La negata mobilità in uscita e l’interscambio nella disciplina del pubblico impiego
Sommario: 1. Il pubblico impiego – 2. L’evoluzione della normativa – 3. Le forme di mobilità – 4. Il vincolo di permanenza quinquennale nella sede – 5. La disciplina dell’interscambio e il vincolo di permanenza
L’annosa questione della mobilità è sempre stato un tema abbastanza travagliato, e lo è ora più che mai, poiché date le restrizioni di circolazione dovute dalle disposizioni normative anti contagio Covid-19, una negata mobilità rappresenta una minaccia per la stabilità e l’integrità delle famiglie.
D’altra parte, si dimentica di come, la mobilità nel pubblico impiego sia uno strumento di sinergia tra gli enti della pubblica amministrazione, in quanto viene utilizzato per spostare o trasferire personale anche in esubero da un’amministrazione ad un’altra amministrazione, e ne discende un feedback positivo dovuto dal risparmio di risorse economiche, in quanto le amministrazioni evitando di bandire nuovi concorsi con tempi lunghi, attingono celermente a nuove risorse con il bando di mobilità volontaria. Tra l’altro, in giurisprudenza è da anni pacifica l’illegittimità di procedure concorsuali non precedute dall’esperimento della mobilità volontaria: per citarne qualcuna, il Consiglio di Stato, sez. V, con sentenza 18 agosto 2010, n. 5830, vincolo questo derogato per un triennio dal testo normativo concretezza (trattato in seguito).
Malgrado tutto ciò, il legislatore è stato anche costretto a far fronte alla depauperazione delle risorse umane di alcuni enti a vantaggio di altri, i quali dopo aver portato a termine una procedura si vedevano costrette a subire una restrizione di risorse per mobilità in uscita, perciò al fine di limitare gli effetti negativi di tale strumento nell’immediato, si è apposto un termine. Purtroppo, queste disposizioni limitative hanno portato gli enti a non fare dei distinguo con l’opzione dell’interscambio, strumento quest’ultimo totalmente differente rispetto alla semplice mobilità in uscita, perché avviene uno scambio alla pari di dipendenti della p.a., anche di diverso comparto, il tutto senza alcuna penalità di risorse per le amministrazioni coinvolte, ma il modus operandi di vietare a prescindere, ancora una volta penalizza i lavoratori e il buon andamento dell’amministrazione stessa.
Tuttavia, prima di entrare nel vivo della questione giuridica, tanto dibattuta negli anni, occorre definire cosa s’intende per rapporto di pubblico impiego, onde tracciare con un excurs normativo la disciplina vigente epurata da antinomie, il tutto onde permettere al lettore una completa disamina della tematica.
1. Il pubblico impiego
Si definisce pubblico impiego quel rapporto sinallagmatico avente ad oggetto il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, costituito dall’apporto di una persona fisica, la quale volontariamente e dietro corrispettivo esegue l’attività lavorativa, assumendo su di sé uno status di diritti e doveri. L’accesso all’impiego nella pubblica amministrazione avviene, ai sensi del comma 4, dell’art. 97 della Costituzione, mediante concorso, salvo i casi stabiliti per legge.
La materia del pubblico impiego, sebbene non abbia una disposizione costituzionale univoca, soggiace ai principi individuati nei seguenti articoli: 51, con il principio dell’accesso in condizione di eguaglianza; 54, con il dovere di fedeltà nell’esercizio delle proprie funzioni; 97, con il principio di imparzialità e buon andamento nella pubblica amministrazione; 98 comma 1 “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione.
2. L’evoluzione della normativa
L’assetto del rapporto del pubblico impiego era di natura unilaterale e non contrattuale, tutto ciò viene riscontrato in una serie di normative che antesignano il Testo Unico del pubblico impiego e risalgono al Novecento: il R.D. 22.11.1908, n.693 approva il primo testo unico delle leggi sullo stato degli impiegati, e ad esso fanno seguito il R.D. 11.11.1923, n.2395 nel quale viene stabilita la classificazione del personale pubblico e l’accesso in servizio, il R.D. 30.12.1923, n.2960 che si occupa dei requisiti della nomina al personale di servizio, della sua gerarchia e delle cause della fine del rapporto come dimissioni e licenziamento. Tutte queste sono rivolte allo status dei dipendenti pubblici. La prima tappa a una codificazione unitaria sul rapporto del pubblico impiego avviene con il Testo unico approvato con D.P.R. n.3 del 10.1.1957, composto da 386 articoli e per alcuni aspetti tuttora in vigore (si pensi al regime dell’incompatibilità di cui all’art. 60 e ss. del Testo unico richiamato dall’art. 53 dell’attuale D.lgs. n.165 del 2001).
