione, sarebbe sufficientemente esplicito nella misura in cui ciò è richiesto per tutti coloro che appartengono alle Forze di Polizia dopo la modifica normativa introdotta dal legislatore attraverso il D. Lgs. n. 172 del 27 dicembre 2019 (Disposizioni in materia di revisione dei ruoli delle Forze di polizia e di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche)”.
5. La decisione liberale adottata dai giudici di Palazzo Spada (Consiglio di Stato, Sez. II, 10 agosto 2023, n. 7725)
Il Consesso Ammnistrativo in via preliminare, sottolinea come il punto nodale da sciogliere per la soluzione della questione di specie, consiste nell’esatto inquadramento e nella corretta lettura da dare all’articolo 42 bis del D. Lgs. 30 marzo 2021 n. 151 recante il Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità” laddove questo, consente al dipendente pubblico che abbia un figlio di non oltre tre anni di età, l’assegnazione temporanea per un periodo egualmente individuato in tre anni, presso una sede di servizio, ubicata nella stessa provincia o Regione nella quale l’altro genitore esercita la propria attività lavorativa[3].
La disposizione dell’art. 42 bis è stata inserita nel richiamato Testo Unico dalla L. 24 dicembre 2003, n. 350, e successivamente novellata mediante l’inserimento dell’inciso finale che limita la possibilità di diniego “a casi o esigenze eccezionali”, dall’art. 14, comma 7, della L. 7 agosto 2015, n. 124.
La portata generale e prioritaria degli interessi convergenti sulla cura del figlio, risultato d’importanza capillare per la tutela della prole nell’ambito dei rapporti familiari, ha solleticato da sempre l’interesse da parte della giurisprudenza amministrativa, la quale peraltro, nelle sue decisioni, ha optato per l’estensione dell’istituto anche agli appartenenti alle Forze di Polizia ovvero ai dipendenti del Ministero della Difesa. In tal senso i giudici di Palazzo Spada, ricordano come le decisioni adottate in ambito giurisprudenziale sono state un volano per superare in via pretoria le resistenze opposte da tali Amministrazioni, “preoccupate dell’impatto della disposizione sulle peculiarità ordinamentali che le connotano”. Il Collegio Amministrativo, richiamando ampia giurisprudenza espressa dai giudici di Palazzo Spada (Cons. Stato, sez. III, 16 dicembre 2013 n. 6016, sez. II, 26 agosto 2019 n. 5872, sez. IV, 7 febbraio 2020, n. 961, sez. IV, 15 febbraio 2021, n. 1366, sez. IV, 30 ottobre 2017 n. 4993, sez. IV, 14 ottobre 2016 n. 4257, sez. VI, 1 ottobre 2019, n. 6577), ha precisato che l’art. 42 bis del D. Lgs. n. 151 del 2001 si presta per essere strutturata “come una norma ad ampio spettro, riferita cioè al personale dipendente delle Pubbliche Amministrazioni nella massima estensione della relativa categoria, giusta il riferimento specifico in essa contenuto ai fini della delimitazione del suo ambito di operatività, all’art. 1, comma 2, del D. Lgs. n. 165 del 2001”.
Successivamente l’art. 40, comma 1, lett. q) del D. Lgs. 27 dicembre 2019, n. 172, ha aggiunto il comma 31-bis all’art. 45 del D. Lgs. 29 maggio 2017, n. 95, recante “Disposizioni in materia di revisione dei ruoli delle Forze di polizia, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lettera a, della L. 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche“, risolvendo dunque definitivamente la questione, mediante la esplicita positivizzazione del relativo principio. La norma, pertanto, prevede ora che: “Al fine di assicurare la piena funzionalità delle amministrazioni di cui al presente decreto legislativo, le disposizioni di cui all’articolo 42 bis, comma 1, del D. Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, si applicano esclusivamente in caso di istanza di assegnazione presso uffici della stessa Forza di polizia di appartenenza del richiedente, ovvero, per gli appartenenti all’Amministrazione della difesa, presso uffici della medesima”.
