La “nuova” legittima difesa tra esigenze securitarie e prassi applicativa

La “nuova” legittima difesa tra esigenze securitarie e prassi applicativa

Sommario: 1. Inquadramento, natura giuridica e presupposti applicativi della legittima difesa – 2. L’evoluzione normativa della legittima difesa c.d. domiciliare – 3. Presunzione relativa del dato normativo: focus della giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., sez. V, n. 40414/2019)

1. Inquadramento, natura giuridica e presupposti applicativi della legittima difesa

Nel nostro ordinamento giuridico, affinché un determinato fatto possa considerarsi antigiuridico (e quindi costituire «reato»), non è sufficiente la corrispondenza tra lo stesso fatto e la fattispecie penale prevista in astratto dal legislatore. Infatti, in alcuni casi, la legge impone o facoltizza determinate condotte che di regola costituiscono reato, facendo così venir meno l’antigiuridicità: si fa riferimento alle “cause di giustificazione del reato” (ovvero anche “scriminanti”, “giustificanti”, “esimenti”). Questa categoria, di matrice dottrinale, non trova una espressa definizione all’interno del codice penale, poiché l’art. 59 c.p. fa più genericamente riferimento alle “circostanze che escludono la pena”. Tale vaga ed ampia formulazione ha finito per trasformarsi in un contenitore che ricomprende un triplice ordine di categorie, in presenza delle quali il codice dichiara un determinato soggetto “non punibile”: le cause di giustificazione (o scriminanti), le cause di esclusione della colpevolezza e le cause di non punibilità in senso stretto. Soltanto le cause di giustificazione in senso stretto, elidendo l’antigiuridicità o l’illiceità, rendono inapplicabile qualsiasi tipo di sanzione (anche civile o amministrativa), si estendono a tutti coloro che eventualmente prendono parte alla commissione del reato ed operano in virtù della loro obiettiva esistenza, anche se sconosciute o per errore ritenute inesistenti.

In particolare, in dottrina vengono definite cause di giustificazione (o scriminanti) quelle situazioni normativamente previste, in presenza delle quali viene meno il contrasto tra un fatto conforme ad una fattispecie incriminatrice e l’intero ordinamento giuridico, cosicché un fatto che sarebbe altrimenti reato non è considerato tale perché la legge lo consente o lo impone. In tale categoria rientra la legittima difesa, disciplinata dall’art. 52 c.p., quale residuo di autotutela che lo Stato concede al cittadino nei casi in cui l’intervento dell’Autorità non può risultare tempestivo. La ratio risiede nel principio del cd. bilanciamento degli interessi e, segnatamente, nella prevalenza attribuita all’interesse di chi sia ingiustamente aggredito rispetto all’interesse di chi si è posto fuori dalla legge. L’art. 52, 1 comma, c.p. stabilisce che: «Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa». Da tale disposizione ne consegue che la legittima difesa ruota essenzialmente attorno a due comportamenti tra loro contrastanti: una condotta aggressiva ed una condotta difensiva.

È necessario che la minaccia provenga da una condotta umana, ammettendosi, nondimeno, che la stessa possa scaturire da animali o cose purché sia individuabile un soggetto tenuto ad esercitare su di essi una vigilanza; il pericolo di offesa può anche provenire da una condotta omissiva, come ad esempio il rifiuto del proprietario di richiamare il cane mastino che sta aggredendo un bambino.