Nel corso degli anni, il rapporto di lavoro del pubblico impiego ha subito notevoli cambiamenti: la sua disciplina, dapprima di natura pubblicistica ha subito un processo di privatizzazione grazie al Dlgs. n. 165 del 30.03.2001, detto Testo Unico sul pubblico impiego, dove ora i rapporti dei dipendenti pubblici vengono inquadrati dalle disposizioni normative del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro di impresa, salvo eccezioni.
Il legislatore nell’art. 1 del Dlgs 165/2001 si preoccupa di definire dando un quadro specifico di amministrazioni dello stato, ossia: istituzioni scolastiche, aziende pubbliche, Regioni, Province, Comuni, Camere di Commercio, al fine da sottoporle alla medesima disciplina, onde attuare la crescita dell’efficienza delle stesse in relazione al contesto europeo, la razionalizzazione della spesa del lavoro pubblico ed infine una migliore utilizzazione delle risorse umane nella pubblica amministrazione.
3. Le forme di mobilità
Il rapporto di lavoro nella pubblica amministrazione è di lunga durata, tuttavia nel decorso della sua vigenza può subire sia delle modificazioni soggettive che oggettive relative ai contenuti della prestazione lavorativa, le quali possono colpire l’ente datoriale e il dipendente.
Tali modificazioni del rapporto lavorativo vengono disciplinate dal testo unico del pubblico impiego, in quanto prevede le seguenti forme di mobilità intercompartimentale: 30 passaggio tra amministrazioni diverse (mobilità volontaria individuale); 31 passaggio di dipendenti per trasferimento di attività; 32 collegamento con le istituzioni europee; 33 eccedenze di personale e mobilità collettiva.
Tutte queste forme vengono associate dall’elemento dell’unilateralità, ossia sono tese a perdere la risorsa lavorativa, come il Comando e Distacco seppur per un breve periodo (dette forme di mobilità temporanea).
La disciplina della mobilità volontaria è quell’istituto attraverso il quale la pubblica amministrazione ha la possibilità di ricoprire posti vacanti in organico mediante passaggio diretto unilaterale di dipendenti appartenenti a una qualifica corrispondente e in servizio presso altre amministrazioni, dietro domanda di trasferimento e con assenso dell’amministrazione di appartenenza.
Persino la Corte Costituzionale con sentenza n. 324 del 3-12 novembre 2010, ha precisato che: “l’istituto della mobilità volontaria altro non è che una fattispecie di cessione del contratto; a sua volta, la cessione del contratto è un negozio tipico disciplinato dal codice civile”.
Tale disciplina è stata significativamente modificata dall’articolo 4, comma 1, del D.L 90/2014, in quanto ha disposto, in primo luogo, la possibilità (in via sperimentale), di trasferimenti anche in mancanza dell’assenso dell’amministrazione di appartenenza, a condizione che l’amministrazione di destinazione abbia una percentuale di posti vacanti superiore a quella dell’amministrazione di provenienza. (Cfr Nota della Camera dei deputati del 21.01.2020).
Per dar seguito a tale strumento è stato inoltre istituito il portale per l’incontro tra domanda e offerta di mobilità, nonché l’obbligo per le amministrazioni che intendano avvalersi della mobilità, della pubblicazione sul proprio sito istituzionale, per un periodo minimo di 30 giorni, del bando che indica i posti che si intendano coprire.