Il Consiglio di Stato consapevole peraltro dell’importanza della disposizione di cui di discute, aggiunge che “per salvaguardare tuttavia, le specificità delle Amministrazioni de quibus, connotate da un’organizzazione di tipo gerarchico e comprensibilmente meno flessibile in quanto funzionale a servizi di tutela del territorio lato sensu intesi”, la normativa novellata, ha in ogni caso ritenuto di individuare in via cautelativa nelle “motivate esigenze organiche o di servizio“, il giusto punto di equilibrio in un’ottica di corretto bilanciamento tra le contrapposte esigenze del datore di lavoro e familiari”, escludendo dunque i c.d “casi o esigenze eccezionali” cui invece, continua a fare riferimento la norma generale, valida per gli altri dipendenti pubblici in servizio presso altre Amministrazioni diverse dal Ministero dell’Interno.
Ciò premesso, il Collegio Amministrativo è chiaro nell’evidenziare che tale innovativa e speciale indicazione sollevata fra le doglianze nell’atto di appello del Ministero dell’Interno “non va intesa come svincolo dell’Amministrazione da un obbligo motivazionale preciso sulle ragioni ritenute ostative all’accoglimento delle richieste dei lavoratori”. A ben guardare infatti, la differenza più marcata ed evidente tra le due disposizioni richiamate non riguarda tanto le esigenze organizzative o di servizio (che del resto già in passato potevano sussumersi in quei “casi o esigenze eccezionali” previsti in precedenza), quanto piuttosto nella mancata riproduzione dell’aggettivazione “eccezionali”, quasi a voler valorizzare “la potenziale ordinarietà della prevalenza dell’interesse dell’Amministrazione su quello del privato, per giunta rafforzata dall’uso della disgiuntiva “o” tra le une e le altre motivazioni, sì da renderle alternativamente sufficienti a supportare il diniego”.
Sul punto, val la pena sottolineare l’essenziale ruolo propulsivo svolto dalla giurisprudenza amministrativa indirizzata verso una direzione che abbracci una lettura costituzionalmente orientata della novella, “ponendo l’accento su quell’obbligo di motivazione, comunque rimarcato dal legislatore per imporre che sia le une (ragioni organizzative) che le altre (ragioni di servizio) vengano adeguatamente esplicitate e documentate”. In sostanza, i giudici amministrativi hanno giuridicamente sempre preteso, ed a ragione, che alla base di ogni diniego o rifiuto adottato dalle singole amministrazioni, fossero dimostrabili istruttorie procedimentali serie e ponderate, destinate inevitabilmente a sfociare in valutazioni ponderate, per quanto concerne la fungibilità o meno della professionalità del richiedente, che un’amministrazione deve cedere seppur temporalmente, ad altra amministrazione. Costituisce pertanto principio consolidato quello in forza del quale, l’art. 40, comma 1, lett. q) del D. Lgs. 27 dicembre 2019, n. 172, “non spinge il favor per le esigenze di servizio dell’Amministrazione al punto di consentire una motivazione generica inerente alle ragioni di servizio che faccia riferimento alle scoperture di organico, senza che queste ultime risultino particolarmente gravi, o in generale si richiami alle funzioni svolte dal reparto di attuale assegnazione del dipendente, senza evidenziare specifiche ragioni, anche legate ai compiti svolti dal richiedente il trasferimento temporaneo” (Cons. Stato, Sez. II, 5 ottobre 2022, n. 8527). [4]
Nel merito, va respinta l’interpretazione delle normativa per come indicata nell’atto di appello del Ministero dell’Interno, secondo la quale si sarebbe consumato il periodo massimo di concessione del beneficio previsto e autorizzato dalla norma, a favore del primo figlio, in quanto l’utilizzo dell’avverbio “complessivamente” voluto dal legislatore a limitare il periodo dell’assegnazione temporanea, non potrebbe che riferirsi all’intera durata della vita lavorativa del pubblico dipendente, benchè genitore di più figli, come indicato nell’incipit della stessa norma. Semmai i giudici di Palazzo Spada, ritengono di condividere in pieno le argomentazioni che il giudice di prime cure ha inteso trarre sistematicamente del D. Lgs. n. 151/2001, le cui norme (singolarmente e complessivamente), necessitano di una lettura costituzionalmente ed euro-unitariamente orientata, certamente più omogenea e coordinata tra loro.
