La legittimazione ad agire ex lege dell’AGCM e dell’ANAC
La legittimazione ad agire è, insieme all’interesse a ricorrere, una condizione dell’azione, la cui sussistenza è necessaria, oltre a quella dei presupposti processuali (quali la competenza del giudice a cui è rivolta la domanda, la capacità o legittimazione processuale e l’osservanza del termine decadenziale per la proposizione del ricorso) per la pronuncia sul merito della domanda da parte del giudice.
La legittimazione ad agire attiene alla titolarità del diritto di azione e si configura in capo al titolare della situazione giuridica soggettiva.
Invece, l’interesse a ricorrere – il cui fondamento normativo è rinvenibile nell’art. 100 c.p.c. per via del rinvio esterno ex art. 39 c.p.a. – si sostanzia nell’utilità o vantaggio, anche solo potenziale, che il soggetto legittimato ad agire trarrebbe dall’ottenimento di una pronuncia favorevole nel merito. Esso sussiste quando il provvedimento amministrativo impugnato determina una lesione personale, attuale e concreta. L’interesse a ricorrere può essere non solo di caratteriale patrimoniale, ma anche morale, strumentale o risarcitorio.
Occorre premettere che il processo amministrativo è un processo di giurisdizione soggettiva ex art. 103 Cost., il cui scopo non è quello di stigmatizzare la violazione di legge, bensì quello di tutelare la situazione giuridica soggettiva fatta valere dal ricorrente. Ne consegue che, per la valida promozione del giudizio, il soggetto sia legittimato ad agire e possegga un interesse a ricorrere. Al di fuori dei casi di giurisdizione esclusiva (artt. 103 e 113 Cost., 7 c.p.a.), la posizione giuridica soggettiva fatta valere nel processo amministrativo è di interesse legittimo.
Secondo la teoria prevalente, cd. normativa, l’interesse legittimo è quell’interesse del singolo non solo differenziato dall’interesse della generalità dei consociati, ossia distinto dal “quisque de populo”, ma anche qualificato dalla norma attributiva del potere amministrativo nella valutazione complessiva di interessi pubblici primari e secondari, nonché di interessi privati rilevanti per la fattispecie in esame. Dunque, l’interesse legittimo è l’interesse ad un bene della vita sostanziale, oggetto del potere amministrativo (ampliativo o restrittivo).
Le caratteristiche di qualificazione e di differenziazione dell’interesse del singolo hanno posto un problema in materia di tutela processuale degli interessi superindividuali (o “diffusi”), che sono quegli interessi comuni ad una collettività complessivamente intesa e che hanno per oggetto beni non suscettibili di appropriazione né di godimento esclusivo. Per superare la natura “adespota” di tali interessi, e, dunque, individuare il titolare della legittimazione ad agire per gli stessi, la giurisprudenza ha “soggettivizzato” l’interesse diffuso in capo ad organizzazioni di tipo associativo o comitati, che perseguono, come fine istituzionale, prevalente o esclusivo, la tutela degli interessi della collettività che rappresentano. Ne risulta un interesse collettivo consistente non nella sommatoria, bensì nella sintesi degli interessi individuali degli associati in un interesse collettivo qualitativamente diverso da quelli dei singoli. Così l’interesse diffuso assurge “al rango di interesse legittimo meritevole di tutela giurisdizionale” (Cons. Stato, comm. spec., parere 26 giugno 2013, n. 3014).
Allo stesso modo, si è verificata una estensione giurisprudenziale dell’area degli interessi protetti in sede giurisdizionale nei confronti delle Autorità amministrative indipendenti.
Si tratta di soggetti indipendenti dal potere politico, preposti alla cura di settori caratterizzati da elevato tecnicismo.
Alla base dell’evoluzione della PA da un modello piramidale dello Stato cavouriano ad uno policentrico e multiorganizzato dello Stato dei primi del ‘900, vi è stata una progressiva recessività del modello della gestione diretta dei servizi pubblici da parte dello Stato e l’abdicazione all’intervento pubblico diretto in economia. A ciò è seguito un cammino di privatizzazione delle imprese pubbliche e la creazione di organismi indipendenti di regolazione e garanzia nei settori abdicati.