La mobilità collettiva è prevista dagli articoli da 33 a 34-bis del T.U., essa si attiva nelle ipotesi di soprannumero o eccedenze di personale. Il fine di questo istituto è la razionalizzazione delle risorse con la ricollocazione totale (o parziale) del personale in soprannumero o di eccedenza nell’ambito della stessa amministrazione o presso altre amministrazioni comprese nell’ambito della regione o in quello diverso determinato dai contratti collettivi nazionali, nonché verificare la possibilità di applicare le norme in materia di collocamento a riposo d’ufficio al compimento dell’anzianità massima contributiva del personale interessato, oppure di pervenire anche mediante il ricorso a forme flessibili di gestione del tempo di lavoro (part-time) o a contratti di solidarietà. Il personale non riassorbibile è collocato in disponibilità ed iscritto in appositi elenchi secondo l’ordine cronologico di sospensione del rapporto di lavoro.
Al fine di favorire i processi di mobilità fra i comparti di contrattazione delle pubbliche amministrazioni del personale non dirigenziale (cd. mobilità intercompartimentale) il D.P.C.M. 26 giugno 2015 ha definito la tavola di corrispondenza fra i livelli economici di inquadramento previsti dai contratti collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione.
Ulteriore strumento di mobilità individuale è il comando, un istituto previsto dall’art. 56 del D.P.R. n. 3/57 modificato dalla Legge n. 127/97. Con il comando l’impiegato pubblico viene destinato, temporaneamente e per sopperire ad esigenze eccezionali dell’amministrazione richiedente, ad un’altra amministrazione o ente pubblico diverso da quello di appartenenza. Il comando è disposto, per tempo determinato e in via eccezionale, per riconosciute esigenze di servizio o quando sia richiesta una speciale competenza.
La Legge n.127/97 ha semplificato il procedimento prevedendo che il provvedimento di “comando” va adottato entro 15 giorni dalla ricezione della richiesta. In attesa dell’adozione del provvedimento formale di “comando” è consentita l’immediata utilizzazione del dipendente presso l’Amministrazione richiedente, previo nulla osta dell’Amministrazione di appartenenza. Gli oneri stipendiali fanno carico all’Amministrazione richiedente.
L’utilizzazione temporanea del dipendente pubblico presso un ufficio diverso da quello che costituisce la sua sede di servizio viene definita come distacco. L’istituto non è previsto dalla legislazione del pubblico impiego, ma ha comunque una certa diffusione.
Si distingue dal comando proprio perché l’impiegato non viene destinato ad altra amministrazione, ma viene temporaneamente assegnato ad un ufficio, diverso, della stessa amministrazione di appartenenza.
4. Il vincolo di permanenza quinquennale nella sede
L’insistenza del vincolo della permanenza quinquennale nella sede di prima nomina, attanaglia da sempre le amministrazioni pubbliche. Questo è stato dapprima sancito con l’art. 35 comma 5 bis del Dlgs 165/2001, recita che: “I vincitori dei concorsi devono permanere nella sede di prima destinazione per un periodo non inferiore a cinque anni. La presente disposizione costituisce norma non derogabile dai contratti collettivi.”
Tuttavia, tale limite alla mobilità è superabile attraverso la lettura dell’art. 1 c. 29 decreto legge 138 del 2011 che dispone: “Nelle more della disciplina contrattuale si fa riferimento ai criteri datoriali, oggetto di informativa preventiva, e il trasferimento è consentito in ambito del territorio regionale di riferimento; per il personale del Ministero dell’interno il trasferimento può essere disposto anche al di fuori del territorio regionale di riferimento. Dall’attuazione del presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.
Tale norma, quindi, prevede con l’applicazione degli articoli 2103 e 2104 del codice civile con riferimento all’esigibilità della prestazione in luogo di lavoro e sede diversi sulla base di motivate esigenze, tecniche, organizzative e produttive secondo criteri ed ambiti regolati dalla contrattazione collettiva di comparto: il potere, regolato in sede di contrattazione, di modificare «il luogo di esecuzione della prestazione lavorativa attraverso lo strumento del trasferimento definitivo o temporaneo».
Da un esame attento, con un’interpretazione sistematica complessiva del combinato disposto dell’articolo 16 della legge 183 del 2011 e dei commi 5 bis e 5 ter art. 35 del decreto legislativo n. 165 del 2001, in materia di pubblico impiego, si evince la possibilità di ricorrere all’istituto della mobilità perché il vincolo di permanenza nella prima sede assume la caratteristica non di un diritto soggettivo, ma piuttosto un diritto a tutela della sola situazione organizzativa dell’ente.