L’art. 42 bis, è stato inserito nel Capo VI del D. Lgs. n. 151 del 2001, dedicato a “Riposi, permessi e congedi”, dalla L. n. 350 del 2003. La disposizione normativa, che per gli anni in cui fu approvata, venne ampiamente individuata come una sorta di rivoluzione copernicana nelle scelte datoriali, dal momento che andava ad impattare con grandi effetti sulle scelte organizzative delle P.A, “imponendo loro adeguamenti ben maggiori dei singoli aggiustamenti gestionali riferiti ad un’assenza o all’esonero da un certo tipo di turno di servizio, appare prima facie eterogenea al contesto nel quale è stata calata”. Essa, infatti, non deve essere intesa come forma di assenza giustificata dal servizio, alla stregua di tutte le altre disposizioni richiamate in rubrica, “semmai concretizzandosi in una specifica modalità di mobilità, seppure a durata temporalmente limitata”.
I giudici del Consiglio di Stato ritengono in vero, che proprio la collocazione della norma, esprima la chiara volontà del nostro legislatore di legare indissolubilmente l’istituto di cui è causa, al regime agevolato di orario o di presenza, andando a colmare un consistente vuoto prodromico allo stesso. E in tal senso, per quanto ampie siano le possibilità di assentarsi dalla sede di lavoro per prendersi cura dei propri figli, “ove non venga garantita la vicinanza delle sedi dei genitori esse rischiano di rimanere lettera morta”.
Per i giudici di Palazzo Spada in fondo “è considerazione di intuitiva consistenza, infatti, quella in forza della quale qualsivoglia garanzia di parità nell’accudimento dei figli non può trovare effettiva esplicazione se il nucleo familiare è diviso e distante per esigenze lavorative dei genitori”. In tale dimensione, peraltro di facile lettura e di buon senso, facilitare le possibilità di avvicinamento delle sedi di lavoro “costituisce l’antecedente logico, prima che giuridico, di tutto il sistema delle tutele, vero e proprio presupposto “logistico delle stesse“, in assenza del quale esse finiscono per pesare esclusivamente, su quello che tra i genitori “ha la possibilità “fisica” di prendersi cura dei figli, in linea di massima e per connaturale impostazione del sistema, la donna”.
Non è casuale dunque, che la maggiore attenzione che nell’ambito delle riforme del lavoro (sia in chiave pubblicistica che privatistica), si è inteso dare al bene “tempo”, sta alla base anche della già ricordata modifica dell’art. 42 bis del D. Lgs. n. 151 del 2001.
La scelta di integrare l’obbligo motivazionale del diniego con il riferimento a “casi o esigenze eccezionali”, infatti, consegue ad una delle poche disposizioni immediatamente precettive contenute nella delega n. 124 del 2015, che all’art. 14, esso pure rubricato non a caso, “Promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche”, mira ad incentivare ridetta promozione, seppure demandandola ad atti organizzativi, piuttosto che normativi.
Tale impostazione, nell’ambito del migliore sviluppo delle scienze economiche e giuslavoristiche, conferma di fatto quei substrati che si sono imposti nel corso del tempo, in nome di strategie organizzative in cui, accanto alla valorizzazione delle competente o al riconoscimento e premialità del merito, la pietra angolare su cui poggia il buon andamento di una struttura lavorativa, è certamente riscontrabile e misurabile nella “positività del clima lavorativo, che si consegue anche agevolando tutto ciò che, senza pregiudicare il servizio, favorisce lo sviluppo della rete affettiva e relazionale del dipendente”. L’art. 14 della L. n. 124 del 2015 proprio con la sua significativa rubrica, traccia il definitivo legame tra la disposizione che va a novellare e cioè l‘art. 42 bis del D. Lgs. n. 151 del 2001, e la cornice nella quale si era da subito scelta di inserirla, “ponendola sotto l’egida delle medesime finalità che stanno alla base degli altri istituti compresi nel medesimo Capo del Testo unico, cui rimane indissolubilmente legata anche nei successivi sviluppi teleologicamente orientati ad affinarne le potenzialità”.
I giudici del Consiglio di Stato ricordano che allargando il raggio di azione, la stessa sezione decidente, ha già avuto modo di ripercorrere l’evoluzione di tali tematiche anche nell’ambito del diritto unoniale, nella doppia esigenza di semplificare e agevolare la conciliazione della vita lavorativa con quella personale (senza trascurare naturalmente la dimensione affettiva), ma anche di riconoscimento, come diritto di ogni padre ad essere soggetto attivo nella formazione della prole, fin dai primissimi anni di vita di ogni figlio.