Dal punto di vista funzionale-oggettivo, le Autorità amministrative indipendenti sono caratterizzate non solo da imparzialità, ma anche da neutralità. Tali caratteristiche sono intese, rispettivamente, come equità di condotta nella realizzazione dell’interesse pubblico primario, tramite contemperamento con gli altri interessi pubblici e privati in gioco, e come indifferenza dell’autorità indipendente rispetto ai protagonisti degli interessi confliggenti da comporre, il suo essere terza e giudicante dinnanzi a tutti i destinatari dell’ambito da regolare.
Dal punto di vista soggettivo, le autorità si differenziano dalle tradizionali PA in quanto indipendenti dall’organo politico.
Tra le più importanti si annoverano l’AGCM e l’ANAC.
La particolare natura di tali soggetti e i relativi interessi pubblici protetti hanno sollevato dubbi sulla relativa legittimazione processuale, oggi prevista ex lege.
In particolare, l’art. 21-bis comma 1 della l. n. 287/90 attribuisce all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM o Antitrust) la legittimazione ad agire in giudizio “contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato”.
Il comma 2 delinea una fase precontenziosa, avviata su iniziativa dell’Autorità, la quale, in caso di atto della PA contrario alle norme sulla concorrenza e sul mercato, emette un parere motivato, indicante gli specifici profili delle violazioni riscontrate. Laddove la PA non si adegui al parere entro i sessanta giorni successivi, l’Autorità può presentare ricorso, tramite l’Avvocatura dello Stato, entro i trenta giorni successivi.
La portata innovativa dell’istituto risiede nell’aver riconosciuto la possibilità ad un’autorità amministrativa di impugnare gli atti di altre amministrazioni.
I dubbi sono sorti, dunque, circa la titolarità dell’Antitrust di una situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo e circa la sussistenza di un relativo interesse a ricorrere.
Secondo parte della dottrina, l’Autorità agirebbe a tutela di un interesse pubblico indifferenziato, consistente nell’interesse al rispetto delle norme di legge – in questo caso, sulla concorrenza e sul mercato – violate da quella determinata PA tramite l’adozione di un atto contrario.
L’assenza di un interesse legittimo in senso proprio comporta una diversa qualificazione dell’interesse a ricorrere, che non è caratterizzato dai tipici connotati di personalità, attualità e concretezza.
Quest’ultimo, semmai, darebbe luogo ad una tutela giurisdizionale di diritto oggettivo, in cui il giudice interviene a tutela non di situazioni giuridiche soggettive individuali, bensì a tutela di un interesse generale al rispetto della concorrenza. Ciò comporterebbe un mutamento, incompatibile con il dettato di cui all’art. 103 Cost., della natura soggettiva della giurisdizione.
Secondo altra parte della dottrina, avallata dalla giurisprudenza prevalente, sia amministrativa che costituzionale, l’Antitrust possiede una legittimazione ad agire ordinaria, in quanto è portatrice di un interesse particolare e differenziato, attribuitole ex lege, volto alla migliore attuazione del bene della vita della concorrenza, di cui è affidataria.
Il processo di “soggettivizzazione”, compiuto tramite l’individuazione ex lege, determina la trasformazione di tale interesse da diffuso a collettivo, differenziato dalla collettività indistinta, e corrispondente ad un interesse legittimo superindividuale.
Inoltre, non si pongono problemi di compatibilità costituzionale con il dettato di cui all’art. 103 Cost. in quanto, anche in questi casi, sono riscontrabili alcuni aspetti tipici di un processo di giurisdizione soggettiva, quali: l’avvio del processo su iniziativa del ricorrente, che non è obbligato ad agire; la chiusura del processo con possibilità di ritiro del ricorso da parte del ricorrente; la cognizione del giudice amministrativo limitata ai motivi del ricorso.