D’altronde, se il comma 5 bis dell’art. 35 avesse, invece, avuto l’obiettivo di stabilire un diritto oggettivo e inderogabile nell’ordinamento del p.i. con l’obbligo temporale di permanenza, tale onere contrattuale posto a carico sia del dipendente che dell’amministrazione, come faccia dell’altra medaglia, avrebbe potuto assicurare al dipendente un vero e proprio diritto alla inamovibilità quinquennale dalla sede di prima assegnazione; ma così non è!
Un vincolo del lavoratore alla sua permanenza e, quindi, al suo diritto all’ inamovibilità dalla sede di prima destinazione è assicurato, invece, dal successivo comma 5 ter dell’art. 35 del d.lgs. n. 165/2001, dalla norma sulla c.d. territorializzazione, la quale prevede che l’amministrazione può richiedere come requisito di partecipazione alla procedura pubblica selettiva la residenza dei partecipanti in un determinata zona geografica del Paese, ma tale vincolo costituirebbe un arma a doppio taglio, in quanto influirebbe negativamente sul numero del reperimento delle risorse poiché circoscrivendolo al solo territorio vanificherebbe il tentativo di reperire assunzioni su larga scala, con la conseguenza che i pochi concorrenti assunti vanterebbero nei confronti dell’amministrazione il diritto alla inamovibilità di sede. Ma vi è di più! Così facendo l’amministrazione con l’auto imposizione di tale vincolo nel bando di concorso, limiterebbe la sua discrezionalità nelle scelte di auto-organizzazione che le è, invece, riconosciuta nell’ambito della operatività del comma 5-bis dell’art. 35.
Nonostante tutto, il vincolo della permanenza quinquennale è da considerarsi ormai venuto meno in virtù dell’ art. 2 del Dl n. 95/2012 (sulla spending review), che ai commi 12 e 14 ha disposto che il personale in esubero, anche in caso di eccedenza dichiarata per ragioni funzionali o finanziarie dell’amministrazione, sia posto in disponibilità biennale ai sensi e per gli effetti del comma 8 dell’art. 33 novellato del d.lgs. 165/2001, in deroga al comma 3 dell’art. 16 della legge di stabilità per il 2012 n.183 del 12 novembre 2011 (Cfr. Articolo di interscambio e mobilità nel pubblico impiego di Daniele Giammarelli del 31.01.2020).
Il superamento del vincolo veniva suffragato, come sopra citato, dall’articolo 4, comma 1, del D.L 90/2014, convertito in legge n. 114/2014 in quanto ha disposto, in primo luogo, la possibilità (in via sperimentale) della mobilità volontaria anche in assenza di assenso della pubblica amministrazione di appartenenza.
Eppure proprio quando lo scoglio del vincolo della permanenza sembrava esser stato superato, ecco che ritorna l’errore della mobilità bloccata per cinque anni, vincolo valevole anche per i dipendenti degli enti locali neoassunti con la legge 26/2019, di conversione del dl 4/2019 (su reddito di cittadinanza e quota 100), la quale introduce una novità rilevante per la gestione del personale alle dipendenze di regioni ed enti locali.
Infatti, con l’articolo 14-bis della legge 26/2019, si assiste a un ritorno al passato, in quanto inserisce nel corpo dell’articolo 3 del dl 90/2014, convertito in legge 114/2014, un nuovo comma 5-septies, ai sensi del quale «I vincitori dei concorsi banditi dalle regioni e dagli enti locali, anche se sprovvisti di articolazione territoriale, sono tenuti a permanere nella sede di prima destinazione per un periodo non inferiore a cinque anni. La presente disposizione costituisce norma non derogabile dai contratti collettivi ».
A prima facie il lettore potrebbe essere indotto a pensare che ci sia una somiglianza di disposizione con quella contenuta nel comma 5-bis, dell’articolo 35 del dlgs 165/2001: «I vincitori dei concorsi devono permanere nella sede di prima destinazione per un periodo non inferiore a cinque anni. La presente disposizione costituisce norma non derogabile dai contratti collettivi».