Va in proposito come già con la decisione del 16 luglio 2015, n. C-222/14, la Corte Europea aveva interpretato l’Accordo quadro sul congedo parentale della vecchia direttiva 96/34/CE nel senso che, un genitore non può essere privato del diritto al congedo parentale e che pertanto la situazione professionale- del coniuge non può ostare all’esercizio di tale diritto. La successiva direttiva europea 2010/18/EU, (contenente il nuovo accordo quadro in materia di congedi parentali), al considerando n. 8 ricorda come “le politiche familiari dovrebbero contribuire al conseguimento della parità di genere e che andrebbero considerate alla luce dell’evoluzione demografica, delle conseguenze dell’invecchiamento della popolazione, del superamento del divario generazionale, della promozione della partecipazione delle donne al mondo del lavoro e della ripartizione delle responsabilità familiari tra donne e uomini”. Inoltre nel considerando n. 12 rileva come “in numerosi Stati membri l’invito agli uomini ad accettare un’equa ripartizione delle responsabilità familiari non ha apportato risultati sufficienti; e che pertanto andrebbero prese misure più efficaci per incoraggiare una più equa ripartizione delle responsabilità familiari tra uomini e donne”.
In termini ancor più generali la nuova direttiva europea n. 2019/1158 (relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza), c.d. “Work-life Balance“, nel regolare il congedo di paternità obbligatorio, analizza con attenzione la titolarità e modalità di fruizione dello stesso e dei relativi mezzi per assicurarne il godimento effettivo, compresa la maggior disponibilità economica, con la finalità di incentivarne l’uso anche da parte dei padri, nel riconoscendo altresì il diritto di richiedere modalità flessibili del tempo e del rapporto di lavoro. In recepimento di tale direttiva è stato adottato il D. Lgs. 30 giugno 2022, n. 105, che disciplina sul punto importanti disposizioni per migliorare e facilitare la conciliazione tra attività lavorativa e vita privata per i genitori e prestatori di assistenza, nel presupposto logistico della condivisione delle responsabilità di cura in nome della parità di genere in ambito lavorativo e familiare. Inoltre, specifiche disposizioni riguardano per quel che interessa, il congedo obbligatorio di paternità e la definizione delle modalità di fruizione, compreso il trattamento economico e normativo, in quanto ontologicamente avvertito come momento centrale dell’ambito delle tutele in materia. Infine, sono previste norme sulle priorità di accesso al lavoro agile, strumento pensato per il miglioramento della qualità del lavoro del dipendente pubblico.
Sotto l’angolazione della Legge fondamentale dello Stato, non si può prescindere dalla progressiva evoluzione interpretativa dell’art. 37, comma 1 della Costituzione, [5] laddove declina “l’essenziale funzione familiare”. Per il Collegio Amministrativo infatti, il contenuto di tale disposizione normativa “sublima la convergenza tra ricerca del giusto equilibrio vita/lavoro del dipendente, quale esigenza di sviluppo della personalità del singolo, in ambito anche familiare, e il nuovo fil rouge che sta alla base di tutti gli istituti a tutela della maternità, ovvero, in senso più ampio, della genitorialità, ovvero la tutela dell’interesse del minore”.
L’evoluzione e lo sviluppo di tale peculiare profilo del diritto di famiglia si è gradualmente indirizzata sempre più, verso la valorizzazione del prevalente tutela degli interessi della prole, e in tale direzione, del conseguente riconoscimento sia di paritetici diritti-doveri di entrambi i coniugi, che della loro reciproca integrazione nella cura dell’armonico sviluppo psico-fisico del figlio. È stato così riconosciuto nel corso del tempo a livello di linee generali, che anche il padre è idoneo, e quindi tenuto a prestare assistenza morale e materiale nonchè supporto affettivo al minore.
