La libertà di manifestazione del pensiero nell’era dei social network

La libertà di manifestazione del pensiero nell’era dei social network

A seguito degli eventi di protesta dei sostenitori di Trump a Capital Hill, Twitter ha bloccato definitivamente l’account dell’ex Presidente americano Donald Trump, accusato di aver incoraggiato i suoi sostenitori a interrompere la certificazione della vittoria del democratico Joe Biden da parte del congresso e ha sospeso in modo permanente circa 70.000 account affiliati al movimento pro-Trump QAnon, per impedire di utilizzare il social network per fini violenti. Analogamente, Facebook ha bloccato tutti i contenuti che contengono lo slogan di Donald Trump “Stop the steal” (fermate il furto), intonato dai suoi sostenitori durante l’assalto a Capitol Hill il 6 gennaio; ha poi rimosso il video in cui Donald Trump invitava i manifestanti ad andare a casa e allo stesso tempo denunciava il furto delle elezioni (in quanto il video contribuiva al rischio che si perpetrassero ulteriori proteste e violenze) e ha infine bloccato indefinitamente il suo profilo sul social network.

L’episodio in questione ha destato parecchie preoccupazioni e lamentele con riferimento alla legittimità o meno di un atto del genere. In particolare, sono stati in molti a chiedersi se l’atto rappresentasse una vera e propria censura mossa dai titolari dei social network nei confronti dell’ormai ex Presidente americano, giustificata dalle contrarie idee politiche possedute dagli stessi, ovvero se potesse considerarsi un atto legittimo in quanto applicazione delle condizioni d’uso previste all’atto di iscrizione del social network. Coloro i quali sostengono il primo orientamento ritengono che, trattandosi di social network con una così grande piazza di utenti, un atto del genere non possa che avere lo scopo di orientare il pensiero dei suoi utenti, soprattutto se mosso nei confronti di un soggetto, quale il Presidente americano, che ha grande risonanza sul social stesso.

Al fine di valutare la legittimità o meno di questo atto, è opportuno preliminarmente indagare sulla natura giuridica di Internet.

La dottrina sul punto non è ancora concorde, ma una cosa è certa: internet non appartiene a nessuno, non è finanziato da nessun governo o organizzazione internazionale e non è un servizio commerciale. Da ciò discende, quindi, la mancanza di un controllo effettivo da parte degli Stati.

Il problema della natura giuridica di Internet, peraltro, è rilevante perché, una volta individuata la corretta natura di esso, sarebbe possibile individuare la legge da applicare ad esso per la sua regolamentazione, nonché il soggetto competente in caso di conflitti al suo interno. Problema di difficile soluzione poiché nel diritto internazionale i principi tradizionali di individuazione della legge applicabile e del giudice competente in caso di controversie sono stati elaborati per essere applicati ad uno spazio fisico e territoriale, e non ad uno spazio virtuale quale è Internet.

Pertanto, sono state elaborate diverse soluzioni:

– Secondo un primo orientamento, Internet dovrebbe essere regolato secondo la Netiquette, cioè un complesso di regole di comportamento volte a favorire il rispetto reciproco tra gli utenti: il cd. galateo di Internet;

– A detta di altri, invece, per disciplinare la responsabilità degli operatori in Internet, si potrebbe fare ricorso ai cd. disclaimer, ossia le dichiarazioni di esclusione della responsabilità, solitamente inserite nella home page da parte dei provider, con le quali si dettano delle regole al fine di limitare o escludere del tutto la responsabilità dei provider nel caso in cui i contenuti condivisi dagli utenti configurino illeciti;

– Un’altra soluzione sarebbe quella di far ricorso al potere regolatore di vari enti statali o sovrastatali;

– Infine, un altro orientamento propone la stipulazione di accordi a valenza internazionale che uniformino la materia sia dal punto di vista delle norme sostanziali che da quello delle norme di conflitto.

L’urgenza della regolamentazione di Internet discende anche dal fatto che Internet rappresenta un particolare mezzo di circolazione di messaggi di varia natura.

Nel nostro ordinamento, ad esempio, Internet rappresenta un altro dei mezzi di diffusione della libertà di espressione di cui all’articolo 21 Costituzione e, conseguentemente, non possono essere frapposti condizionamenti alla diffusione del pensiero tramite la Rete.

Analizzando poi nello specifico i social network, occorre ricordare che quando ci si iscrive su queste piattaforme, si accettano le regole delle medesime. I social network sono dei servizi di rete sociale gestiti dalla società privata di appartenenza (ad esempio Facebook o Twitter) che contengono delle regole ben precise, violate le quali si può incorrere in diverse sanzioni, quali la cancellazione del contenuto condiviso, la sospensione dell’account o, nei casi più gravi, la cancellazione definitiva di quest’ultimo.

Ad esempio, la policy di Facebook (le cui linee guida vengono ogni anno aggiornate) prevede la censura dei contenuti quando questi diffondano fake-news, violenza, immagini di nudo, incitino all’odio, al suicidio o all’autolesionismo, al terrorismo o violino la proprietà intellettuale. Se il post rientra in una di queste categorie, scatta in automatico, o dietro segnalazione degli utenti, la censura e il post viene immediatamente rimosso.