Il meccanismo disposto dai commi 1 e 2 dell’art. 21 bis in esame è coerente ad esigenze di leale cooperazione tra le amministrazioni e di economia processuale. Infatti, l’esperimento della fase precontenziosa di cui al comma 2, caratterizzata, come già detto, dall’emissione del parere motivato dell’Autorità cui la PA è chiamata a conformarsi, è condizione indefettibile per l’accesso al ricorso giurisdizionale, che, dunque, si pone come extrema ratio, comunque rimessa alla discrezionalità dell’Autorità che può decidere di non agire in giudizio.
Tuttavia, l’art. 21 bis presenta alcune criticità. Infatti, dato che la norma non specifica nulla circa il decorso del termine di sessanta giorni entro il quale l’Autorità deve emettere il parere, si deve ritenere che esso decorra da quando la stessa venga a conoscenza dell’atto lesivo della concorrenza. Pertanto, il parere potrebbe sopraggiungere anche oltre il “termine ragionevole” o quello di diciotto mesi in caso di provvedimenti attributivi di vantaggi economici previsti dall’art. 21-nonies della l. 241/1990. La tutela dell’interesse pubblico contrasterebbe, così, con il limite temporale dell’autotutela, posto a presidio dei principi di affidamento e di certezza del diritto.
Inoltre, l’impugnazione promossa dall’Autorità avrà ad oggetto non la mancata rimozione in autotutela del provvedimento da parte della PA, bensì la legittimità dello stesso. Il potere invocato dall’Autorità nei confronti della PA non è un potere di autotutela discrezionale, ma di mero ritiro sui generis, totalmente vincolato. Ne consegue che il sindacato giurisdizionale non riguarderà la sussistenza dei presupposti dell’autotutela, ma la legittimità dell’atto originario lesivo delle regole sulla concorrenza.
Parimenti, problemi simili a quelli appena esaminati sono sorti in relazione all’ANAC (Autorità nazionale anticorruzione), cui spetta la vigilanza nel settore degli appalti pubblici, la prevenzione della corruzione e il perseguimento della trasparenza nelle PA.
Ai sensi dell’art. 211 co. 1 bis del Codice dei contratti pubblici (D.lgs. 50/2016), così come modificato nel 2017, l’Autorità è legittimata a ricorrere direttamente avverso bandi, atti generali e provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto quando contrari alle norme in materia di contratti pubblici.
La possibilità di prescindere dal parere discende dal “rilevante impatto” del contratto, da valutare in termini sicuramente quantitativi, ma non anche qualitativi (si pensi ai contratti che abbiano ad oggetto gli interessi sensibili). Qui non è previsto alcun termine per il ricorso, per cui si ritiene che valga il termine di trenta giorni ex art. 120 c.p.a. per il rito in materia di contratti pubblici, così come desumibile dal rinvio al regolamento attuativo dell’ANAC di cui al co. 1 quater, con il quale si individuano i casi in cui l’Autorità ha la facoltà o il dovere di esercitare il potere di azione.
Tale previsione si differenzia da quella di cui all’art. 211, co. 1 ter, dove, invece, l’emanazione del parere è condizione indefettibile per l’accesso al ricorso giurisdizionale. Infatti, l’Autorità, nel caso in cui riscontri gravi violazioni delle norme sull’evidenza pubblica da parte della PA, può emettere un parere motivato, entro un termine non superiore a sessanta giorni, che decorre “dalla notizia della violazione”, intimando alla stazione appaltante di conformarvisi.
Il presupposto del potere attribuito ex lege all’Autorità è configurato da una grave violazione del codice, identificabile sulla base dell’entità del discostamento dal parametro legale, indipendentemente dall’importanza del contratto.
Anche qui, come nel caso dell’Antitrust, si è dubitato circa la compatibilità dell’istituto con la giurisdizione soggettiva, cui è possibile estendere le conclusioni della giurisprudenza prevalente, di cui si è detto sopra: l’ANAC è portatore di un interesse differenziato e qualificato al rispetto delle norme di evidenza pubblica, quindi è legittimata a ricorrere.
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