Entrambe le previsioni sono finalizzate a consentire ai dipendenti neo assunti di trasferirsi volontariamente presso un altro ente, anche di comparto diverso, solo dopo aver prestato servizio nella prima sede di destinazione per almeno 5 anni. A questo punto la domanda sorge spontanea: perché una disposizione come quella contenuta nella legge 26/2019?
In realtà, l’articolo 35, comma 5-bis, del Dlgs 165/2001 è stato considerato, da gran parte della dottrina e soprattutto dagli operatori concreti, come una disposizione valevole solo per le amministrazioni dello Stato o, comunque, organizzate con uffici distribuiti su territori ampi.
I comuni, in particolare, si sono sempre ritenuti non soggetti a tale previsione, dal momento che tecnicamente non era possibile identificare una «sede di prima destinazione» geograficamente autonoma rispetto ad altre.
La legge 26/2019 estende espressamente il divieto di trasferimento volontario presso altre amministrazioni prima di 5 anni dall’assunzione anche alle amministrazioni locali sprovviste «di articolazione territoriale» proprio allo scopo di privare di effetto l’interpretazione restrittiva che fin qui di fatto aveva vanificato la portata dell’articolo 35, comma 5-bis, del Dlgs 165/2001 negli enti locali (Cfr Articolo Tratto da Mobilità bloccata per 5 anni di Luigi Oliveri del 5.04.2019).
Inoltre, la pubblica amministrazione è stata interessata anche dalla riforma apportata dalla Legge 19 giugno 2019, n. 56, definita come “Legge concretezza”, la quale introduce novità in tema di disciplina e organizzazione della Pubblica Amministrazione, quali il Nucleo della concretezza, sistemi di verifica biometrica dell’identità e di videosorveglianza per gli accessi, procedure per accelerare il ricambio generazionale. Restando sempre in tema di mobilità, l’art. 3 della Legge n. 56/2019, prevede delle misure per accelerare le assunzioni mirate e il ricambio generazionale nella Pubblica Amministrazione. Misure tarate sulle amministrazioni centrali, le quali possono procedere da quest’anno ad assunzioni di personale a tempo indeterminato nel limite di un contingente di personale complessivamente corrispondente ad una spesa pari al 100% di quella relativa al personale di ruolo cessato nell’anno precedente. Turn over pieno dunque, e al fine di ridurre i tempi di accesso al pubblico impiego, nel triennio 2019-2021, le procedure concorsuali bandite dalle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e le conseguenti assunzioni possono essere effettuate senza il previo svolgimento delle procedure di mobilità previste dall’articolo 30 del predetto decreto legislativo.
5. La disciplina dell’interscambio e il vincolo di permanenza
La procedura dell’interscambio, detta mobilità compensativa è stata prevista dall’art. 7 del D.P.C.M. n. 325 del 5 agosto 1988, che sancisce: “E’ consentita in ogni momento, nell’ambito delle dotazioni organiche di cui all’art. 3, la mobilità dei singoli dipendenti presso la stessa od altre amministrazioni, anche di diverso comparto, nei casi di domanda congiunta di compensazione con altri dipendenti di corrispondente profilo professionale, previo nulla osta dell’amministrazione di provenienza e di quella di destinazione”.
Tale disciplina, quindi, prevede la possibilità, purché esista l’accordo delle amministrazioni di appartenenza ed entrambi i dipendenti posseggano un corrispondente profilo professionale, ovvero svolgano le medesime mansioni. Anche in caso di identico mansionario e di identico comparto, è sempre necessario il nullaosta da parte dell’amministrazione di appartenenza. A questo punto, è opportuno ricordare che il D.P.C.M. è un atto legislativo di secondo grado, un provvedimento previsto dall’art. 17 della legge n. 400 del 1988, ed il primo comma sancisce che viene emanato in forma di decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentito il parere del Consiglio di Stato che deve pronunziarsi entro 90 giorni, e al pari di ogni decreto ministeriale può disciplinare: l’esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi nonché dei regolamenti comunitari; l’attuazione e l’integrazione di leggi e dei decreti legislativi; le materie in cui manchi la disciplina delle leggi; l’organizzazione e il funzionamento delle pubbliche amministrazioni.