Per quanto riguarda la policy di Twitter, invece, è severamente vietato pubblicare contenuti che incitino all’odio e alla violenza, a sfondo sessuale o contro le regole di sicurezza e civiltà. In questi casi, Twitter contrassegna il contenuto come “sensibile”, bloccando temporaneamente l’account del soggetto che lo ha pubblicato fino alla rimozione del tweet. In casi più gravi, invece, rimuove direttamente i contenuti scorretti o, quando le violazioni vengono commesse più volte, sospende in modo permanente l’accesso al social.

Sulla base di tali premesse, ipotizziamo quale avrebbe potuto essere la conseguenza nel caso in cui un episodio, come quello in esame, si fosse verificato in Italia. Ad esempio, nel nostro ordinamento, i gestori delle piattaforme Internet potrebbero essere considerati responsabili nel caso in cui si verifichino degli illeciti sui propri siti e questi non intervengano per rimuovere i contenuti.

Occorre fare riferimento innanzitutto alla direttiva europea n. 2000/31/CE, attuata in Italia mediante il decreto legislativo n. 70/2003. Sulla base di questa disciplina, infatti, viene attribuita ai provider la responsabilità civile extracontrattuale, ex articolo 2043 codice civile, per gli illeciti commessi dai loro utenti.

Inoltre, da un lato si sottolinea come l’attività svolta dai provider dei social network non può di certo essere paragonata a quella svolta dai direttori responsabili di pubblicazioni periodiche o dagli editori di pubblicazioni non periodiche (articoli da 57 a 58bis codice penale), in base al principio del divieto di interpretazione analogica della legge penale[1].

Dall’altro, però, nella giurisprudenza di legittimità si riscontra un orientamento, consolidato da ultimo con la sentenza n. 7708 del 19 marzo 2019 della prima sezione Cassazione civile, secondo cui il provider è da considerarsi responsabile nel caso di illeciti commessi sulla propria piattaforma ad alcune condizioni. La Corte ha, in particolare, reso un importantissimo chiarimento circa l’interpretazione dell’articolo 16 decreto legislativo n. 70 del 2003, che attua l’articolo 14 della Direttiva 2000/31/CE e che introduce un limite al principio generale dell’irresponsabilità dei provider, disponendo che quest’ultimo è responsabile quando:

– Sia effettivamente a conoscenza dell’illiceità dell’attività o dell’informazione e sia al corrente di fatti o circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione;

– Non agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso appena ha conoscenza di tali fatti, su comunicazione dell’autorità giudiziaria o amministrativa competente.

Peraltro, questo orientamento della nostra giurisprudenza di legittimità conferma quello che è l’indirizzo dominante della giurisprudenza comunitaria. Si tratterebbe quindi non già di responsabilità oggettiva o per fatto altrui, ma di responsabilità per fatto proprio colpevole mediante omissione, ovvero per non aver impedito la protrazione dell’illecito.

A questa posizione certamente si contrappone chi ritiene che prevedere questo specifico obbligo di “sorveglianza” in capo ai provider rischierebbe di elevare i gestori delle piattaforme dei social network a giudici privati che potrebbero decidere quando un determinato contenuto sia tale da considerarsi illecito e, dunque, rimovibile. Questo obbligo rischierebbe allora di affidare loro una sorta di potere di censura.

Alla luce di quanto esposto, è possibile dunque comprendere che la libertà di espressione sui social non può e non deve essere illimitata. Per quanto Internet sia “senza padroni”, occorre pur sempre ricordare che la nostra libertà, in generale, non può essere illimitata, ma incontra il limite naturale nella libertà altrui: pertanto, di fronte a contenuti o comportamenti che, potenzialmente, possono ledere la libertà altrui, si arresta la nostra libertà di espressione e, a parere di chi scrive, si può incorrere legittimamente nella censura di quel contenuto o comportamento.

Qualora il fatto si fosse verificato nel nostro ordinamento, il gestore della piattaforma, a conoscenza di un contenuto potenzialmente dannoso come quello di Trump che incitava alla violenza e all’odio, avrebbe potuto legittimamente rimuovere il contenuto, onde evitare di incorrere in una responsabilità per fatto proprio colposo mediante omissione. La sospensione definitiva dell’account sul social, invece, è stata una conseguenza delle plurime violazioni delle regole di base previste dal social network.

In conclusione, fino a quando i social network non riceveranno una regolamentazione esterna degli stessi, si tratterà pur sempre di società private, seppur con una piazza di utenti così grande, le cui regole saranno stabilite dai gestori delle medesime. Dunque, per quanto possa suscitare indignazione o preoccupazione la cancellazione dell’account dell’ex Presidente americano, questo rientra legittimamente nei poteri dei gestori della piattaforma. Sebbene per molti è sembrato solamente un atto politico o un modo per censurare la libertà di espressione di un individuo, a parere di scrive si tratta di un atto legittimo.

E nel caso in cui i social network venissero regolamentati dai vari Stati, siamo davvero sicuri di scampare il pericolo di eventuali censure?

 

 

 

 

 


[1] Come evidenziato in modo categorico dalla Suprema Corte in diverse sentenze. Ex plurimis: Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 35511 del 2010; Cass. Pen., SS.UU., sentenza n. 31022 del 2015; Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 12536 del 2016.

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Elena Avenia

Nata ad Agrigento nel 1994. Laureata con pieni voti e lode nel luglio del 2018, presso l'Università degli studi di Enna Kore, con una tesi in diritto processuale penale dal titolo "L'ascolto del minore nel processo penale". Diplomata nel luglio 2020 presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università degli studi di Catania. Abilitata alla professione forense il 21 settembre 2020.

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