In tale prospettiva, sono da segnalare diverse pronunzie della Consulta che si sono pronunziate sulla questione di cui di discute. Tra queste va ricordata la sentenza della Corte Costituzionale n. 1 del 14 gennaio 1987, che nell’estendere il diritto ai riposi giornalieri retribuiti al padre lavoratore, nel caso in cui l’assistenza della madre al minore fosse diventata impossibile per decesso o grave infermità, ne ha chiarito la finalità non di solo soddisfacimento delle esigenze biologiche del neonato, ma di possibilità di prestare qualsiasi forma di assistenza del bambino nel primo anno di vita. Nella stessa direzione, si pone la successiva pronunzia della Corte Costituzionale n. 179 del 2 aprile 1993, che, riesaminando la questione in termini più generali, ha ritenuto ormai superata la dimensione di una rigida distinzione dei ruoli fra i genitori nell’assistenza del bambino, dichiarando incostituzionale l’art. 7 della L. n. 903 del 9 dicembre 1977 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro) nella parte in cui, non estendeva in ogni ipotesi (e non invece in limitati casi) al padre lavoratore (in alternativa alla madre lavoratrice purché consenziente), il diritto al riposo giornaliero per assistere il figlio nel suo primo anno di vita: secondo il Giudice delle leggi, i due genitori nello spirito di leale collaborazione e sempre nell’esclusivo interesse del figlio, devono di volta in volta decidere quale di essi, assentandosi dal lavoro, possa meglio provvedere alla sua assistenza e cura.
Sulla base del quadro normativo e giurisprudenziale, certamente coerente con la prospettiva europea e la cornice costituzionale, non vi è alcun motivo valido “per limitare la fruibilità dell’assegnazione provvisoria solo ad un figlio, quanto meno laddove si sia esaurito il tempo massimo accordato al riguardo dal legislatore”. Né a tale ricostruzione ostano le paventate conseguenze discriminatorie che la reiterata concessione del beneficio nel corso della vita del dipendente pubblico, finirebbero per generare rispetto alle analoghe richieste dei colleghi, in quanto asseritamente destinate ad essere disattese.
Per il Consiglio di Stato, nessuna disposizione ex lege, “prevede la postergazione di una nuova istanza ad una conferma, ovvero alla reiterazione di un’istanza precedente.” Le regole uniformi da applicare in via generale per ogni amministrazione, sono valide anche per il personale delle Forze di Polizia e come tali, non cambiano o seguono un iter diverso, non ammettendo alcuna prelazione di una domanda rispetto ad un’altra.
In vero ogni domanda, dovrà pur sempre essere scrutinata e valutata alla luce di particolari o eccezionali situazioni, che ne giustificano il diniego ovvero delle motivazioni organizzative o di servizio “che ben potrebbero essere mutate rispetto al momento dell’istruttoria della richiesta originaria, proprio in ragione, ad esempio, di carenze sopravvenute di organico astrattamente riconducibili alla concessa fruizione del medesimo beneficio normativo”. Trattasi tuttavia, di valutazioni rimesse per ogni ufficio, alla concretezza dell’istruttoria del caso singolo, meglio ancora se in applicazione di criteri generali predeterminati che consentano in nome del principio della trasparenza di “individuare a priori le modalità di scrutinio della eventuale pluralità di domande contestualmente pervenute, ovvero connotate da elementi oggettivi di diversificazione che l’Amministrazione intenda preventivamente valorizzare”.
In sintesi secondo il Collegio Amministrativo, la possibilità rectius la doverosità, di scrutinare nell’immediatezza ogni esigenza organizzativa o di servizio, in ordine di progressione le istanze di assegnazione temporanea “esclude alla radice qualsivoglia possibile conseguenza discriminatoria tra dipendenti”. Per contro, potenziali o reali profili di illegittimità costituzionali possono anche riscontrarsi invece, in una lettura della norma “che imponga di scegliere quale figlio accudire, di fatto limitando la tutela al primogenito o al primo per il quale venga avanzata la relativa richiesta, con palese svantaggio per tutti gli altri”.
Infine, per i giudici di Palazzo Spada, non coglie nel segno neanche l’altra doglianza sollevata dal Ministero dell’interno, sul semplice richiamo alla criticità del contesto territoriale genericamente richiamato, nonché l’avvenuta presentazione di ulteriori domande di fruizione della medesima assegnazione temporanea, perché concretamente essa “nulla dice in ordine alle difficoltà organizzative concrete dell’Amministrazione”. Lo stesso è a dire per la generica descrizione delle criticità del contesto, alla risoluzione delle quali “neppure appare chiaro come l’interessato, svolgendo mansioni di archivista, potesse contribuire in maniera risolutiva”.