Pur nella complessità della materia e del vasto panorama dottrinale e giurisprudenziale esistente, i necessari presupposti perché possa essere applicata la causa di giustificazione della legittima difesa possono così riassumersi: a) l’attualità del pericolo di offesa, in quanto non deve trattarsi né di un pericolo corso né di un pericolo futuro giacché occorre una minaccia incombente al momento del fatto; b) l’ingiustizia dell’offesa, secondo autorevole dottrina, oltre a minacciare un diritto altrui, non deve essere espressamente facoltizzata dall’ordinamento (non limitandosi alla mera offesa contra jus); c) la costrizione, secondo la prevalente dottrina da intendersi in senso oggettivo, implica che il soggetto deve trovarsi in una situazione in cui non abbia possibilità di scelta d’azione, con la conseguenza che la legittima difesa non possa essere invocata tutte le volte in cui l’aggredito aveva altre modalità di difesa; d) la necessità di difendersi è diretta a salvaguardare il bene posto in pericolo, di modo che l’aggredito non può evitarlo se non reagendo contro l’aggressore. Pertanto, la necessità della reazione equivale ad inevitabilità della stessa e ciò si verifica allorquando non è sostituibile da un’altra meno dannosa ugualmente idonea ad assicurare la tutela dell’aggredito. Tuttavia, il giudizio di necessità-inevitabilità non è assoluto ma relativo, poiché si deve tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto (mezzo difensivo a disposizione, condizioni di tempo e di luogo, modalità dell’aggressione, forza fisica delle persone coinvolte ecc.). Inoltre, la difesa deve avere ad oggetto un diritto proprio od altrui contro cui l’offesa è diretta, vale a dire non solo il diritto soggettivo in senso stretto, ma qualsiasi interesse giuridicamente tutelato al fine di salvaguardare indistintamente tutti i beni, inclusi i diritti patrimoniali; e) la proporzione tra difesa e offesa, secondo l’orientamento prevalente, deve sussistere tra i beni o interessi in conflitto e, pertanto, è necessario operare un bilanciamento tra il bene minacciato e il bene leso, con la conseguenza che al soggetto aggredito che si difende non è consentito ledere un bene dell’aggressore marcatamente superiore a quello posto in pericolo dall’iniziale aggressione illecita. Al riguardo, la dottrina ha precisato che se non è giustificato uccidere per difendere un bene patrimoniale, può invece apparire giustificato infliggere una lieve ferita per difendere un patrimonio di rilevantissima entità.

Inoltre, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, l’accertamento della legittima difesa deve essere effettuato con giudizio ex ante delle circostanze di fatto, cronologicamente rapportato al momento della reazione e contestualizzato alle specifiche e peculiari circostanze concrete, al fine di apprezzare l’esistenza dei requisiti della proporzione tra offesa e difesa al momento iniziale della condotta posta in essere dall’agente.

2. L’evoluzione normativa della legittima difesa c.d. domiciliare

Preliminarmente, va rilevato che la disciplina della legittima difesa è stata innovata con la l. 13 febbraio 2006, n.59, che ha inserito all’art. 52 due nuovi commi diretti a regolamentare l’esercizio del “diritto di autotutela in un privato domicilio”. Il legislatore ha così ampliato i presupposti applicativi dell’istituto nei casi in cui l’aggressore sorprenda l’aggredito in casa o in un altro luogo chiuso assimilabile, allorché quest’ultimo non possa scongiurare l’imminente pericolo mediante il tempestivo intervento delle Forze dell’Ordine. L’aspetto rilevante di tale modifica, secondo l’intento del legislatore, è rappresentato dal requisito della proporzione, nel senso che quando la reazione difensiva è diretta contro un intruso in una privata dimora, il giudice sarebbe esentato dal verificare in concreto la proporzione tra offesa e difesa, essendo quest’ultima legislativamente presunta iuris et de iure (presunzione assoluta che non ammette prova contraria). Tale riforma ha suscitato reazioni contrastanti anche all’interno della dottrina penalistica, in quanto secondo alcuni autori introdurrebbe una presunzione assoluta, mentre, secondo altri, una presunzione iuris tantum, cioè relativa. Il suddetto articolo, nell’ anno 2019, è stato oggetto di ulteriori modifiche che verranno trattate nel presente paragrafo.

