La libertà di religione dei detenuti: il caso Saran

La libertà di religione dei detenuti: il caso Saran

In una società democratica e pluralista, la libertà di religione dovrebbe essere garantita a tutti indistintamente.

Questa libertà è infatti strettamente connessa alla sfera più intima della persona e può essere considerata inerente all’individuo in quanto tale. Vi sono tuttavia delle situazioni nelle quali il soggetto è privato della possibilità di praticare liberamente il proprio credo. Questo avviene, ad esempio, per i detenuti in istituti penitenziari, in particolar modo quando non aderiscono alla religione maggioritaria del paese dove si trovano.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (di seguito anche “Corte EDU” o “Corte di Strasburgo”), il 10 novembre di quest’anno, ha condannato la Romania al risarcimento del danno non patrimoniale a favore di un uomo musulmano il cui diritto alla libertà di religione era stato leso, durante un periodo di detenzione in un istituto carcerario del paese.

Tra il 2016 e il 2018 un uomo chiamato Ion Saran, fu detenuto in cinque carceri rumene. Al momento dell’accesso in ciascuna di esse, dichiarò di essere musulmano, chiedendo di poter ricevere dei pasti conformi al precetto del suo credo. In tre delle prigioni in cui soggiornò la sua richiesta fu soddisfatta, ma nelle prigioni di Iaşi e Miercurea-Ciuc, l’uomo si vide negare tale possibilità.

Il signor Saran prima di tutto cercò tutela rivolgendosi all’autorità giudiziaria, ma le corti rumene non accolsero la sua richiesta. Nel 2017 l’uomo decise quindi di presentare ricorso alla Corte EDU, sostenendo come le autorità rumene avessero violato l’articolo 9 in combinato disposto con il 14 della omonima Convenzione, alla luce della discriminazione subita nell’esercizio della propria libertà di pensiero, coscienza e religione, poiché non appartenente alla religione maggioritaria in Romania, quella dei cristiani ortodossi.

La Corte di Strasburgo ha innanzitutto respinto il ricorso relativo al carcere Miercurea-Ciuc per una questione di rito: il ricorso risultava inammissibile poiché presentato oltre il termine di sei mesi previsto dall’articolo 35 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Si è successivamente occupata nel merito delle violazioni avvenute durante la detenzione al carcere di Iaşi.

La Corte EDU, in primo luogo, ha verificato se la Romania avesse rispettato l’obbligo positivo, gravante sullo Stato, di garantire la libertà di religione tramite l’adozione di una consona regolamentazione relativamente alla libertà dei detenuti di vedere soddisfatte talune richieste correlate ad un particolare credo. La normativa rumena rilevante in materia conteneva una distinzione tra la dichiarazione, riguardo la propria religione, fatta nel momento dell’ammissione al carcere, libera e senza particolari formalità previste, e quella di aderenza ad una diversa religione durante il corso della detenzione. In questo secondo caso, il detenuto avrebbe dovuto fornire una prova concreta della sua nuova fede, mediante un documento rilasciato dalla autorità religiosa di riferimento.

Alla luce di tale normativa, il Tribunale rumeno che si era occupato del caso aveva risposto negativamente al reclamo del signor Saran, affermando che quest’ultimo non potesse produrre documenti per provare la sua conversione, come richiesto dalla legge. Infatti, il tribunale constatava che l’uomo si fosse definito cristiano ortodosso in principio, pur avendo egli statuito la sua appartenenza alla religione musulmana al momento della compilazione del documento per l’adesione al programma di risocializzazione e rieducazione tenutosi nelle prigioni di Iaşi, Codlea e Deva. Inoltre, nella prigione di Botoşani, dove l’uomo era stato detenuto precedentemente, le sue richieste riguardanti una alimentazione rispettosa dell’Islam erano state soddisfatte, durante tutto il periodo di permanenza.

La Corte EDU non ha ricevuto, tra l’altro, alcuna prova che il Tribunale avesse tentato, nella pratica, di verificare le dichiarazioni dell’uomo, attinenti alla propria fede, durante la sua prigionia. Né è stato fatto un tentativo di ricerca da parte delle autorità, per stabilire se il ricorrente manifestasse la sua nuova religione o la avesse manifestata precedentemente.

Secondo il Governo rumeno, gli obblighi documentali derivanti dalla normativa rumena erano volti a prevenire un abuso di diritti e tutelare la libertà religiosa degli individui. Tuttavia, dal punto di vista dei giudici della Corte Europa dei Diritti dell’Uomo, il requisito secondo il quale sia necessario fornire una prova documentale dell’adesione di un determinato soggetto ad una fede specifica, al fine di poter esercitare la propria libertà religiosa durante il periodo di detenzione in carcere, era eccessivamente rigoroso, se bilanciato con l’esigenza di offrire una garanzia di genuinità della prova, anche perché, stando alla normativa vigente in Romania al momento dei fatti, inizialmente i detenuti erano liberi di dichiarare la propria religione senza fornire alcuna prova.

La Corte di Strasburgo ha concluso che il rifiuto opposto dalle autorità rumene, alla richiesta relativa ai pasti del signor Saran, durante la sua detenzione a Iaşi, abbia costituito stata una violazione dell’articolo 9 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, secondo il quale “ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione” e “tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo”.

Nel caso in esame, è possibile osservare che la questione relativa ad un giusto equilibrio tra gli interessi dell’istituto penitenziario, degli altri detenuti e del prigioniero interessato, è stata risolta, nella normativa nazionale, a totale sfavore di quest’ultimo, che non ha nemmeno trovato tutela nel rimedio giurisdizionale interno al paese.

La Corte EDU ha inoltre constatato la capacità, e quindi la possibilità, in generale, da parte del sistema carcerario rumeno, di soddisfare le esigenze alimentari legate a credenze religiose, come avvenuto nei diversi istituti di detenzione di Botoşani, Codlea e Deva.

Sulla base di queste osservazioni, i giudici di Strasburgo hanno affermato all’unanimità la condanna della Romania al pagamento di 5mila euro a favore del ricorrente, per danno non patrimoniale.

In un precedente caso di cui si è occupata la Corte di Strasburgo a marzo 2020, Dyagilev contro Russia, essa aveva precisato che, qualora un individuo richiedesse un’esenzione speciale dal servizio militare a causa delle sue personali credenze, anche di tipo religioso, non era eccessivo esigere una prova concreta dell’autenticità del credo.

Con la pronuncia relativa al caso Saran contro Romania, invece, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha fissato uno standard più elevato di protezione del diritto alla libertà religiosa, e lo ha fatto ricordando l’importanza di garantirlo anche, e soprattutto, ai soggetti che si trovano in posizioni di particolare fragilità e svantaggio, fra i quali sono da ricomprendere i detenuti.


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Chiara Bergamini

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