Per tutto quanto sopra detto, alla luce della ricostruzione normativa e della giurisprudenza richiamata, l’appello dell’amministrazione contro la pronunzia di primo grado, deve essere respinto e per l’effetto, va confermata la sentenza del T.A.R. Lombardia con le spiegate integrazioni motivazionali.
6. Riflessioni finali
L’importanza della sentenza in oggetto, si percepisce in quanto, dalla lettura delle motivazioni e del percorso argomentativo adottato, emerge chiaramente una pronunzia dai caratteri tipicamente liberali e più rispettosa dei diritti fondamentali dell’individuo (in questo caso genitoriali) da esprimersi all’interno della sua naturale formazione sociale quale è quella della dimensione familiare.
Tutto questo, tende a cogliersi dalla circostanza che il Collegio Amministrativo, respinge nettamente l’idea di una lettura che sia orientata a vincolare e limitare il valore complessivo in appena tre anni nel percorso di vita lavorativa del dipendente della P.A. e non per singolo figlio.
La censura delle doglianze sollevate dall’amministrazione, che spingono verso una dimensione giuridica in cui il diritto di avvicinamento del dipendente pubblico, in ragione della nascita di un figlio minore, deve essere riferito al periodo massimo di fruizione dell’agevolazione legislativa (stimato in complessivi tre anni )e non moltiplicando dunque il citato limite per ogni figlio con età inferiore ai tre anni), presterebbe il fianco a profili giuridici contra legem e potenzialmente anti costituzionali, in quanto, finirebbe per ammettere la tutela a protezione soltanto del primo genito (o in ogni caso al primo dei figli per il quale il quale viene avanzata richiesta), con evidente svantaggi e ingiustizie nei confronti del resto della prole.
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[1] Ai fini di una corretta valutazione complessiva della vicenda sottoposta all’attenzione del Collegio Amministrativo, va ricordato come la prima assegnazione provvisoria ex art. 42-bis del D. Lgs. n. 151 del 2001 era stata concessa al richiedente in data 4 settembre 2017, ed era egualmente motivata dalla necessità di avvicinare la propria sede di lavoro a quella della moglie.
[2] Il Ministero dell’Interno a sostegno delle proprie argomentazioni rimanda ai chiarimenti forniti al riguardo nella circolare INPS n. 32 del 6 marzo 2012 avente ad oggetto Modifica alla disciplina in materia di Congedi e permessi per l’assistenza a disabili in situazione di gravità a sua volta esplicativa e attuativa delle indicazioni operative rispetto alle disposizioni introdotte dagli artt. 3, 4, e 6 del D.lgs. 119/2011. Tra le novità maggiormente rilevanti vi sono quelle relative alle modalità di fruizione del prolungamento del congedo parentale, alla concessione del congedo straordinario, ai permessi per l’assistenza a più persone disabili in situazioni di gravità.
[3] L’art. 42 bis del D. Lgs 151 del 20221 così dispone: “1. Il genitore con figli minori fino a tre anni di età dipendente di amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, può essere assegnato, a richiesta, anche in modo frazionato e per un periodo complessivamente non superiore a tre anni, ad una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale l’altro genitore esercita la propria attività lavorativa, subordinatamente alla sussistenza di un posto vacante e disponibile di corrispondente posizione retributiva e previo assenso delle amministrazioni di provenienza e destinazione. L’eventuale dissenso deve essere motivato e limitato a casi o esigenze eccezionali. L’assenso o il dissenso devono essere comunicati all’interessato entro trenta giorni dalla domanda. Il comma 2 prevede che “Il posto temporaneamente lasciato libero non si renderà disponibile ai fini di una nuova assunzione.”
[4] Secondo il pensiero costante della giurisprudenza tutto questo si veridica “in considerazione delle esigenze di tutela di valori aventi rilievo costituzionale, che deve trovare un necessario bilanciamento, anche in sede motivazionale, con le esigenze di servizio dell’Amministrazione delle Forze di polizia (Cons. Stato, sez. II, 7 novembre 2022, n. 9708; id., 27 luglio 2022, n. 6622).
[5] L’art. 37 comma 1 della Costituzione così dispone: “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.
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Renzo Cavadi
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