L’art. 52, comma 2, c.p., antecedente alla riforma del 2019, prevedeva che: «Nei casi previsti dall’art. 614, primo e secondo comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o la altrui incolumità; b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione».

Dall’analisi di tale comma, appare – ictu oculi – la permanenza di alcuni presupposti tradizionali della legittima difesa così come indicati nel 1 comma dell’art. 52, quali la necessità di difendersi e il pericolo attuale di una offesa ingiusta ad un diritto proprio od altrui. Orbene, la “presunzione” di proporzione tra difesa e offesa opererebbe in presenza di taluni requisiti tassativamente individuati: a) nella commissione di una violazione di domicilio ai sensi dell’art. 614, primo e secondo comma, da parte dell’aggressore; b) nella presenza legittima del domicilio da parte dell’aggredito; c) nell’uso di un’arma legittimamente detenuta o di altro mezzo idoneo a fini difensivi; d) nel fine di difendere la propria o altrui incolumità ovvero i beni propri o altrui a condizione che, in questa seconda ipotesi, non via sia desistenza e vi sia pericolo di aggressione.

Per «propria o altrui incolumità» il legislatore allude, verosimilmente, ai beni della vita e della integrità fisica, in quanto il giudice sarebbe dispensato dall’accertare in concreto se vi sia proporzione tra la rispettiva gravità del danno minacciato e di quello subito dall’aggressore. Sicché, stando al tenore letterale e allo spirito della innovazione legislativa, l’uso dell’arma (o di altro mezzo difensivo violento) dovrebbe risultare scriminato anche in quelle situazioni nelle quali, per respingere l’aggressore, sarebbe stato a rigore sufficiente una reazione non armata o, comunque, meno lesiva. Tuttavia, qualche autore ha cercato di mitigare la presunzione legislativa della proporzione attraverso una scrupolosa e adeguata ricostruzione del requisito della necessità di difendersi: in questo senso, sarebbe a tutt’oggi considerabile davvero “necessaria” soltanto quella condotta difensiva non sostituibile con una meno lesiva (ad es. l’uccisione dell’aggressore risulterà illegittima se, nella situazione concreta, sarebbe stata sufficiente a metterlo in fuga la semplice esplosione di armi da fuoco a scopo di avvertimento). Maggiori problematiche presenta la seconda ipotesi, nella quale si considera presuntivamente proporzionato l’uso di un’arma o di altro mezzo di reazione violenta, finalizzato allo scopo di difendere «i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione». Parrebbe, prima facie, che il legislatore del 2006 abbia deciso di riportare indietro le lancette della storia, anteponendo la tutela dei beni patrimoniali perfino al valore della vita e della integrità fisica di chi li aggredisce. Basti pensare, in linea con tale “infelice” interpretazione, al caso del proprietario che si accorge della presenza di un ladro nella propria abitazione o nel proprio negozio e si senta subito autorizzato a ucciderlo o a ferirlo gravemente per impedire la spoliazione patrimoniale.

Un tale assunto risulterebbe assolutamente incompatibile sia col sistema di valori costituzionali, sia con l’art. 2 della CEDU, ma, a ben vedere, la norma precisa che la legittimità dell’impiego dell’arma è subordinata alla presenza di due requisiti ulteriori rispetto alla minaccia dell’aggressione del patrimonio: la “non desistenza” dell’intruso e che sussista un «pericolo di aggressione». Verosimilmente, in assenza di una espressa definizione legislativa, per “mancata desistenza” si intende la perdurante attualità di una situazione di pericolo che l’aggressore non fa venir meno.

Invece, secondo l’interpretazione più plausibile, per “pericolo di aggressione” va inteso il pericolo che trascende la sfera dei beni patrimoniali e che si proietta sulla vita e sulla integrità fisica dell’aggredito. Tale orientamento è in linea con la Costituzione italiana e con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal momento che un pericolo riferito al solo patrimonio non potrebbe mai giustificare una reazione difensiva armata.

