La natura pubblicistica dell’attività di raccolta del risparmio

La natura pubblicistica dell’attività di raccolta del risparmio

La questione posta all’attenzione della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione e chiarita con la sentenza n. 17814 del 2023 concerne la natura privatistica o pubblicistica dell’attività bancaria, in particolare dell’attività di raccolta del risparmio, perché da ciò dipende la qualificazione del fatto di reato contestato all’imputato. Il fatto storico riguarda l’installazione su tre sportelli bancomat di apparecchiature elettroniche chiamate “skimmer”, in grado di “intercettare e memorizzare” i dati riportati sulle carte e i relativi codici pin al momento dell’inserimento delle carte di credito o bancomat nello sportello e della successiva digitalizzazione.

La giurisprudenza di legittimità ha da tempo affermato che la condotta di colui che installi, all’interno del sistema bancomat di un’agenzia di banca, uno scanner per la raccolta e la memorizzazione dei dati, al fine di intercettare comunicazioni relative al sistema informatico, configura il reato di detenzione, diffusione e installazione abusiva di apparecchiature e di altri mezzi atti a intercettare, impedire o interrompere comunicazioni informatiche o telematiche ex art. 617 quinquies c.p.

L’art. 617 quinquies c.p. è un reato di pericolo concreto, infatti, per la consumazione del reato, è sufficiente l’installazione nel sistema automatizzato di un’apparecchiatura idonea alla raccolta e alla memorizzazione dei dati informatici riservati inseriti dai fruitori del sistema, senza che sia necessario il prelievo o l’utilizzo effettivo dei dati per compiere indebiti prelievi. Da ciò si trae che il reato risulta integrato al momento dell’istallazione di un’apparecchiatura che sia idonea a consentire la raccolta o memorizzazione dei dati e non al momento dell’effettiva esecuzione dell’operazione.

Nel caso in cui dopo l’installazione del dispositivo idoneo all’intercettazione, abbia luogo l’effettiva captazione dei dati, la condotta preparatoria e di pericolo di cui all’art. 617 quinquies c.p. si trasforma in vera e propria alterazione del funzionamento del sistema informatico. L’alterazione del funzionamento di un sistema informatico o telematico o l’intervento senza diritto effettuato con qualsiasi modalità su dati, informazioni o programmi contenuti nel sistema stesso o ad esso pertinenti, che procuri a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, configura il reato di frode informatica punito ai sensi dell’art. 640 ter c.p.

Il medesimo fatto storico può dunque essere sussunto in due fattispecie di reato come conseguenza dell’evoluzione della condotta dell’autore del fatto che dall’installazione passa all’alterazione del funzionamento del sistema: si configura in questo caso un concorso apparente di norme, risolto attraverso l’applicazione del principio dell’assorbimento per evitare una superfetazione della risposta sanzionatoria che punirebbe due volte ma a diverso titolo la medesima condotta tenuta dal medesimo autore, in violazione del principio del ne bis in idem sostanziale. Tale principio è volto proprio ad evitare che uno stesso fatto venga giuridicamente addebitato due volte allo stesso autore. Il principio dell’assorbimento consente di punire la condotta solo ai sensi dell’art. 640 ter c.p., la frode informatica, poiché il fatto più grave che consiste nell’effettiva captazione dei dati personali del risparmiatore tramite l’apparecchiatura installata, assorbe il reato meno grave di installazione del dispositivo ex art. 617 quinquies c.p.

Nel caso in esame l’applicazione dell’apparecchiatura non è stata seguita dalla captazione delle informazioni, infatti la questione controversa non riguarda il concorso apparente di norme, che in questo caso non ha avuto luogo, ma la natura giuridica privatistica o pubblicistica dell’attività di raccolta del risparmio svolta dal sistema bancario, per chiarire se possa ritenersi fondata la contestazione della circostanza aggravante prevista dal comma 2 dell’art. 617 quinquies c.p. che rinvia all’art. 617 quater comma 4 n.1) c.p.

Il comma 4 dell’art. 617 quater c.p. si riferisce al fatto commesso:

1) in danno di un sistema informatico o telematico utilizzato dallo Stato o da altro ente pubblico o da impresa esercente servizi pubblici o di pubblica necessità;

2) da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, ovvero con abuso della qualità di operatore del sistema;

3) da chi esercita anche abusivamente la professione di investigatore privato.

Escludendo le ipotesi previste dai numeri 2) e 3), che aggravano sia il regime di procedibilità sia il trattamento sanzionatorio della fattispecie criminosa qualora il reato sia commesso da autori dotati di una particolare qualifica soggettiva, assente nel caso in esame, la questione attenzionata dalla quinta sezione penale della Cassazione concerne la natura privatistica o pubblicistica del servizio svolto dagli istituti di credito, poiché se l’attività di raccolta del risparmio fosse qualificata come attività privatistica non sarebbe applicabile il regime maggiormente afflittivo previsto dal comma 2 dell’art. 617 quinquies c.p.