Fatta questa premessa, occorre constatare se questa normativa sia ancora vigente e se sia motivo di antinomia con la disposizione normativa di rango primario, ossia con la Legge n. 26/2019, ove l’art. 14 bis prevede il vincolo della permanenza del dipendente presso la sede di prima nomina.
Rispondendo al primo quesito, possiamo dire che il predetto regolamento dava attuazione al D.P.R. n. 268/87 , quest’ultimo entrato in vigore il 12.07.1987, recepiva l’ormai superato CCNL del personale dipendenti degli EELL relativo al triennio 1985-1987, il cui art. 6, comma 20 espressamente prevedeva: « è consentito il trasferimento del personale tra enti diversi, a domanda del dipendente motivata e documentata e previa intesa delle due amministrazioni, anche in caso di contestuale richiesta da parte di due dipendenti di corrispondente livello professionale.(…). E’consentito altresì il trasferimento di personale tra gli enti destinatari del presente decreto e tra questi e gli enti del comparto sanità, a domanda motivata e documentata del dipendente interessato, previa intesa tra gli enti e contrattazione con le organizzazioni sindacali, a condizione dell’esistenza di posto vacante di corrispondente qualifica e profilo professionale nell’ente di destinazione».
Il D.P.R. 286/1987, in questione è stato abrogato a far data dal 5 giugno 2012 dal D.L. 9 febbraio 2012, n. 5, recante “Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo”, convertito in legge 4 aprile 2012, n. 35. (Cfr tratto dall’articolo la mobilità in particolare la mobilità volontaria di Mariagrazia Caruso).
Quindi sembra, ad oggi, che l’istituto della mobilità “per interscambio”, sia stato abrogato.
Ma è proprio così? In realtà, con l’abrogazione della disposizione contrattuale di cui all’art. 6, c. 20, del D.P.R. 268/1987, non preclude alle amministrazioni locali di poter attivare una mobilità reciproca o bilaterale con altre amministrazioni locali in applicazione del principio generale contenuto nell’art. 6 del D.lgs 165/2001, in base al quale “Le amministrazioni pubbliche curano l’ottimale distribuzione delle risorse umane attraverso la coordinata attuazione dei processi di mobilità e di reclutamento del personale”. A conferma, sul punto, si riporta un orientamento interpretativo che ha ritenuto non preclusa la possibilità di attivare una mobilità reciproca o bilaterale tra amministrazioni locali solo a condizione della completa osservanza di una serie di cautele che il legislatore ha imposto al fine di ridurre la spesa per il personale delle amministrazioni pubbliche e di turn over. (Cfr Sez. reg.le Veneto, delib. n. 65/2013; Corte Conti Sez. Controllo Veneto del consiglio delib. 4 febbraio 2013 Sez. Controllo Friuli Venezia Giulia delib. del 3.6.2014). Tuttavia, il ricorso a detta procedura deve essere accompagnato da una serie di cautele tese ad evitare che possano essere elusi i rigidi vincoli imposti dal legislatore in materia di riduzione della spesa per il personale delle amministrazioni pubbliche e di turn over. In tal senso, abbiamo un orientamento giurisprudenziale consolidato che assume rilievo per gli Enti locali in materia di mobilità per interscambio, affermando che tale tipologia di mobilità, così come previsto dall’art. 7 del D.P.C.M. 5 agosto 1988, n. 325, può essere consentita, purché venga rispettato il principio della neutralità finanziaria, solo tra due dipendenti appartenenti a “profili professionali corrispondenti”. (Cfr CdC SSRR n. 59/CONTR/2010; Sez. regionale di controllo per l’Umbria, deliberazione n. 71/2016/PAR dell’8 giugno 2016).