Ciò premesso, il vero elemento di novità è consistito, come anzidetto, nell’introduzione di una presunzione in virtù della quale la reazione dell’aggredito si considera sempre e comunque proporzionata all’offesa minacciata quando il fatto avvenga nel domicilio dell’aggredito o nel suo luogo di lavoro, sottraendo (nell’intento del legislatore) la valutazione dell’organo giudicante circa la proporzione tra offesa e difesa, riducendo tempi e modalità di accertamento dei fatti. È, tuttavia, opzione normativa del tutto priva di ragionevolezza quella che porta ad equiparare comportamenti assai diversi tra loro, solo perché avvenuti in un determinato luogo, in quanto anche nei luoghi indicati dalla norma si può reagire a un’interferenza in modo appropriato, oppure in modo manifestamente spropositato. A titolo esemplificativo, si osservi che tale previsione colloca sullo stesso piano la condotta di chi neutralizza un rapinatore armato e di chi spara freddamente a un ladruncolo sorpreso a rubare nell’orto.

La giurisprudenza di legittimità, nel dare applicazione a questa riforma, ha cercato di precisare i contorni applicativi di tale previsione e, a tal proposito, con sentenza n.12466/2007, la Suprema Corte, sez. Ⅰ, ha stabilito che la causa di giustificazione prevista dall’art. 52, comma 2, c.p., così come modificato dall’art. 1 l. 13 febbraio 2006 n.59, non consentiva un’indiscriminata reazione nei confronti del soggetto che si introduca fraudolentemente nella propria dimora, ma presupponeva un attacco, nell’ambiente domestico, alla propria o altrui incolumità, o quanto meno un “pericolo di aggressione”.

Dunque, la riforma del 2006 non ha realizzato gli obiettivi a cui mirava il legislatore – com’era del resto prevedibile – poiché non ha evitato l’amarezza e la sofferenza (oltre alle spese) di un procedimento penale alla generalità dei soggetti vittime di furti, rapine o aggressioni domestiche terminate con l’uccisione o il ferimento del ladro, del rapinatore o dell’aggressore, anche se, in un’elevatissima percentuale di casi, le vicende in esame si sono poi concluse con l’archiviazione del procedimento o, al più, con l’assoluzione dell’imputato all’esito del dibattimento. Pertanto, sul piano della narrazione mediatica, lo scopo che si prefiggevano i sostenitori della riforma varata nel 2019 – espressa nello slogan “la difesa è sempre legittima” – è stato proprio quello di sottrarre radicalmente alle indagini e al giudizio penale gli esercenti, imprenditori o cittadini che “si difendono in casa loro”, in situazioni di violazione della loro sfera privata. In tale direzione si pone l’art. 1 della l. n. 36/2019, “cuore” dell’intervento normativo, che ha inserito l’avverbio “sempre” al 2 comma dell’art. 52 c.p., il quale consentirebbe, in tal modo, di scriminare “automaticamente”, in ogni situazione, la condotta della persona, legittimamente presente nell’abitazione ovvero nel luogo privato in cui si esercita un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale, che usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo per difendere la propria o altrui incolumità e i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione. L’indicazione che sembra provenire dalla novella legislativa è nel senso di una progressiva, almeno parziale, trasformazione della presunzione de qua da relativa ad assoluta, con sacrificio del principio di proporzionalità concreta.