Il tema della natura privatistica o pubblicistica dell’impresa bancaria ha assunto sempre maggior rilievo anche in sede penale, in particolare in materia di delitti contro la pubblica amministrazione. Intorno al 1980 l’attività di raccolta del risparmio e di erogazione del credito era considerata servizio pubblico in senso oggettivo e i privati legittimati a svolgerla erano qualificati soggetti incaricati di un pubblico servizio (SS. UU. 1981 Carfi). La giurisprudenza di legittimità cambia indirizzo con l’art. 1 d.P.R. n. 350/1985, il quale statuisce che l’attività di raccolta del risparmio fra il pubblico sotto ogni forma e di esercizio del credito ha carattere di impresa, indipendentemente dalla natura pubblica o privata degli enti che la esercitano.

Dal 1985 si stabilisce che lo svolgimento della normale attività bancaria di raccolta del risparmio fra il pubblico e di esercizio del credito in un libero mercato concorrenziale non comporta l’attribuzione a chi la esercita della qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio. È sottoposta invece al diritto pubblico l’attività degli enti creditizi pubblici che esula dalla gestione economica, come il funzionamento degli organi statutari, l’esercizio dei poteri di organizzazione e l’amministrazione degli utili.

Un arresto successivo del Supremo Collegio ribadisce i medesimi principi, secondo cui l’ordinaria attività bancaria, indipendentemente dalla natura pubblica o privata dell’ente che la esercita, è un’attività di natura privata e, conseguentemente, agli operatori bancari, quando esplicano la normale attività di raccolta del risparmio e di esercizio del credito, non sono riferibili le qualificazioni soggettive di cui agli artt. 357 e 358 c.p. (SS.UU. 1989 Vita).

Tali principi sono certamente validi e trovano attualmente applicazione soprattutto in tema di reati contro la pubblica amministrazione, ma tale orientamento deve oggi essere coordinato con quanto disposto all’art. 359 c.p., in particolare con la disposizione di cui al n. 2) di tale norma secondo cui i privati che, non esercitando una pubblica funzione, né prestando un pubblico servizio, adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità mediante un atto della pubblica amministrazione sono definite persone che esercitano un servizio di pubblica necessità agli effetti della legge penale. La nozione di servizio di pubblica necessità è legata a dati di carattere oggettivo poiché si tratta di un’attività di natura privata, esercitata da privati per conto e per nome proprio, quindi svincolata da collegamenti soggettivi con la pubblica amministrazione, ma caratterizzata dalla presenza di un interesse pubblico che soddisfa e che sottopone al controllo da parte dello Stato.

L’atto della pubblica amministrazione che qualifica l’attività del privato come servizio di pubblica necessità ai sensi dell’art. 359 n. 2) c.p. è identificabile nello stesso provvedimento di autorizzazione, in cui è implicito il riconoscimento della natura di pubblica necessità dell’attività autorizzata. In questa diversa prospettiva appare evidente che l’attività bancaria di raccolta del risparmio, pur non essendo una pubblica funzione o un pubblico servizio ai sensi degli artt. 357 e 358 c.p., debba essere qualificata come servizio dichiarato di pubblica necessità da un atto della pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 359 n. 2) c.p. Si tratta infatti di un’attività di natura privata, esercitata in regime di diritto privato da soggetti privati, quali gli istituti di credito, in forma di impresa ma che allo stesso tempo corrisponde a un interesse pubblico ed è sottoposta al controllo dello Stato attraverso la Banca d’Italia, istituto di diritto pubblico appartenente alla categoria degli enti pubblici non economici che possono esercitare poteri tipicamente autorizzativi.

È il Testo Unico Bancario (d. lgs. n. 385/1993) a prevedere che l’attività bancaria, che si esercita essenzialmente attraverso la raccolta del risparmio tra il pubblico e l’erogazione del credito, sia riservata in via esclusiva alle banche iscritte in apposito albo tenuto dalla Banca d’Italia e possa essere svolta solo sulla base di un’autorizzazione rilasciata dalla Banca Centrale Europea, in presenza delle condizioni tassativamente previste dallo stesso Testo Unico, su proposta della Banca d’Italia, che può negare l’autorizzazione o revocare l’autorizzazione concessa in precedenza, nell’esercizio dei suoi poteri di vigilanza sul sistema bancario.

Si può ragionevolmente concludere che l’attività di raccolta di risparmio, quale essenziale attività bancaria insieme all’erogazione del credito, risulta un servizio di pubblica necessità perché fondato su un atto di autorizzazione; da ciò discende quindi la  fondatezza della contestazione dell’aggravante di cui all’art. 617 quinquies comma 2 c.p. con riferimento all’art. 617 quater comma 4 n.1) c.p.


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Maria Lavinia Violo

Avvocato; laurea conseguita all'Università La Sapienza di Roma con 110/110 e lode

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