La giustiziabilità dell’atto politico

La giustiziabilità dell’atto politico

La Costituzione riconosce e garantisce pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale: tali principi sono riconosciuti in via generale dall’art. 24 Cost., e subiscono un irrobustimento qualora si tratti di lesioni arrecate da atti amministrativi. In tal senso, l’art. 113 Cost. sancisce piena tutelabilità agli interessi dei privati lesi dall’attività amministrativa, attivabile innanzi al giudice ordinario ovvero a quello amministrativo, a seconda della tipologia di posizione giuridica soggettiva che si assume violata. In base alla disposizione, dunque, ogni atto amministrativo che produca un danno alla sfera giuridica soggettiva del privato è astrattamente giustiziabile innanzi al giudice competente. Nonostante la norma costituzionale sembri non ammettere eccezioni né limitazioni a riguardo, il legislatore, già in epoca antecedente, era intervenuto sottraendo alla sfera cognitiva del giudice amministrativo una speciale categoria di atti amministrativi, qualora fossero inquadrabili come atti politici. Già l’art. 31 del t.u. del Consiglio di Stato (r.d. n. 1054/1924) negava la possibilità di ricorrere al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale avverso atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico. Tale previsione venne successivamente ricalcata dal legislatore attraverso l’Art. 7 del Codice del processo amministrativo attualmente in vigore (D.lgs n. 104/2010). Una simile previsione garantisce e nega al contempo due principi cardine dello Stato di diritto: assicura, da un lato, la separazione dei poteri, nel caso di specie di quello giudiziario da quello esecutivo, negando, dall’altro, la tutela giurisdizionale per cittadino leso da un atto amministrativo a contenuto politico.

Per fronteggiare una simile situazione, che, seppur dicotomica, si reputava da mantenere necessariamente all’interno di uno Stato di diritto, dottrina e giurisprudenza si sono mosse elaborando, in termini fortemente restrittivi, le caratteristiche proprie della categoria degli atti sottratti a controllo giurisdizionale. Secondo tale prospettiva, poteva definirsi politico solo quell’atto amministrativo che fosse, in primis, completamente libero nel fine, emanato nell’esercizio del potere politico e teso all’individuazione delle scelte politiche del Governo, il quale, in secundis, provenisse da uno tra i supremi organi dello Stato titolato alla direzione e all’indirizzo della Res publica secondo la Costituzione: Governo, Parlamento, Presidente della Repubblica e Presidente di Regione. Sulla base di tale approccio, si sono individuati alcuni atti politici “tipo” come, in particolare: gli atti aventi forza di legge (legge ed atti ad essa equiparati), gli atti formalmente amministrativi privi di forza legislativa o giurisdizionale (proposte di nomina o di revoca di ministri, di Senatori a vita, di giudici costituzionali), gli atti di concezione della grazia o di commutazione della pena, gli atti di elezione del Presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali e dei membri del CSM, ed infine quelli di scioglimento delle Camere.

Secondo dottrina e giurisprudenza maggioritarie, tutto ciò che si scollava dallo schema di atto politico – tipo, entrava necessariamente all’interno della categoria degli atti di alta amministrazione. Sono tali quegli atti amministrativi dotati, anch’essi, di contenuto discrezionale amplissimo, ma che, contrariamente a quelli politici, sono passibili di controllo giurisdizionale, non essendo liberi nel fine poichè finalizzati al soddisfacimento di un interesse pubblico concreto specificatamente individuato dalla legge. Proprio in seno ad una delle controversie nata in merito alla natura giuridica da attribuire al provvedimento di nomina ad assessore regionale da parte del Presidente della Giunta,  la Consulta con Sent. n. 81/2012 ha compiuto un’interpretazione adeguatrice  dell’Art. 7 c.p.a., di cui viene fornita una lettura conforme alla Costituzione, ed in particolare al principio di giustiziabilità delle situazioni giuridiche soggettive. Riconoscendo natura politica all’atto di nomina ad assessore, la Corte precisa che “gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo, e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto”. Anche l’amplissimo potere che connota un’azione di governo, deve dunque sempre essere circoscritto dai vincoli posti dalle norme giuridiche che ne segnano i confini e ne indirizzano l’esercizio. Il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate. Per quanto attiene a quest’ultimo profilo, secondo il Consiglio di Stato,  Sez. V, n. n. 4502/2011, “le uniche limitazioni cui l’atto politico soggiace sono costituite dall’osservanza dei precetti costituzionali, la cui violazione può giustificare un sindacato della Corte costituzionale di legittimità sulle leggi e gli atti aventi forza di legge o in sede di conflitto di attribuzione su qualsivoglia atto lesivo di competenze costituzionalmente garantite” . Si ritiene, inoltre, che gli stessi siano passibili anche di controllo puramente politico, posto in essere da parte del corpo elettorale o del Parlamento (che può esprimere, ad esempio, voto di sfiducia per gli atti dell’esecutivo).

Attraverso poche righe, senza nulla lasciare all’ombra del dubbio, la Corte mette in chiaro che quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi dovrà necessariamente attenersi anche la politica. La valutazione degli atti politici rispetto ai parametri normativi consiste, infatti, in un controllo giuridico necessario, conforme ai fondamentali principi dello Stato di diritto che, come tali, sono preminenti su qualsiasi tipo di attività, da qualunque organo posta in essere. 


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