A rafforzare questa impressione vi è poi l’inserimento di un quarto comma, nel quale si introduce un’ulteriore forma di presunzione di legittimità della difesa, in favore di «colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone»: anche in questo caso vi è l’avverbio “sempre”, ma ciò che rende ancor più evidente la novità è il fatto che, da un lato, la condotta alla quale si reagisce è “l’intrusione” violenta (e non più soltanto la minaccia diretta alla vita o all’incolumità di alcuno, ma anche la violenza o minaccia strumentale esclusivamente all’intrusione stessa), e dall’altro non si precisa in che cosa possa consistere l’ “atto” finalizzato a respingerla. Questo ha legittimato più di un commentatore a ipotizzare che possa risultare scriminata, ad esempio, anche la condotta di chi colpisca alle spalle l’intruso che si sia introdotto “con violenza” (anche solo forzando una serratura o rompendo il vetro di una finestra) nei luoghi di vita altrui. Entrambe le presunzioni di cui si è detto, in base al testo della riforma, operano, così come prevede l’art. 52, comma 3, c.p., non solo con riguardo alle condotte di intrusione o di trattenimento nei luoghi di privata dimora, ma anche a quelle che si verificano «in ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività professionale, commerciale o imprenditoriale». Indubbiamente, vi è il rischio che un’interpretazione non adeguatamente rigorosa della nuova normativa possa vanificare il principio in base al quale l’autodifesa può essere consentita soltanto come extrema ratio, ossia quando è assolutamente necessaria e inevitabile, legittimando, così, un soggetto non aggredito nell’incolumità personale a reagire contro l’incolumità personale del presunto aggressore, al di fuori di ogni valutazione di proporzionalità. Al fine di evitare “un effetto criminogeno” di tale intervento legislativo, il Capo dello Stato, nel promulgare il testo di legge, ha precisato che «la nuova normativa non indebolisce né attenua la primaria ed esclusiva responsabilità dello Stato nella tutela della incolumità e della sicurezza dei cittadini, esercitata e assicurata attraverso l’azione generosa ed efficace delle Forze di Polizia».

La l. n. 36/2019 ha poi inserito un secondo comma nell’art. 55 c.p., relativo all’eccesso colposo nelle scriminanti. Sappiamo che, in base a quanto stabilito al 1 comma, nel caso di eccesso colposo il soggetto attivo risponderà della propria condotta se il delitto da lui commesso è punito a titolo di colpa: chi, ad esempio, ha ecceduto colposamente nel difendersi e ha ucciso o ferito il presunto aggressore risponderà a titolo di omicidio o lesioni colpose. Con il nuovo secondo comma vengono invece introdotte alcune ipotesi in cui la punibilità è radicalmente esclusa: ciò avviene in particolare nei riguardi di chi ha commesso il fatto per salvaguardare la propria o altrui incolumità, qualora egli abbia agito in stato di minorata difesa (ossia nelle condizioni di cui all’articolo 61, 1 comma, n. 5, c.p.), ovvero in stato di «grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto». Va rilevato che, anche in questo caso, l’esclusione della punibilità è assoggettata a una valutazione necessariamente rimessa all’autorità giudiziaria in ordine alla configurabilità di una condizione di minorata difesa, ovvero di uno “stato di grave turbamento”. Anche sotto questo aspetto, comunque, il Presidente della Repubblica ha ritenuto opportuno puntualizzare che la nozione di “grave turbamento”, stante la genericità della formulazione, non può e non deve tradursi in interpretazioni eccessivamente late, tali da legittimare reazioni incontrollate fondate solo su un generico impulso soggettivo di autotutela. Il Capo dello Stato ha, dunque, chiarito che «la nuova normativa presuppone, in senso conforme alla Costituzione, una portata obiettiva del grave turbamento e che questo sia effettivamente determinato dalla concreta situazione in cui si manifesta».