Come si può notare, la giurisprudenza in materia di mobilità nel corso del tempo ha concordemente affermato alcuni principi e unitamente alla normativa, nel caso d’interscambio rilevano i seguenti punti: l’ente deve osservare i vincoli di spesa del personale imposti dalla normativa vigente (art. 1, c. 557, per gli enti soggetti al patto e c. 562 per gli enti minori ed art.76, c. 7, del D.L. 112/2008; la mobilità deve avvenire tra enti soggetti entrambi ai medesimi vincoli assunzionali (nel caso in specie enti locali); l’interscambio deve avvenire tra dipendenti appartenenti alla stessa qualifica funzionale; – l’interscambio deve avvenire entro un periodo di tempo congruo (contestualità) che consenta agli enti di non abbattere le spese di personale (derivanti dalla cessione del contratto del dipendente transitato in mobilità ad altro ente) qualora l’assunzione del dipendente in entrata slitti dal punto di vista temporale rischiando di traslarsi all’esercizio successivo; il personale soggetto ad interscambio non deve essere stato dichiarato in eccedenza o sovrannumero ai sensi dell’art. 33 del D.lgs 165/2001 e dell’art. 2 commi 11, 12 e 13 del D.L. 95/2012; l’interscambio deve assicurare ad entrambe le amministrazioni interessate una necessaria neutralità finanziaria.
Da questi principi si evince l’intento prioritario del legislatore con la disciplina della mobilità, ossia evitare incrementi incontrollati della spesa di personale, non solo in relazione al singolo ente ma all’intero comparto, in modo da evitare che il trasferimento per mobilità possa essere utilizzato quale operazione volta ad instaurare nuovi rapporti di lavoro al fuori dei limiti numerici e di spesa previsti dalla disciplina vigente. Tutto ciò conferma che la disciplina dell’interscambio, oltre ad essere vigente non si pone in antitesi con la normativa prevista dall’art. 14 bis della Legge n. 26/2019, in quanto la possibilità di esercitare lo scambio di risorse non comporta per l’amministrazione nessuna perdita, sia sotto il profilo oggettivo con la sfera economica che su quello soggettivo con la risorsa del personale. Infatti, l’interscambio deve inoltre avvenire fra dipendenti appartenenti alla stessa qualifica funzionale potendosi utilizzare per tale verifica il Decreto del Presidente del consiglio dei ministri 26 giugno 2015 (GU Serie Generale n.216 del 17-9-2015) contenente la definizione delle tabelle di equiparazione fra i livelli di inquadramento previsti dai contratti collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione del personale non dirigenziale. In particolare occorre verificare se i richiedenti impiegati presso le diverse amministrazioni di appartenenza forniscano prestazioni qualitativamente corrispondenti non solo in astratto, in ragione dell’identità di posizione economica, ma anche in concreto dovendo risultare interscambiabili senza costi organizzativi aggiuntivi per le amministrazioni datoriali. Tuttavia, va ricordato che l’amministrazione deve rilasciare il nulla osta per poter concedere agli istanti l’interscambio, e pur non potendosi configurare un diritto del dipendente alla predetta mobilità, laddove ci fosse il rigetto è senz’altro possibile ricorre al giudice per sindacarne il consenso negato. In merito è intervenuta a giurisprudenza affermando che: “In assenza, infatti, di validi motivi ostativi alla base del consenso negato si deve ritenere che il dipendente abbia diritto al trasferimento” (Cfr Tribunale di Agrigento, 26 marzo 2004 Giudice L. Gatto).
Alla stregua di quanto esposto, la disamina della tematica può essere conclusa affermando che le amministrazioni non possono essere restie a voler applicare la mobilità per interscambio, in quanto tale strumento si pone nell’ottica di migliorare la razionalizzazione delle risorse, dell’efficienza, principi previsti proprio dal testo unico del pubblico impiego. L’interscambio è un ottimo sistema per coniugare le proprie esigenze personali e professionali con quelli dell’amministrazione, in quanto lo svantaggio dovuto alla perdita di una risorsa per l’amministrazione è nullo! Questo è uno dei motivi cardini per cui una pratica di mobilità compensativa ha maggiori probabilità di successo rispetto alla mobilità volontaria, proprio perché non si pone in antinomia né con l’art. 14 della 26/2019 e né con il comma 5 bis dell’art. 35 del d.lgs. 165/2001, anzi con lo scambio di sedi lavorative tra i lavoratori chi ne beneficia è soprattutto l’amministrazione, la quale acquisisce risorse lavorative vicine al suo territorio, ne consegue il miglioramento delle perfomance dei suoi dipendenti che riducono i tempi di attesa per raggiungere il posto di lavoro, e da ciò anche l’ambiente ne beneficia con la riduzione dell’inquinamento per diminuzione dei trasporti.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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