La recente riforma è intervenuta anche sui riflessi civilistici della legittima difesa con la finalità di evitare che colui che agisce nella propria abitazione per difendere se o altri sia responsabile del danno cagionato. In particolare, l’art. 2044, comma 1, c.c. (disciplinante la legittima difesa sotto il profilo civilistico nell’ambito della c.d. responsabilità aquiliana), esonera da responsabilità civile «chi cagiona il danno per legittima difesa di sé o di altri». Il legislatore ha inserito nel citato articolo un secondo comma, il quale prevede che «nei casi di cui all’articolo 52, commi secondo, terzo e quarto, del codice penale, la responsabilità di chi ha compiuto il fatto è esclusa», tout court: in buona sostanza, l’atto di difesa (legittima) non costituisce un illecito giuridico, con la conseguenza che non genera un obbligo di indennizzo. Invece, il 3 comma (sempre oggetto di modifica della l. n. 36/2019) stabilisce che nei casi di eccesso colposo di colui che ha commesso il fatto per salvaguardare la propria o altrui incolumità, invece, sarà dovuta al danneggiato un’indennità la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice, che dovrà però tenere conto della gravità, delle modalità realizzative e del contributo causale della condotta posta in essere dal danneggiato stesso.

La nuova legge interviene anche in materia di spese di giustizia inserendo, dopo l’art. 115 del Testo Unico delle spese di giustizia (D.P.R. n. 115/2002), un nuovo art. 115-bis. La norma estende il gratuito patrocinio alla persona nei cui confronti si procede penalmente per fatti commessi in condizioni di legittima difesa o eccesso colposo “domiciliare” ex art. 52, commi secondo, terzo e quarto, c.p. come modificati, ma in favore del quale è disposta l’archiviazione o sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento perché il fatto non costituisce reato, in quanto commesso in presenza delle condizioni di cui all’art. 52, commi secondo, terzo e quarto, del codice penale nonché all’articolo 55, secondo comma del medesimo codice.

3. Presunzione relativa del dato normativo: focus della giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., sez. V, n. 40414/2019)

Successivamente all’entrata in vigore della riforma del 2019, la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n.40414/2019, è tornata a pronunciarsi sull’applicazione della legittima difesa c.d. domiciliare. Con tale pronuncia, la Corte ha respinto il ricorso promosso da un uomo che era stato condannato, nel merito, per lesioni personali aggravate. Il ricorrente lamentava il mancato riconoscimento, a suo favore, della scriminante della legittima difesa, evidenziando che, nel caso di specie, si sarebbe dovuta ravvisare quanto meno l’ipotesi della c.d. legittima difesa putativa per errore incolpevole dell’agente, determinato dal comportamento della persona offesa (ovvero l’intruso), che si era introdotta nella casa dell’imputato ingenerando in costui un giustificato timore non solo per i propri beni, ma anche per la sua incolumità. La difesa eccepiva che i giudici del merito hanno ritenuto necessario, ai fini del riconoscimento della scriminante, un attacco alla persona e non già sufficiente la mera introduzione nel domicilio dell’aggressore in assenza di un attentato alla incolumità propria o di altri.

La Quinta sezione penale ha giudicato infondate le doglianze del ricorrente, ribadendo il principio di diritto fatto proprio dalla giurisprudenza dominante, secondo cui «la causa di giustificazione di cui all’art. 52 c.p., non consente una indiscriminata reazione nei confronti di un soggetto che si introduca fraudolentemente nella propria dimora, ma presuppone un attacco, nell’ambiente domestico, alla propria o altrui incolumità o, quanto meno, un pericolo di aggressione» (Cass. pen., Sez. V, 30 marzo 2017, n. 44011; Cass. pen., Sez. V, 2 luglio 2014, n. 35700). Nella fattispecie vi sarebbe stata solo la mera intrusione del ladro nel domicilio dell’imputato, non accompagnata da altre circostanze rilevanti ai fini dell’operatività della presunzione di proporzionalità tra offesa e difesa di cui all’art. 52, comma 2, c.p., né idonee a far ritenere necessaria una difesa contro una offesa ingiusta. Né si può giungere ad una diversa soluzione anche a seguito dell’introduzione della recente l. n. 36 del 2019, in quanto anche in questo caso occorre sempre che l’intrusione sia avvenuta con violenza o minaccia per poter scriminare la reazione violenta del titolare dello ius excludendi. È parimenti da escludere anche la sussistenza della fattispecie del c.d. eccesso colposo, ex art. 55 c.p., perché stante l’accertata insussistenza dell’aggressione ingiusta e della necessità di difendersi, non si tratta di stabilire la proporzionalità della difesa rispetto alla offesa, mancando a monte il bisogno di rimuovere un pericolo attuale.

La Cassazione, nell’interpretazione della norma al caso concreto, ha temperato l’assiomatica previsione legislativa ancorandosi alla consolidata giurisprudenza di legittimità. Gli ermellini hanno, infatti, sostenuto che «La legittima difesa domiciliare presunta richiede che l’intrusione nell’altrui domicilio avvenga con violenza o minaccia affinché l’azione lesiva posta in essere da chi reagisce risulti presuntivamente scriminata. Detta presunzione, tuttavia, non è da ritenersi assoluta ma relativa».

Alla luce di tale autorevole sentenza della giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., sez. V, n. 40414/2019), appare chiaro che, anche dopo l’avvento della l. n. 36/2019, «la causa di giustificazione di cui all’art. 52 c.p. non consente un’indiscriminata reazione contro chi si introduca fraudolentemente nella propria dimora», passando dalla difesa “sempre” legittima dell’art.52 c.p. (così come novellato dalla l. n. 36/2019) alla presunzione “relativa” della giurisprudenza.

Dunque, a nulla sono servite le modifiche introdotte dal legislatore nel corso degli anni – prima nel 2006 e successivamente nel 2019 – in quanto anche nel domicilio o in un luogo di privata dimora, il giudice, in ogni caso, non potrà comunque esimersi da un accertamento concernente le concrete circostanze in cui si è svolto il fatto, attraverso cui verificare la sussistenza dei presupposti della citata presunzione: emblematica, in tal senso, la sentenza di cui sopra. Ebbene, quest’ultimo intervento legislativo, anziché migliorare la già mal formulata norma incriminatrice (art. 52 c.p.) frutto della riforma del 2006 (che ha costituito un arretramento verso la legislazione di tipo “casistico”, in netto contrasto con i dettami del diritto moderno, fondato su previsioni di carattere generale e astratto), è risultato, ancora una volta, fallimentare sotto il profilo della tecnica normativa: il testo approvato dal legislatore, piuttosto che riuscire ad indicare in modo preciso e univoco come possa legittimamente reagire il padrone di casa o di negozio minacciato dal ladro o dal rapinatore, è mal congegnato, tale che ogni sua possibile interpretazione si espone a riserve critiche. Nella specie, lo slogan “la difesa è sempre legittima” che ha accompagnato il varo di questa riforma potrebbe comportare la rincorsa al possesso più o meno legittimo di armi da parte delle categorie e dei ceti più esposti i quali, d’ora in avanti, avrebbero “la licenza di uccidere” ladri e rapinatori che si introducono nelle abitazioni e nei negozi, con la conseguente maggiore violenza di una delinquenza consapevole dell’accresciuta aggressività “difensiva” delle potenziali vittime.


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Francesco Castaldo

Classe 1995, laureato in Giurisprudenza presso l´Università degli Studi di Salerno con una tesi di ricerca in Diritto Processuale Penale dal titolo ”Le indagini della Polizia Penitenziaria tra prevenzione e repressione”, con votazione di 105/110. Ha conseguito il certificato di qualifica professionale in ”Forensic Examiner - Esperto di Sciente Forensi, Criminologia investigativa e Criminal Profiling” presso la CSI Academy Srl , nonché l'attestato di frequenza del Corso di Perfezionamento in diritto penale ”Giorgio Marinucci” - II Modulo , dal titolo ”Criminalità dei colletti bianchi e misure di prevenzione” presso l´Università degli Studi di Milano. Attualmente, è Praticante Avvocato e Tirocinante ex art. 73 d.l. 69/2013 presso la Procura della Repubblica di Avellino.

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